Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo… Appunti sul vittimismo italiano
- gennaio 09, 2015
- in antifascismo, ergastolo, migranti, misure repressive
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Ho cominciato a prendere questi appunti ormai molti mesi fa, dopo aver letto in sequenza il libro di Federico Tenca Montini Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta a oggi (KappaVu, 2014) e il pamphlet Critica della vittima di Daniele Giglioli (Nottetempo). I due libri sono complementari. Tenca Montini e Giglioli affrontano gli stessi nodi di fondo. Il primo lo fa analizzando un case study molto significativo, ricostruendo genesi, sviluppo e affermazione, nel corso degli anni Novanta e degli anni Zero, del discorso sulle «foibe». Discorso quintessenzialmente vittimistico, perfettamente coerente con l’autonarrazione deresponsabilizzante spesso riassunta nell’espressione «Italiani brava gente»; Il secondo, invece, fotografa la tendenza egemone dei nostri tempi, la centralità della «vittima» nell’immaginario italiano e occidentale contemporaneo.
Quella che era partita come riflessione ispirata dalla lettura quasi contemporanea dei due saggi, si è gonfiata come un torrente a fine inverno e ha trascinato a valle detriti di polemiche di cronaca, storiografiche e di costume.
RIMUOVERE TUTTE LE PREMESSE TRANNE UNA
Ovviamente, le vittime sono sempre esistite. Quelle vere e quelle presunte. Anche il vittimismo – il “fare la vittima”, l’atteggiarsi a vittima – non è una novità, e si manifesta da sempre in tutto il mondo.
Anche il vittimismo dei poteri costituiti, il vittimismo di stato, ha una lunga storia, e plausibilmente un radioso futuro. Per ragioni facilmente intuibili, nella storia non c’è guerra d’aggressione che non sia stata scatenata da una sedicente vittima, da qualcuno che affermava di doversi difendere, reagire a una minaccia, riparare un torto subito, far valere un diritto negato ecc. Ogni volta si fa iniziare la storia dove fa più comodo, per negare le proprie colpe e responsabilità e poter dire che «hanno cominciato gli altri».
Su chi siano esattamente questi altri è meglio che le idee rimangano confuse, in modo da poter attribuire loro, con elasticità e senza dover spiegare troppo, il maggior numero possibile di nefandezze, anche in contraddizione l’una con l’altra.
Ad esempio, dando all’opinione pubblica un’idea disinformata e dozzinale sugli “islamici”, i “musulmani”, i “terroristi arabi”, insomma quelli là con gli stracci in testa, gli USA poterono attaccare l’Iraq in nome delle vittime newyorkesi dell’11 settembre 2001, anche se l’Iraq e il suo regime (notoriamente laico) erano totalmente estranei all’attentato, e la guerra aveva evidentemente altri scopi.
Saddam non aveva mai appoggiato Al Qaeda. Al contrario, gli USA avevano a lungo e pubblicamente foraggiato – in chiave antisovietica e antipanarabista – lo stesso fanatismo islamico che ora dicevano di voler combattere. Lo avevano fatto in tutto il mondo musulmano, dal Nordafrica alla Palestina all’Afghanistan, creando mostri un po’ ovunque. Ma tutta la storia precedente l’11 settembre 2001 era stata rimossa dal racconto. Bisogna sempre rimuovere il maggior numero possibile di premesse, lasciandone solo una di comodo: quella che ci deresponsabilizza. L’abbattimento delle Twin Towers era diventato quella premessa.
In seguito, le catastrofiche guerre di Bush sono state rimosse a loro volta, come è stato rimosso tutto il razzismo, tutto l’imperialismo culturale vomitato su arabi e musulmani negli anni della War on Terror, come sono stati rimossi gli abusi di Abu Ghraib e – soprattutto – Guantanamo. Scomparse le extraordinary renditions, scomparse le torture CIA.
Oggi si blatera dell’ISIS senza mai spiegare che quel movimento ultrareazionario, schiavista, islamonazista, è l’esito di decenni di precise scelte politiche, militari ed economiche. È senz’altro più comodo parlarne come se fosse nato dal nulla, o meglio, da una misteriosa predilezione dei musulmani (tutti!) per il fanatismo e la violenza politica. In questo modo, si può piegare la lotta al terrorismo a una generica “politica della paura”, come la chiama Serge Quadruppani, finalizzata a un sempre più capillare controllo sociale.
