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Come ti smaltisco il surplus: con la guerra

“Finché c’è guerra c’è speranza” titolava un vecchio film. E di guerre ce ne sono sempre state tante. Anche negli ultimi settant’anni. Qualcuna desta il clamore dei media, altre, la maggioranza, sono misconosciute. Ma tutte hanno un ruolo nel processo di eliminazione del sovra prodotto. Perché le armi sono merci pregiate: fabbricarle e venderle è un affare ma ancor più lo è accumularle per poi sostituirle con altre.

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Bisogni, prodotto sociale, surplus

L’uomo si procaccia i mezzi di sussistenza tramite la natura e il proprio lavoro. Coadiuvato da un elemento proprio della specie: la tecnologia. Eredità di una caratteristica già presente nell’homo sapiens: il pollice opponibile. Solo gli umani sono in grado di stringere un oggetto con le mani. Questo ha dato avvio alla fabbricazioni di utensili che, nel tempo si sono evoluti (insieme all’uomo) in modo straordinario. La tecnologia, quale principale variante nel processo di produzione, ha assunto, via via, maggiore importanza e anche una (rischiosa) indipendenza. Capace di travalicare, a volte, la capacità di decisione dell’operatore. Inoltre è alla base dell‘ideologia del progresso che riduce natura e lavoro a entità da sfruttare. Con tutto ciò che ne consegue. Il prodotto sociale, che ne deriva, viene, sia pur in maniera iniqua, ridistribuito. Ma non tutto è consumato. La parte restante la definiamo sovra-prodotto (o surplus). Fin dall’antichità questa eccedenza è stata causa di conflitto. Ogni epoca è costellata da lotte e da guerre condotte per la sua appropriazione. Ma anche la sua eliminazione (fenomeno meno evidente) ha importanza. Ne abbiamo esempi nella storia, altri ne cercheremo nella presente situazione. In passato i potenti hanno destinato la parte dei mezzi di sussistenza scampata alle guerre e alla loro opulenza alla costruzione di imponenti monumenti, tributo a se stessi e agli dei. Con il lavoro, nutrito dal sovra-prodotto, si sono realizzate opere pregevoli che ancor oggi ammiriamo. Esempi, comunque, di dispersione di una parte del prodotto sociale. Ulteriore riprova che l’economia reale è materia per dominatori. In estrema, grossolana, sintesi: la miseria di molti è condizione necessaria per la ricchezza di pochi.

