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Tunisia: il calvario dei rifugiati africani

Le migrazioni raccontate dalla sponda sud del Mediterraneo. Da più di cinque mesi rifugiati e richiedenti asilo protestano davanti alla sede dell’Unhcr a Tunisi. Abbandonati a loro stessi sopravvivono con espedienti di fortuna in una nazione alle prese con crescenti difficoltà economiche, politiche e sociali. Le loro richieste di essere trasferiti in paesi più sicuri, sono rimaste finora inascoltate 

di Giulia Beatrice Filpi

Nur è accampata insieme ai suoi quattro figli, ai piedi della principale sede tunisina dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), l’agenzia Onu che si occupa di protezione internazionale. Siamo a rue du Lac, in uno dei quartieri più costosi ed eleganti della capitale Tunisi.

La donna e i ragazzi, di età compresa tra gli otto e i sedici anni, siedono sotto un telo, steso sulle transenne di metallo che circondano l’edificio: questo riparo è stato il loro unico tetto per oltre un mese e mezzo, spiega Nur. In questo momento, degli operai stanno sistemando del filo spinato intorno alla struttura.

Quest’ultima è bersaglio di proteste da aprile scorso, quando circa duecento persone tra richiedenti asilo e rifugiati hanno iniziato a presidiarla, chiedendo l’evacuazione in un altro paese e denunciando di non sentirsi al sicuro in Tunisia. Il sit-in è stato poi sgomberato, a giugno, ma un piccolo gruppo di sudanesi continua a riunirsi qui, ogni settimana, per manifestare.

«Abbiamo bisogno di una soluzione» sospira Nur, in arabo, mentre gli operai, imbarazzati, invitano lei e i bambini a spostarsi altrove per qualche minuto, al fine di poter completare il loro lavoro.

La donna ha lasciato Tripoli insieme al marito e alla famiglia per paura che, crescendo, il suo primogenito venisse costretto ad arruolarsi nelle milizie, come spesso accade a giovani e giovanissimi tuareg in Libia. Sebbene abbia chiesto e ottenuto lo status di rifugiata per sé e per i suoi familiari, Nur vive completamente abbandonata a sé stessa: avrebbe bisogno di cure per il diabete, di poter mandare i figli a scuola, di un accesso all’acqua potabile e ai servizi più elementari.

A sostenerli, per ora, è unicamente la solidarietà di qualche individuo, come il negoziante che gestisce uno spaccio alimentare poco lontano. Il 21 settembre scorso, anche una donna del Darfur, accampata qui con i suoi bambini, aveva raccontato a Nigrizia di vivere una situazione analoga, ma da allora di lei non si sono avute altre notizie.

Come Nur, anche Mustapha e Mohammed, che chiedono di usare nomi di fantasia per tutelare la loro privacy, sono nomadi di etnia tuareg e, in quanto tali, apolidi. Sono arrivati in Tunisia con le rispettive famiglie dopo aver attraversato la Libia dove, sebbene non avessero mai ottenuto la nazionalità, entrambi lavoravano come farmacisti. Anche loro, però, temevano per l’arruolamento dei propri figli, ed è per questo che, nel 2019, hanno preso la strada della Tunisia.

Qui sono stati ospitati prima in centri dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) a Medenine, poi, quando il periodo in cui possono essere assistiti è giunto al termine, si sono spostati a Zarzis, dove hanno partecipano a un primo sit-in davanti alla sede dell’Unhcr.

Ad aprile sono arrivati a Tunisi, dopo aver subito un arresto arbitrario lungo la strada, e a giugno sono stati trasferiti in un centro di accoglienza a Er-Rawad, un comune della banlieue a venti chilometri dal centro della capitale. Qui continuano a vivere in un limbo: non possono ottenere documenti, iscrivere i bambini a scuola, accedere a un lavoro, sottoscrivere un contratto di affitto o telefonico.

A complicare le cose è la loro condizione di apolidi, ma anche rifugiati che hanno una nazionalità riscontrano problemi analoghi, anche perché la Tunisia, pur avendo sottoscritto il protocollo di Ginevra, non ha mai varato una legge sull’asilo.

«We need evacuation», ripete Mustapha in inglese: non vuole rimanere in Tunisia, dove ha perso un bambino di due anni, subìto vari tentativi di furto, una detenzione arbitraria e dove sua moglie ha denunciato di essere stata aggredita all’interno dello stesso centro di Er-Rawad.

«We need evacuation» è anche la richiesta di Abderrahman, che ha sedici anni ed è scappato dal conflitto in Darfur quando ne aveva tredici. Il ragazzo vive in un accampamento informale nei pressi della sede dell’Oim di Tunisi, dove è stato fatto trasferire insieme ad una cinquantina di altre persone, dopo lo sgombero del sit-in alla sede Unhcr.

Nell’accampamento le persone, tra cui anche una donna incinta al sesto mese, vivono raccogliendo la plastica che trovano in strada. Con tre o quattro chili di plastica riescono a mettere insieme l’equivalente di circa un euro al giorno: così si procurano qualcosa da mangiare, spiegano, ma non possono permettersi nient’altro.

In Libia Abderrahman è stato per diciotto mesi, dodici dei quali in carcere, poi ha tentato di raggiungere l’Italia, imbarcandosi a Zwara. In mare, è stato bloccato dai guardacoste tunisini e portato nel sud della Tunisia e da qui, dopo aver partecipato al sit-in di Zarzis, si è mosso verso Tunisi.

Determinato a raggiungere l’Europa, il giovane si è rifiutato di trasferirsi negli alloggi offerti dall’Unhcr a Er-Rawad, per continuare a rivendicare quello che ritiene gli spetti: «Andare in Europa, si dice che sia la patria dei diritti umani». «Non siamo qui per mangiare o perché vogliamo un letto», insiste il giovane: «Siamo rifugiati, vogliamo ripartire».

In un paese impoverito dalla crisi politica, economica e dall’inflazione, soluzioni e risposte durature per persone come Nur, Mustapha, Mohammed e Abderrahman sembrano molto lontane. L’emigrazione degli stessi tunisini è tornata ad aumentare, in questi mesi, anche da parte di persone con un lavoro e alti livelli di istruzione. Un incremento confermato anche dai recenti dati del Viminale secondo cui i tunisini rappresentano oggi la prima cittadinanza di provenienza delle persone sbarcate in Italia (21%).

Per molti dei quasi 10mila richiedenti asilo e rifugiati presenti sul suolo della Tunisia, il paese non è che un luogo di passaggio, ma gli stati occidentali, e l’Italia in primis, lo considerano un luogo sicuro, e quasi mai accettano di ospitare chi chiede di essere trasferito da qui.

«Questi migranti hanno lasciato i loro paesi in guerra, e qui in Tunisia non siamo davvero un paese sicuro, nemmeno per i tunisini» osserva Romdhane Ben Amor, dell’ong Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes), alludendo in particolare alla stretta autoritaria che il presidente della repubblica Kais Saied ha messo in atto a partire dal 25 luglio dell’anno scorso.

«Bisogna che l’Ue si assuma le sue responsabilità, soprattutto nel Mediterraneo centrale, per salvare le vite delle persone che sono in situazione di vulnerabilità, sia in Tunisia, sia in Libia» aggiunge l’attivista.

Nel frattempo, l’autunno è arrivato, e sul giaciglio di Nur e dei suoi bambini, da qualche giorno, ha iniziato a cadere la pioggia.

Articolo a firma di Giulia Beatrice Filpi pubblicato su sito di  Nigrizia

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