E fateci caso: ogni volta si riparte da capo.
L’11 settembre 2001 tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».
Quando fu colpita la metropolitana di Madrid, tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».
Quando fu colpita la metropolitana di Londra, tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».
Dopo la strage nella sede di Charlie Hebdo, tutti i commentatori hanno detto: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».
Non si va mai più indietro di oggi. E quindi non si capisce un cazzo.
Anche perché scompaiono le lotte vere, le resistenze popolari concrete all’ISIS, come quella che ha luogo da mesi a Kobane.
Troviamo la stessa strategia discorsiva quando si parla di immigrazione. Normale, perché il dibattito sul terrorismo maschera quello sull’immigrazione, o meglio, quello mai esplicito sulla forza-lavoro migrante, forza-lavoro da sfruttare riconoscendole il minimo dei diritti – o meglio ancora, nessuno.
Si parte inveendo contro l’ISIS… e si finisce subito a parlare dei “barconi”, si ripropone tutto il repertorio di bufale razziste sui soldi immaginari che lo stato darebbe agli “extracomunitari” ecc.
Anche qui, viene rimosso il maggior numero possibile di premesse.
Il colonialismo europeo – compreso quello dell’Italia – ha invaso, devastato e depredato Africa e Asia.
Le multinazionali nordamericane ed europee – comprese quelle italiane – continuano a sfruttare e depredare quelle terre, a sottrarne sistematicamente le risorse, in un sistema di “scambio ineguale” e divisione internazionale del lavoro che ha come principio regolatore un razzismo oggi non più dichiarabile ma pienamente operativo. Ai popoli implicitamente ritenuti “inferiori” toccano lavori peggiori e salari più bassi.
Ma quando si parla di immigrazione, tutto questo scompare. Non siamo più “noi” (bianchi, occidentali, capitalisti, colonialisti) ad avere invaso l’Africa, sterminato popolazioni, sfruttato il lavoro dei colonizzati, rubato terra e materie prime ecc.
Macché, sono gli africani che stanno “invadendo” noi. Stop invasione!
Perché noi siamo le vittime. Sempre. Da sempre.
Soprattutto noi italiani.
ALLE RADICI DEL VITTIMISMO ITALIANO: I MITI DI ROMA E VENEZIA
Si diceva: il vittimismo non è una novità. Parlare del vittimismo è, per molti versi, parlare dell’acqua calda. Ma quello dell’ideologia dominante italiana è un vittimismo peculiare, specifico, e negli ultimi decenni si è caricato di ulteriori connotazioni. Ogni paese ha le sue sorgenti, la sua acqua, con diverse percentuali di stronzio e altri minerali.
L’Italia come nazione è pressoché interamente edificata su un immaginario vittimista, a partire dall’Inno di Mameli: «noi fummo sempre calpesti e derisi». Vittimismo chiagni e fotti: rileggiamo La grande proletaria si è mossa di Pascoli, pensiamo al mito della «vittoria mutilata» (espressione coniata da D’Annunzio)… L’Italia, che è stata molto più spesso carnefice, non sa rappresentarsi se non come vittima. Vittima di soprusi antichi e recenti. Si veda com’è raccontata la vicenda diplomatica dei due Marò, «i nostri ragazzi», l’India cattiva, gli oscuri complotti…
A monte di tutto è implicito un sopruso più grande, il sopruso. L’Italia sarebbe vittima di una caduta in disgrazia rispetto ad «antichi fasti» come quelli dell’Impero Romano, del Rinascimento o di Venezia come potenza coloniale. Una “pappa” di entità e periodi diversi che con l’Italia intesa come stato-nazione (sabaudo, fascista e poi repubblicano) non c’entrano assolutamente nulla.
Quello della continuità tra Roma e lo stato-nazione italiano è un mito tecnicizzato, nato nell’Ottocento ma portato al parossismo durante il Ventennio, e poiché col fascismo non abbiamo mai fatto i conti fino in fondo, la “romanità” farlocca del fascismo è ancora oggi largamente accettata e riproposta senza alcuna messa in discussione (ad esempio, nel 2011 da Roberto Benigni durante la sua lectio magistralis sull’Inno di Mameli, che ho analizzato qui), a dispetto della sua infondatezza.