Eliminazione del sovra prodotto nell’epoca del capitale

Straordinaria importanza ha assunto, negli ultimi due secoli, l’eliminazione (o l’accantonamento) del surplus. La scena è dominata dal capitale, il lavoro morto che si trasforma in profitto. Ancor più che in passato si accentua la contraddizione tra il prodotto sociale e la sua appropriazione privata. L’abnorme sviluppo della tecnologia permette di realizzare un’immensa quantità di beni. Merci e servizi. Molti di più di quelli richiesti dal mercato. Il loro smaltimento è condizionato dalla solvibilità della domanda. Senza soldi non si compra. L’invenzione del credito al consumo ha solo in piccola parte limitato il problema. L’anarchia del mercato (ciascun imprenditore rincorre il proprio profitto) mostra il carattere prettamente ideologico delle teorie economiche liberiste. Non può esistere equilibrio duraturo tra domanda e offerta. Le crisi di sovrapproduzione sono insite nel sistema. Si tenta di far spazio a nuove merci per non interrompere il flusso della produzione, condannata, per le leggi del capitalismo, a crescere indefinitamente. Anche se i bisogni (quelli solvibili) restano limitati. Una parte della grande massa di merci prodotta diventa surplus. La sua, almeno parziale, eliminazione è condizione necessaria perché non si interrompa il processo di accumulazione. Perché non si incorra nell’inutile (e dannoso) accumulo o nella stagnazione. È il mercato che definisce molti bisogni. Oggi più che mai. E, soprattutto, la qualità del loro soddisfacimento. Alcune merci, ad esempio, nascono già “scadenti”, destinate a durare poco, a volte sulla base di un’obsolescenza programmata. L’importante è che vengano acquistate. Se poi durano poco, tanto meglio… La pubblicità (quella dichiarata e quella “occulta” del sistema) gioca, al riguardo, un ruolo fondamentale. La ricercata, perenne, insoddisfazione del consumatore permette di gettare sul mercato prodotti che, senza reale necessità, devono sostituire i precedenti. I quali finiscono nella massa dello spreco. Forma di eliminazione del surplus. Come, di fatto, lo è anche, l’accumulo dei beni che il non uso ha reso inutili. Anzi, dannosi in quanto occupano gli spazi (non solo materiali) dell’esistenza. L’industria del rifiuto è una novità degli ultimi due secoli. Importante quanto problematica. Richiede apposite filiere per lo smaltimento e (lo scarso) riuso di quanto viene scartato. Se aggiungiamo l’incuria verso la natura e la nocività di molte produzioni abbiamo alcune cause del degrado delle condizioni ambientali. Il saccheggio delle risorse (in parte poi sprecate) e il loro scriteriato uso provoca l’alterazione degli equilibri naturali di lunga durata. Trasformazioni che il pianeta è in grado di sopportare. Ma l’uomo no.

Il ruolo della mano pubblica

Ma lo spreco non basta a rimettere in moto il sistema inceppato. Si compra meno e la situazione critica rischia di avvitarsi su se stessa. Diventa necessario un aiutino pubblico. La teoria liberista lo vede con orrore, ma, per necessità, è sempre pronta a invocarlo. Per la verità anche in periodi normali l’intervento pubblico risulta gradito. Del resto cos’altro sono le grandi iniezioni di liquidità che USA e Unione Europea immettono sul mercato con programmi che hanno, in primo luogo, l’ambizione di favorire la produzione? Senza troppo badare all’utilità della stessa. Nemmeno scandalizza il protezionismo (ricercato) che ne consegue. Tutto, ovviamente, senza mettere in dubbio la sacralità della teoria economica. Tuttalpiù preoccupano i contraccolpi che si possono avere sulla finanza. L’intervento pubblico ha un ruolo anche nell’eliminazione del surplus. A questo scopo si progettano opere inutili. Anzi dannose per l’ambiente: TAV, ponte di Messina… Si creano eventi con esiti desolanti se visti dal punto di vista dell’uso e consumo sociale del prodotto. Qualche esempio in Piemonte: trampolino a Pragelato, sito olimpico del freestyle a Sauze D’Oulx, stadio delle Alpi a Torino… Costruzioni demolite o da demolire dopo pochi anni dalla loro inaugurazione. Anche questa è una forma di dispersione del surplus. Osserviamo qualche situazione. Milioni di auto in sosta (quasi) perenne ai bordi delle vie rendono critica la vita in città. Il loro scarso utilizzo è una forma di spreco o di inutile accumulo. Dunque di non uso di una parte del prodotto che, peraltro, sarà destinato, in tempi brevi, a scomparire. Sostituito da auto che ci dicono essere green. Nulla è successo a caso. È lo Stato che ha scelto di favorire il settore delle auto private: strade, autostrade, finanziamenti, incentivi… Ancora: il patrimonio edilizio. Mal distribuito e, in molte zone, in forte eccesso. Tante costruzioni in più del necessario o, meglio, di quante possono essere piazzate sul mercato. O affittate a chi è in grado di pagare la pigione. Tante restano vuote, soggette al degrado del tempo. Anche se per molti abitare una casa decente resta una chimera. I costruttori, però, fanno il loro mestiere e altre aree vergini verranno compromesse. Terreno sottratto all’agricoltura. La principale fonte della nostra sussistenza. Quasi sempre con la benedizione dei Piani regolatori. Sovradimensionati per andare incontro all’interesse privato. Che dire poi della sanità? Ostaggio dell’industria farmaceutica ci offre medicine per ogni evenienza. Le stipiamo negli armadi. E le usiamo con fiducia; basta non leggere il bugiardino. Ci guariscono da tutto, anche dalla sofferenza del vivere. Non dimentichiamo che l’economia è, pur sempre, solo una parte della vita. Anche se ha la pretesa di condizionarla. Si potrebbe andare avanti a lungo… Mi limiterò, per ultimo, a citare quello che è stato denominato “capitalismo dei disastri” o, “politiche ambientali del giorno dopo”. Consiste nell’ignorare la fragilità del territorio per poi intervenire, successivamente. I coccodrilli piangono sulla crudeltà della natura, qualcuno, invece, fa affari. Anche l’incuria è una forma di eliminazione di parte del prodotto sociale.

