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Una serata per Arnaldo Cestaro

A Porcari (Lucca) una sala teatrale intitolata al più anziano tra i pestati della scuola Diaz. Che ha ottenuto giustizia solo grazie alla corte di Strasburgo

Succede a Porcari, piccolo comune nei dintorni di Lucca, che il locale Centro per le arti contemporanee — denominato Spam — inaugura la nuova stagione con un gesto molto speciale e inaspettato, l’intitolazione della sala teatrale ad Arnaldo Cestaro.

Arnaldo è il cittadino che nell’aprile scorso ha vinto un importante ricorso contro lo stato italiano alla Corte euro­pea per i diritti umani. I giudici di Strasburgo hanno detto che il cittadino Cestaro, umiliato, picchiato e arrestato ingiustamente alla scuola Diaz nel luglio del 2001, non ha ottenuto giustizia: lo stato italiano deve risarcirlo e rimediare alle gravi carenze che hanno impedito di assicurare tutti i colpevoli alla giustizia e anche di agire con sospensioni, rimozioni e riforme (una legge sulla tortura, i codici sulle divise) al fine di prevenire ulteriori abusi.

Roberto Castello, coreografo e direttore artistico del centro Spam, non è un attivista politico ma una persona attenta a quel che gli accade intorno. Quando mi ha chiamato per invitarmi a partecipare alla cerimonia di inaugurazione, venerdì 9 ottobre, mi ha detto che «c’è qualcosa di poetico» nella vicenda di Arnaldo e nella sua lotta per la giustizia. Un cittadino comune, una persona per­bene, un «uomo del popolo», ha indicato lo stato italiano, i suoi avvocati, i suoi capi della polizia, i suoi ministri, e ha mostrato a tutti che sono nudi, coperti solo di una protervia che non si può più fingere di non vedere.

Ho conosciuto Arnaldo il 22 luglio del 2001, a Genova, quando ci siamo trovati insieme in una camera dell’ospedale Galliera, entrambi feriti e arrestati. Avevamo in stanza con noi quattro agenti, due a testa, mandati lì per controllarci nella nostra condizione di detenuti per reati gravissimi come il porto d’armi da guerra, la resistenza aggravata a pubblico ufficiale, l’associazione a delinquere finalizzata a devastazione e saccheggio.

Fa ridere, ma secondo la polizia che ci aveva arrestato, io e Arnaldo, ignoti fino a quel momento l’uno all’altro, insieme con qualche decina di sconosciuti, formavamo una combriccola che si era distinta nei giorni precedenti negli attacchi a banche, agenzie interinali, supermercati e altre azioni del genere.

Eravamo parte, forse addirittura il cuore del famigerato Black Bloc.

In ospedale Arnaldo era chiamato «il vecchino», perché gli agenti di custodia — furono loro a usare per primi quell’epiteto — non si capacitavano di trovarsi di fronte una persona come lui: si aspettavano un «facinoroso» – giovane, forte e irragionevole — corrispondente allo stereotipo dell’«antagonista violento». E invece Arnaldo con i suoi 62 anni, una carica di umanità e di empatia senza uguali, con un braccio al collo e una gamba ingessata, concionava in ospedale, in mezzo agli altri malati, sull’enorme manifestazione del giorno prima, sulla forza del movimento nato fra Seattle e Porto Ale­gre, sul grande cambiamento sociale in arrivo grazie alla rete globale in via di formazione, nonostante la repressione poliziesca.

Arnaldo aveva un’energia, uno slancio, un ottimismo che stridevano con la nostra condizione del momento e col mio senso d’angoscia. Io ero come paralizzato, lui guardava avanti senza paura. Parlava con gli agenti di custodia, spiegava loro le ragioni del movimento – la democrazia, la remissione del debito, l’acqua pubblica, la libertà di movimento dei migranti – e quelli lo guardavano sconcertati. Arnaldo scherzava, con quegli agenti e con me («ma che ci fai te qui, che lavori in un giornale borghese?») e io dovevo trattenere il riso, in quelle ore cupe, perché ogni risata era una fitta all’addome, coperto di ematomi.

Oggi Arnaldo, a 76 anni, è ancora un promotore di cambiamenti, un uomo che lotta con il sorriso sulle labbra. Molti lo guardano con sufficienza, per via dell’estrazione popolare, perché di mestiere fa il rottamaio, perché crede nel socialismo, perché ha studiato, come dice lui con autoironia, alle «scuole alte» («le elementari al mio paese erano al primo piano, non al pianterreno»). Ma Arnaldo ha molto da insegnare. Ad esempio che la lotta, anche la più dura, non deve mai portare alla mancanza di rispetto: l’ha dimostrato, fra le tante volte, quando si è avvicinato in aula, con gentile fermezza, a uno dei massimi dirigenti imputati nel processo Diaz, chiedendogli perché non si assumesse le sue responsabilità.

Arnaldo insegna la centralità dell’empatia e della fiducia nell’altro. Chi lo osserva da lontano, pensa di solito che il personaggio, col suo fazzoletto rosso al collo, con la sua fiducia nel futuro, sia troppo naif per avere un ruolo credibile in questa società, ma Arnaldo è una persona in grado di dialogare con chiunque: con l’intellettuale (è uno che legge, si informa e si aggiorna su tutto ciò che gli sta a cuore) e con l’uomo della strada; col militante di sinistra e col prete del paese; con l’avvocato e con la gente comune che lavora duro, come gli immigrati del suo paese che spesso chiama a lavorare con sé.
Arnaldo ha vinto per tutti noi la sua battaglia di giustizia davanti alla Corte di Strasburgo e Roberto Castello è forse il primo a mostrare con un gesto concreto d’aver capito quanto è stata importante questa sua e nostra vittoria.

La sentenza di Strasburgo indica all’Italia, ai suoi governanti come ai suoi cittadini, un’enorme questione aperta in materia di diritti umani e di gestione democratica delle forze di polizia. La vittoria di Arnaldo indica anche un’altra cosa: che è possibile lottare, che non tutto è perduto, che l’ostinazione alle volte paga, anche in tempi di rassegnata apatia, anche dentro un sistema che concentra i poteri e relega i cittadini al ruolo di comparse.

Sì, c’è della poesia nella vicenda di Arnaldo. Le arti contemporanee, allo Spam di Porcari, avranno nella Sala Arnaldo Cestaro un luogo degno per esprimersi.

Lorenzo Guadagnucci da il manifesto

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