In nessuna fase della sua storia Roma si pensò «Italia», né i Romani si sentivano «italiani». Roma era Balcani, Nordafrica, Asia Minore, Iberia, Europa settentrionale ecc. Roma fu poi Bisanzio, la «romanità» non fu mai «italianità», ci si diceva «romani» in Anatolia, nel Mediterraneo orientale e in luoghi oggi definiti “Oriente”. Alcuni imperatori romani non misero mai piede sulla penisola italica. Diocleziano vide Roma una volta sola nella vita, al momento di abdicare.
Prima dell’Ottocento, l’idea dell’Italia come nazione non era nella testa di nessuno.
Quanto a noi, non siamo mai stati la “stirpe romana”. Mai. Siamo i discendenti meticci di tutte le popolazioni che hanno invaso la penisola o vi si sono stabilite, ibridandosi con quelle che c’erano arrivate prima, processo il cui inizio si perde nella notte dei tempi e tuttora prosegue. Siamo etruschi, celti, longobardi, ostrogoti, normanni, arabi, spagnoli e chissà chi altri. Siamo da sempre terra di immigrazione. Siamo immigrati di n-esima generazione.
Fittizia anche la continuità con Venezia nel discorso revanscista sull’Adriatico orientale, recentemente riproposto da Simone Cristicchi e Jan Bernas nel fortunato e disonestissimo spettacolo Magazzino 18, dove si afferma che in Istria «anche le pietre parlano italiano».
[N.B. In quella parte di spettacolo Cristicchi cita, senza dirlo, il verso di una canzone neofascista – Di là dall’acqua della Compagnia dell’Anello – che a sua volta citava un autore fascista, franchista e collaborazionista, Renzo Lodoli.]
Il piedestallo di questo discorso, a malapena verniciato di culturalismo, è il solito, rancido concetto di stirpe. Gli scambi che derivano dalla premessa sono tutti sintetizzabili così:
– L’Istria, Fiume e la Dalmazia erano terre italiane, parte dell’Italia!
– Veramente no, sono sempre state terre multietniche e plurilingui. L’Istria fece parte del regno d’Italia per un periodo molto breve, dal Trattato di Rapallo del 1920 alla sconfitta dei nazifascisti nella seconda guerra mondiale. Quanto alla Dalmazia, solo una piccola porzione fu inclusa per breve tempo del regno d’Italia. Solo il 5% della popolazione dalmata parlava italiano, ed erano quasi tutti concentrati in una sola città, Zara. Quanto a Fiume, fu “italiana” per un periodo ancora più limitato, in seguito al colpo di stato fascista contro lo Stato Libero di Fiume, nel 1922, che portò all’annessione del 1924.
– E allora i secoli di dominazione veneziana dove li mettiamo?!!
– Beh, io una mezza idea ce l’avrei!
Se a far valere la patente di «italianità» sono i secoli di dominazione veneziana, perché mai nel 1915 si riteneva “italianissima” e perciò “irredenta” Trieste, che era asburgica da più di mezzo millennio (lo fu dal 1382 al 1918) e si era posta sotto la protezione del duca d’Austria proprio per non finire sotto Venezia, con cui era già stata in guerra?
Se a far valere la patente di «italianità» sono i secoli di dominazione veneziana, perché nel 1918 il Regno d’Italia occupò militarmente e dichiarò italiane parti dell’entroterra e della montagna slovena dove Venezia non aveva mai messo piede e – soprattutto – dove non viveva un solo parlante italiano?
E magari gli avi di chi rivendica tale continuità di stirpe con Venezia-che-era-già-Italia erano arabi di Sicilia o normanni di Basilicata, ai quali non passava nemmeno per l’anticamera del cervello di avere come patria “l’Italia”, o di pensarsi medesima stirpe del patriziato veneziano che, mille chilometri più a nord, si godeva i frutti delle razzie compiute oltreadriatico (e anche nell’entroterra della Serenissima, se è per questo).
Insomma, anche quella della stirpe italica in continuità col dominio veneziano è una supercazzola con scappellamento all’estrema destra, anche quando viene da bocca “di sinistra” (sempre per modo di dire, eh!), inconsapevole o paracula che sia. A volte inconsapevole e anche paracula. Le due cose non si escludono.
