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Trenta migranti reclusi in un autobus per una settimana

La denuncia al prefetto di Udine arriva dal mondo delle associazioni: trenta cittadini stranieri rinchiusi su bus senza servizi igienici per l’assenza di posti in accoglienza e l’impossibilità di reperirli

Reclusi per una settimana intera dentro un autobus, senza servizi igienici e sotto il costante controllo delle forze dell’ordine che impedivano loro di allontanarsi dal veicolo. Questa è stata la sorte di 30 cittadini stranieri appena giunti in Italia, giustificata dal fatto che ci sarebbe stata l’assenza di posti in accoglienza e l’impossibilità di reperirli.

A denunciarlo, tramite una lettera inviata il 14 settembre 2020 al Prefetto di Udine e al Capo del Dipartimento della Protezione Civile, sono le associazioni Action Aid, ASGI, Intersos e numerose sigle del territorio. Hanno ricordato alle istituzioni che con il “Decreto Cura Italia”, in vigore dal 17 marzo 2020, i Prefetti hanno acquisito poteri straordinari al fine di assicurare la possibilità di ospitare persone in isolamento fiduciario nel caso in cui queste non potessero farlo presso il proprio domicilio. Nel testo, infatti, è per di più specificato che il Prefetto può requisire «strutture alberghiere, ovvero di altri immobili aventi analoghe caratteristiche di idoneità, per ospitarvi le persone in sorveglianza sanitaria e isolamento fiduciario o in permanenza domiciliare, laddove tali misure non possano essere attuate presso il domicilio della persona». Le associazioni ritengono che tenere segregati i migranti dentro l’autobus sia lesiva della dignità umana e non rispetti gli standard minimi di accoglienza previsti dalla nostra Costituzione e dal diritto internazionale, comunitario e italiano, e che possano essere configurate come trattamento inumano e degradante vietato dall’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti umani.

Le associazioni chiedono, inoltre, che venga garantito «l’accesso all’informativa in materia di protezione internazionale e l’orientamento legale ai cittadini stranieri, come avviene ad esempio nella vicina città di Trieste all’interno delle strutture per l’isolamento fiduciario dei cittadini stranieri che giungono in Italia dalla rotta balcanica».

Infine, le associazioni firmatarie auspicano che le autorità competenti non intendano ricorrere alla soluzione di ospitare su unità navali, per il periodo della quarantena, i migranti che giungono in Friuli Venezia Giulia in modo autonomo attraverso le frontiere terrestri, come indicato nell’Avviso pubblicato il 10 settembre dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Una soluzione, si legge sempre nella lettera, «discriminatoria e lesiva dei diritti delle persone interessate, oltre che più costosa e meno efficiente dal punto di vista della predisposizione delle misure di prevenzione sanitaria. Inoltre, non risulta esservi alcuna necessità di ricorrere alle c. d. “navi quarantena”, posto che sul territorio della Regione Friuli Venezia Giulia vi è un sufficiente numero di strutture che potrebbero essere utilizzate a tale scopo, come peraltro rappresentato da alcuni dei Prefetti del Friuli Venezia Giulia alla ministra dell’Interno nel corso della sua recente visita a Trieste».

Come detto, il prefetto ha giustificato tale azione perché sarebbero assenti i posti di accoglienza. Ma le associazioni hanno ricordato che il Viminale, ad agosto, ha redatto un dossier che rileva una diminuzione del 17% delle persone ospitate in accoglienza ( al 31 luglio 2020 rispetto allo stesso giorno del 2019). L’assenza di trasparenza e la scarsa accountability del sistema non consentono quindi di confutare o confermare le affermazioni del Prefetto di Udine sullo stato dei centri di sua competenza. «Non possiamo quindi – scrivono le associazioni – che tornare a chiedere che, sia per le condizioni di accoglienza, sia per le comunità ospitanti, nonché per una migliore gestione in periodo di pandemia, il ripristino al più presto un sistema efficace di microaccoglienza diffusa a titolarità pubblica».

Damiano Aliprandi

da il dubbio

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