Armamenti e guerra

Finché c’è guerra c’è speranza titolava un vecchio film, con Alberto Sordi mercante d’armi. E di guerre ce ne sono sempre state tante. Anche negli ultimi settant’anni. Qualcuna desta il clamore dei media, altre, la maggioranza, sono misconosciute. Tutte, come già in passato, hanno un ruolo nel processo di eliminazione del sovra prodotto. Le armi, in particolare quelle usate dagli uomini per ammazzarsi tra di loro, sono merci pregiate. Hanno un loro mercato, molto dinamico, ma, soprattutto un mercato con domanda solvibile. Fabbricarle e venderle è sempre un affare. Sono richieste per l’uso ma, anche, per l’accumulo. Che è, anch’esso, forma con cui si accantona una parte del prodotto sociale. Senza usarlo. Per fortuna… Le armi stipate negli arsenali diventano rapidamente obsolete. Richiedono di essere sostituite da altre più efficaci. Magari rivendendo le vecchie per alimentare conflitti armati nelle periferie del mondo. Interessante notare che, nella corsa a produrre ordigni sempre più potenti, si è arrivati a ciò che non può essere usato. Pena la distruzione dell’umanità. Armi che esistono, sono costate tantissimo, ma non hanno un valore d’uso. Solo di dissuasione o, forse sarebbe meglio dire, di ricatto. Anch’esse, di fatto, sono una quota del prodotto sociale eliminato. Ma sono, soprattutto, quelle che vengono usate a creare le condizioni per ulteriore dispersione del surplus. Usate vengono sostituite. Anzi: si scopre la necessità di averne di più moderne e in quantità maggiore. Magari di destinare ad esse una sempre maggiore quota del Pil. Non solo: distruggendo creano le condizioni per la ricostruzione. Sono un viatico per l’eterno problema del capitalismo: la sovrapproduzione. Dopo la grande depressione del 1929 gli Stati Uniti tamponarono la disastrosa situazione con provvedimenti ispirati, almeno in parte, alle teorie di Keynes. Ma solo la seconda guerra mondiale rilanciò appieno la produzione. Il piano Marshall diede continuità alla grande ripresa economica americana (e di riflesso, europea) e consacrò gli USA quale maggiore potenza imperialista del mondo.

Considerazioni finali

Queste sono considerazioni empiriche dalle quali non so trarre leggi generali. Né, tanto meno, universali. Ho cercato un punto di vista. Un po’ particolare. Inusuale, non centrale e alquanto secondario. Vorrei, però, sottolineare che tutto quel che riguarda il sovra prodotto non può essere ristretto a una dimensione etica. Almeno, non solo a questa. Nessuno vuole comprimere le libertà del cittadino-consumatore. L’esistenza (e l’eliminazione) del surplus è aspetto materiale dell’economia. Peculiare di un modello di sviluppo distruttivo per l’ambiente e per l’uomo stesso.

da Volere la Luna

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