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LA STORIA DEL CONFINE ORIENTALE COME «INSTRUMENTUM REGNI» E IL RUOLO DEL PD
Il vittimismo non è una novità. Ciò non toglie che, come strategia discorsiva, non sia mai stato vincente come appare oggi.
La novità è l’onnipervasività del «paradigma vittimario», come lo ha chiamato Giovanni De Luna. Oggi, scrive Giglioli, «chi sta con la vittima non sbaglia mai». La possibilità di dichiararsi vittima è «una posizione strategica da occupare a tutti i costi». Abbiamo assistito e tuttora assistiamo a guerre per «stabilire chi è più vittima, chi lo è stato prima, chi più a lungo». Chi combatte queste guerre lo fa in nome di una «aristocrazia del dolore», di una «meritocrazia della sfortuna»: – Io sono vittima perché è stato vittima mio padre, e prima di lui lo è stato mio nonno! Ho avuto la sfortuna di essere loro figlio e nipote, e quindi merito di essere considerato vittima!
Giglioli parla di «tragedie per procura», di «risentimento in appalto», ma io parlerei di usu capione: la mia famiglia vive in questa condizione vittimale da decenni, adesso è mia per forza di legge. Da qui la richiesta di uno status particolare, fatto di cerimoniali ad hoc, giornate commemorative, vie intitolate, bonus di vario genere, risarcimenti, riconoscimenti… Giglioli si chiede, retoricamente: «Chi, sano di mente e retto di cuore, prescriverebbe ai suoi discendenti di continuare a soffrire per lui?»
Eccoci, entriamo a pie’ pari nella vicenda del cosiddetto «Esodo giuliano-dalmata», innervata a quella delle «foibe».
Dapprima è stata la destra post-fascista (e sul «post» ovviamente ci sarebbe da dire) a «nazionalizzare» l’immaginario vittimale del confine orientale e a trasformarlo in instrumentum regni. Questo è avvenuto grazie alla fine di quegli «impedimenti» post-bellici che l’avevano confinata in una nicchia.
Nel suo libro Tenca Montini lo ricostruisce molto bene: fino agli anni Novanta del XX secolo, soltanto in Venezia Giulia l’immaginario vittimale “giuliano-dalmata” si era compiutamente trasformato in instrumentum regni. Persino l’urbanistica di Trieste e altri centri urbani nei dintorni furono radicalmente modificate dall’immaginario vittimale.
Molto chiara in questo senso la storia dei nuovi sobborghi per profughi costruiti per «italianizzare» zone ad alta presenza slovena ed alterarne gli equilibri non solo etnici ma anche elettorali, come spiegano con dovizia di esempi Piero Purini nel suo libro Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975 (KappaVu, 2010) e Sandi Volk nel suo Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale (KappaVu, 2004).
Nel resto d’Italia, nulla di paragonabile.
Ma con la caduta dell’URSS, la fine della Jugoslavia, la fine della «Prima Repubblica» e dell’arco costituzionale ecc. la situazione cambia all’improvviso, scompaiono i «blocchi» e la destra post-missina, soggetto di importanza strategica nel blocco di potere berlusconiano, può darsi subito un gran daffare.
Raccontata così, però, sarebbe davvero troppo semplice. Fin da subito aiuta la destra il cosiddetto «centrosinistra». Si sviluppa una forma di «consociativismo della memoria» funzionale alle «larghe intese» che – molti anni prima di essere ufficializzate in parlamento – già hanno luogo nell’economia e nella società.
In quest’epoca, a metà degli anni ’90, si verifica quella che Tenca Montini definisce «inclusione dei postcomunisti nella storiografia nazionalistica». Sono gli anni in cui Luciano Violante cerca la conciliazione con gli eredi dei “ragazzi di Salò”, espressione edulcorante per i soldati di uno stato-fantoccio collaborazionista voluto da Hitler.
Oggi siamo andati molto più in là, il testimone è quasi interamente passato di mano e il ruolo principale ce l’ha l’intellighenzia dell’area PD. E’ stato Giorgio Napolitano la figura politica e istituzionale più attiva su quel versante. Solo per ricordare l’episodio più recente, poco tempo fa ha commemorato il capo neofascista Almirante, già redattore della rivista La difesa della razza.
