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Un tratto di penna sul diritto penale

Mai, neppure in epoca fascista, i principi di civiltà giuridica e le regole di convivenza avevano subito uno strappo così profondo e lacerante

Nel nostro Paese c’è, ormai da anni, un dato costante. I reati diminuiscono: quelli più gravi (gli omicidi sono scesi da 1.901 nel 1991 a 468 nel 2015, molta parte dei quali commessi tra le mura domestiche) e quelli più modesti (nel 2016 i furti d’auto sono stati 108mila, con una diminuzione di oltre il 10% dal 2014). Eppure la grancassa mediatica, sull’onda di alcuni drammatici episodi, racconta una storia diversa di insicurezza crescente. E la politica, alla disperata ricerca di un consenso elettorale che ne occulti la crisi, si adegua e cavalca la tigre. Così la destra e quella che un tempo si definiva sinistra fanno a gara nell’aumentare le pene, nel trasformare i sindaci in sceriffi, nel trasformare lo stato sociale in stato penale. Basta guardare gli ultimi interventi di governo e parlamento. Il 20 febbraio il governo ha varato il «decreto sicurezza» finalizzato al «rafforzamento della vivibilità dei territori» e al «mantenimento del decoro urbano», che attribuisce ai sindaci significativi poteri in tema di ordine pubblico (anche avvalendosi del contributo di «soggetti privati»), amplia il loro potere di emettere ordinanze nei confronti di specifiche categorie di cittadini (legate a presupposti generici e indeterminati come la difesa da «incuria e degrado» o la tutela «del decoro e della vivibilità urbana»), introduce pesanti limitazioni alla libertà di movimento e stazionamento in determinate aree cittadine, estensione del Daspo previsto per le manifestazioni sportive a situazioni di marginalità sociale e via elencando. Poco meno di un mese dopo, poi, il Senato ha licenziato e trasmesso alla Camera il disegno di legge che modifica, tra l’altro, alcune parti del codice penale prevedendo un aumento spropositato delle pene, in particolare per i reati contro il patrimonio (a cominciare dalla fissazione di un minimo di tre anni di carcere per il furto in abitazione o «con strappo»).

Evidentemente non bastava. Così ieri la Camera ha approvato un nuovo abnorme ampliamento delle ipotesi di legittima difesa dopo quello intervenuto nel 2006, in un’altra stagione di enfasi sicuritaria diffusa. Già ora – è bene ricordarlo – è possibile per il cittadino difendersi da offese o aggressioni ingiuste a un proprio diritto e l’articolo 52 del codice penale prevede che è lecito a tal fine anche usare armi per difendere «la propria o l’altrui incolumità» e «i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione» se il fatto avviene in un’abitazione o «in luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale». Il cittadino, dunque, non è certo lasciato in balia della criminalità ed anzi le sue possibilità di reazione legittima sono assai estese (addirittura oltre il limite della proporzione tra offesa e difesa)! Ma il testo approvato dalla Camera – frutto, manco a dirlo, di un emendamento del Pd – va ben oltre, rendendo legittimo il ricorso alle armi in caso di aggressione che si verifichi «di notte» o con «violenza sulle persone o sulle cose», escludendo ogni responsabilità anche a titolo di colpa per chi eccede nella difesa se si trova in uno stato di «grave turbamento psichico causato dalla persona contro la quale è diretta la reazione», prevedendo che siano a carico dello Stato le spese legali sostenute da chi, sottoposto a processo, viene assolto per avere agito in stato di legittima difesa.

Siamo – se mai la norma sarà approvata anche dal Senato – a un salto epocale. Mai, neppure in epoca fascista, i principi di civiltà giuridica e le regole di convivenza avevano subito uno strappo così profondo e lacerante. È l’introduzione nel sistema di una sorta di (possibile) pena di morte privata, cioè decisa dalla persona offesa (o dalla presunta persona offesa) e da essa direttamente inflitta. È la cancellazione, con un tratto di penna, del diritto penale moderno che ha come idea guida e ragion d’essere la sottrazione del reo alla vendetta privata e l’attribuzione esclusiva allo Stato del potere di punire le condotte illecite, all’esito di un processo garantito e ad opera di un giudice imparziale. La promessa elettorale di maggior sicurezza («vi difenderemo meglio») svela, infine, il suo reale contenuto: «difendetevi da soli e, comunque, vi garantiremo l’impunità».

La «sicurezza», a cui tutti, legittimamente e giustamente, aspiriamo, non è l’effetto di più carcere, di più repressione o, addirittura, di una diffusa licenza di uccidere. Essa è altro: avere una prospettiva di vita degna di essere vissuta per noi e per i nostri figli, vivere in un ambiente accettabile e ospitale, sapere di non essere considerati rifiuti per il solo fatto di essere vecchi o malati o stranieri e via elencando. Certo la paura e l’inquietudine sono alimentate anche dalla diffusione di forme di criminalità e di comportamenti devianti; e, in ogni caso, a chi ha paura occorre dare risposte e non citare statistiche. Ma ciò rappresenta l’inizio, non la fine, del discorso. È, in altri termini, la base su cui costruire con pazienza e senza demagogia risposte attendibili. Un tempo questa era la strada tracciata dalla sinistra. Oggi a sostenerlo sembra essere rimasto, sulla scena mediatica, solo un comico (Maurizio Crozza che, qualche settimana fa, nel denunciare l’irrazionalità del crescendo repressivo, ha snocciolato con apparente candore i dati della sanguinosa escalation di delitti di sangue che caratterizza gli Stati Uniti, il paese in cui c’è la maggior diffusione di armi per difesa personale). C’è di che riflettere.

Livio Pepino

da il manifesto

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