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Un morto in carcere non fa mai riflettere

I dannati della terra possono anche morire nel silenzio, dimenticati in vita e in morte.

di Federico Giusti

Parliamo dei detenuti che una volta varcati i cancelli di un istituto di pena vengono letteralmente dimenticati, condannati a espiare una pena che dimentica qualsiasi percorso riabilitativo.

Quanto accaduto pochi giorni fa , con il suicidio di un giovane di 18 anni arrivato in Italia dopo il solito estenuante viaggio per l’Africa, dopo avere subito i maltrattamenti nei campi in Libia dovrebbe invece indurci a qualche riflessione.

Parliamo di un giovane di appena 18 anni morto carbonizzato nella sua cella, era stato arrestato mesi fa per una rapina, era in attesa di giudizio

Non è dato sapere la dinamica dei fatti, la sta ricostruendo la Procura di Milano, ma parliamo di un caso particolare, di un giovane considerato non condannabile, da minorenne, dopo una perizia psichiatrica che lo aveva dichiarato incapace di intendere e di volere.

Per le sue condizioni di salute e la lieve entità dei reati il carcere non era certo il posto idoneo dove attendere il processo, la morte per soffocamento con il materasso forse bruciato per una forma di protesta contro il sovraffollamento e le condizioni di vita disumane, il suo avvocato racconta che era arrivato con un barcone con piedi e mani legate, incapace di parlare, vittima di traumi che avevano provocato seri danni al suo sistema nervoso

San Vittore è il carcere più sovraffollato d’Italia, ospita più del doppio dei detenuti previsti un terzo dei quali in età inferiori ai 30 anni, i tre quarti non sono cittadini italiani, molti di loro hanno subito violenze inaudite che hanno compromesso lo stato di salute, eppure restano chiusi in celle sovraffollate dove le loro patologie non possono essere curate. Il carcere è lo specchio della società e quella in cui viviamo è sempre meno incline ad occuparsi della marginalità, dei meno abbienti vittima com’è di logiche securitarie  e disumane.

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