Se Napolitano è primus inter pares, rivalutazioni del genere le troviamo a tutti i livelli del partito, ovunque giriamo lo sguardo: il governo Renzi si era appena insediato quando il neoministro della difesa Roberta Pinotti ha omaggiato l’aviatore fascista Luigi Gnecchi, reduce della guerra civile spagnola, tra i responsabili dei bombardamenti a tappeto su Barcellona, cioè di un famigerato massacro di civili.
Del tutto logico. Il PD ambisce a essere il «partito della nazione», e quindi il partito di tutti, e quindi il partito della «memoria condivisa».
E quindi anche il nuovo partito dell’Esodo istriano.
[E forse anche il nuovo partito dei cosiddetti “rimasti”, le comunità italiane ancora presenti in Slovenia e Croazia, dopo la fine della Jugoslavia non più etichettabili come “titine”. Si è prestata meno attenzione del dovuto a come Cristicchi ha inserito nello spettacolo una parte strappalacrime sui “rimasti”. Ancor meno attenzione si è prestata a certe manovre politiche intorno all’Università Popolare di Trieste, «soggetto privilegiato di collegamento tra il Governo italiano e la minoranza in Istria, Fiume e Dalmazia.»]Dal 1918 al 1941 (anno in cui l’Italia invase la Jugoslavia insieme a Hitler), il nostro confine orientale venne spostato con la forza sempre più a est. Si veda la progressione in quattro mappe proposta in questo post. In quelle terre l’imperialismo italiano fu responsabile di stragi, deportazioni, persecuzioni.
Il trucco che consente di far sparire tutto questo è, come si diceva sopra, far cominciare la storia più tardi.
Per la precisione, farla cominciare dal 1943 in Istria, e dal 1945 a Trieste e Gorizia.
In questo modo, e con qualche altro accorgimento, gli italiani sono solo vittime.
Vittime, come disse Napolitano in un discorso del 2007, di un presunto «disegno annessionistico slavo».
Sin troppo facile da denunciare, dopo che si è rimosso il reale annessionismo italiano.
Il ruolo del PD emerge con ulteriore chiarezza seguendo gli sviluppi del caso Cristicchi, artista sponsorizzato e difeso dal PD triestino e nazionale. Certe scritte sui muri sbagliano: è vero che Cristicchi ripete pappagallescamente luoghi comuni tipici di ambienti e gruppi “nazional-patriottici”, neoirredentisti e neofascisti, ma non è in senso stretto un fascista; è dalla radice dei capelli alle unghie dei piedi, antropologicamente e narrativamente, in tutto e per tutto Homo Piddinus, e perciò maschera da commedia dell’arte dell’italiano medio “post-ideologico”.
Nella figura di Cristicchi, e nel modo in cui risponde alle critiche, possiamo leggere ancora una volta l’autobiografia della nazione: l’uomo medio, l’uomo che oggi vota Renzi, è convinto – intempestivamente, visto cosa ribolle nel ventre d’Europa – che il fascismo sia “fenomeno del passato”, ma al tempo stesso incarna tutte le tare, le rimozioni e i clichés che la cultura italiana si porta dietro dall’esperienza fascista, mai davvero elaborata e quindi mai superata.
Magazzino 18 è una storia vincente perché non c’è nessuna complessità, la sua è la versione più facile da raccontare, è unilaterale, tutte le addizioni sembrano funzionare senza riporti, «i conti tornano». Ne abbiamo già parlato in maniera dettagliata. Ho pensato a Cristicchi quando leggevo i passaggi in cui Giglioli scrive che nessuna vittima o testimonial della vittima si sentirà mai dire: «Che solfa, è la solita storia». La storia vittimaria è sempre «autorevole», e la si ascolta, se non commossi, almeno compunti, altrimenti tocca navigare in un mare di insulti, accuse di insensibilità o, peggio, di complicità coi carnefici.
Il vittimismo è funzionale al ricatto morale, che è finalizzato al dominio.
Lo spettacolo di Cristicchi ha dei precedenti, uno dei quali va ricordato. Mi riferisco alla fiction Il cuore nel pozzo, andata in onda sulla Rai una decina di anni fa.
Si tratta di una delle più immonde porcate mai trasmesse dalla TV italiana. Tenca Montini ne esamina in modo esaustivo il razzismo, la rivalutazione sottotraccia del collaborazionismo coi nazisti, il profondo sessismo, le panzane…. Il cuore nel pozzo è stato visto come operazione della destra, voluta espressamente da Gasparri, allora ministro delle telecomunicazioni. Vero, ma si è prestata poca attenzione alla presenza attiva di figure bipartisan. Uno dei protagonisti dello sceneggiato era Leo Gullotta, un uomo per tutte le stagioni.
Gullotta è stato per anni la “signora Leonida” del Bagaglino, ovvero tra i protagonisti del più becero avanspettacolo di destra, diretto da quel Pierfrancesco Pingitore che, da caporedattore del settimanale fascistoide “Specchio”, aveva teso odiosi agguati mediatici a don Milani, Pasolini e molti altri.
[Cfr. Carlo Galeotti, Don Milani il prete rosso. Un caso di killeraggio giornalistico, Stampa Alternativa, 1999, e Franco Grattarola, Pasolini, una vita violentata. Pestaggi fisici e linciaggi morali, storia di una Via Crucis laica attraverso la stampa dell’epoca, Coniglio Editore, 2005.]
Epperò – misteriosamente – Gullotta è anche considerato “uomo di sinistra”. Non ho idea del motivo. Vero, è amico di Bertinotti, ma nel corso degli anni abbiamo visto che di per sé vuol dire poco.
Prima Gullotta recita in una fiction nazistoide poi, facendo finta di niente, va al congresso del PRC a leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza, e giustamente viene contestato.
Nel marzo 2005 la “memoria condivisa” non si è ancora affermata del tutto, e l’episodio ha conseguenze limitate. Nove anni dopo, quando qualcuno oserà contestare Magazzino 18, la reazione a difesa del nuovo uomo per tutte le stagioni, cioè Cristicchi, sarà vastissima e trasversale. I media additeranno i contestatori come “nemici pubblici” e parleranno all’unisono di “violenza”, di “squadrismo”, financo di “anti-italianità”.
QUALI VITTIME NON VANNO BENE
Che cos’è la «memoria condivisa» se non la storia d’Italia riscritta in base al paradigma vittimario?
Non più diverse cause per cui morire: solo morti ammazzati, strumentalmente descritti come «tutti uguali»;
non più una dialettica oppressi-oppressori, solo generiche «vittime» di conflitti resi astratti, mai spiegati;
la colpa è delle sempre comode da scomodare «ideologie», dei «fanatismi» ecc.
Come spiega Giglioli, solidarizzare con le vittime è diverso dal solidarizzare con gli oppressi: quest’ultima opzione implicherebbe una lettura della realtà, una sua presa in carico, e quindi un’istanza di liberazione, «non una semplice scarica emotiva». Per questo il racconto vittimario è consolatorio e difende lo stato delle cose. Per questo è un racconto vincente. Per questo non tutte le vittime vanno bene e la selezione dev’essere accurata.
Ci sono vittime che, per i motivi e i modi delle loro persecuzioni e uccisioni, se ricordate riporterebbero nel quadro la discordia, ovvero il conflitto sociale nella sua concretezza. Ergo, operai e studenti uccisi dalle forze dell’ordine non vanno bene.
Non vanno bene nemmeno vittime come Enzo Baldoni, Vittorio Arrigoni, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e altre persone ammazzate o scomparse mentre “non si facevano i cazzi loro”, in circostanze che, se raccontate, disturberebbero la buona coscienza dell’Italia e il nostro quieto vivere geopolitico.
Ma le vittime meno adatte alla bisogna sono senz’altro le vittime non-italiane di italiani. Le vittime dei nostri pogrom in nome dell’italianità (Lojze Bratuž non va bene, per dirne uno), dei nostri crimini di guerra (i trucidati di Debra Libanos non vanno bene), delle nostre politiche genocide (la popolazione della Cirenaica non va bene), della nostra guerra chimica… Troppo complicato, troppe cose da spiegare, troppa Storia da scomodare, troppi fantasmi scomodi. Tutto troppo contrario ai dettami di concordia nazionale.
Molto meglio raccontare degli italiani buoni trucidati dagli slavi cattivi. Trucidati «solo perché italiani».
Perché la storia ha inizio dove vogliamo noi.
[Continua]
N.d.R. I commenti a questo post saranno attivati dopo il 12 gennaio 2015, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).
Wu Ming 1 da Giap Revolution Tour