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Il tempo di Cospito e quello della giustizia

Alfredo Cospito ha iniziato lo sciopero della fame più di 60 giorni fa e il suo corpo, ora molto più vulnerabile, ha perso circa 30 kg.

Lunedì scorso il Tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato il ricorso presentato dai legali di Cospito contro l’applicazione, nei suoi confronti, del regime carcerario speciale del 41 bis.

Secondo i giudici, Cospito sarebbe tuttora parte attiva di “un organismo, unitario, strutturato, sovrastante rispetto alle persone e ai gruppi che ne fanno parte”; e “la partecipazione del singolo all’associazione si estende ben oltre il solo momento dell’azione”.

L’applicazione del regime speciale sarebbe finalizzata, pertanto, a interrompere il vincolo associativo con il detenuto. Infatti, “il regime ordinario, anche in Alta Sicurezza, non consente di contrastare adeguatamente l’elevato rischio di comportamenti orientati all’esercizio, da parte del Cospito, del suo ruolo apicale nell’ambito dell’associazione di appartenenza”.

Di conseguenza, l’interpretazione della natura e della struttura della FAI (Federazione Anarchica Informale), l’associazione oggetto dell’attenzione da parte dei giudici, è la stessa che viene utilizzata nei riguardi della criminalità organizzata: gruppo chiuso, verticistico, leadership in grado di comunicare e indirizzare le attività anche dal carcere.

Il regime di 41 bis, del resto, venne inserito all’interno del nostro ordinamento penitenziario proprio negli anni in cui le stragi di mafia imperversavano e lo Stato correva ai ripari.

La misura, ricordiamolo, nasce per impedire i collegamenti tra l’associazione criminale di appartenenza e il detenuto, ma in genere la sua applicazione comporta limitazioni, divieti e interdizioni che vanno ben oltre quella finalità, realizzando una carcerazione particolarmente afflittiva.

Ma questo tipo di reclusione è imposta dal tipo di organizzazione criminale che si intende contrastare, in questo caso la FAI, e della quale si vogliono interrompere i rapporti con il detenuto? Va ricordato che tutte le sentenze finora hanno escluso la sussistenza di un modello di organizzazione verticistico e centralizzato, coordinato e gerarchico.

I giudici del Tribunale di sorveglianza di Roma affermano il contrario: non solo, attribuiscono a Cospito un ruolo di comando tale da farne la “figura apicale” dell’associazione criminale.

Per contro, sostengono i legali dell’anarchico, le sue comunicazioni all’esterno sarebbero state rivolte a esprimere il proprio pensiero politico e a contribuire a una elaborazione politica collettiva, non a trasmettere ordini e disposizioni agli “associati”.

Cospito scriveva, rilasciava interviste, comunicava con l’esterno utilizzando canali legali, compresi quelli consentiti dal regime di Alta Sicurezza cui è stato a lungo sottoposto.

Poi, lo scorso 5 dicembre, la Corte d’Assise di Torino, chiamata a pronunciarsi sulla rideterminazione della pena, ha accolto alcune eccezioni della difesa, inviando gli atti alla Corte costituzionale, in particolare a proposito del rapporto di proporzionalità tra entità del danno ed entità della pena.

L’avvocato Flavio Rossi Albertini ha riferito Cospito è lucido, determinato, consapevole delle conseguenze della sua scelta, ma non intende arretrare. Ora, dopo l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma, resta solo il ricorso in Cassazione. Mai, come in questa vicenda, i tempi della giustizia rischiano di non coincidere con quelli di un corpo che deperisce per affermare il proprio diritto alla dignità.

Luigi Manconi

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Tra vendetta e piste logore. Riflessioni sul caso Cospito

di Vincenzo ScaliaUniversità di Firenze

La vicenda di Alfredo Cospito, militante anarcoinsurrezionalista condannato all’ergastolo ostativo, e da oltre due mesi in sciopero della fame per protestare contro una sentenza ingiusta e spropositata, esemplifica sia l’ipertrofia giudiziaria sia i rapporti di forza che si vanno strutturando nel nostro Paese a livello politico.

Nel 2014 Cospito viene riconosciuto colpevole di avere ferito il dirigente di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, e condannato a 10 anni e otto mesi di carcere. A questa condanna, nei mesi scorsi, se ne sono aggiunte altre due. La prima è quella di essere a capo di un’organizzazione terroristica, che gli ha fruttato altri 20 anni di reclusione. La seconda, quella di avere attentato alla personalità interna dello Stato, in seguito allo scoppio di due bombe carta davanti a una caserma dei Carabinieri, ha portato la Cassazione ad elevare la pena fino all’afflizione dell’ergastolo ostativo, con tanto di reclusione al 41 bis.

Le decisioni prese ai danni del militante anarcoinsurrezionalista sembrano connotarsi per il loro carattere afflittivo e vessatorio, e forniscono lo spunto per una serie di riflessioni.  Innanzitutto, appare arbitraria la qualifica di “capo di organizzazione criminale”. La questione del vincolo associativo rappresenta una delle questioni più controverse all’interno della sfera penale. Quante persone sono necessarie affinché ci si possa trovare in presenza di un’organizzazione? Come va quantificata e qualificata la questione temporale? Nel passato, per esempio nel caso delle Brigate Rosse, che rivendicavano la loro natura di organizzazione rivoluzionaria, la questione era stata relativamente semplice, anche se la distinzione tra “regolari”, “irregolari”, fiancheggiatori e simpatizzanti qualche problema lo poneva. Non a caso, ne seguirono condanne irrogate con criteri non sempre lineari ed equi, che provocarono più di una perplessità, anche in relazione all’utilizzo della legislazione premiale.

Soprattutto, bisogna contestualizzare il periodo storico. Le organizzazioni politiche clandestine come l’IRA, le BR, ETA, la guerriglia palestinese, sorsero e si svilupparono in un contesto politico a forte predominanza dello Stato-Nazione, all’interno di un’economia fordista, improntata alla produzione di massa. Di conseguenza, il loro modello organizzativo non poteva non ricalcare la struttura verticistica e capillare delle aziende e la burocrazia degli Stati. La globalizzazione, la caduta del Muro, la diffusione degli strumenti informatici, ha reso ormai obsoleti questi modelli organizzativi. Non a caso, il giornalista britannico Jason Burke (2003), nello spiegare il modus operandi e l’ideologia di Al Qaeda, iniziasse il suo libro con la frase “Al Qaeda non esiste”. Questa affermazione, tranchant e provocatoria allo stesso tempo, serviva a spiegare come ci trovassimo di fronte a una galassia di gruppi pulviscolari, se non individuali, privi di una direzione sinottica, animati dalla comune matrice ideologica, che usavano il nome Al Qaeda come un vero e proprio brand, alla stregua delle firme più all’avanguardia della moda.

Mark Hamm (2006), analizzando gli attentatori islamici e suprematisti bianchi attivi negli USA sin dagli anni Novanta, evidenzia come ci si trovi di fronte a un processo di privatizzazione del terrorismo, con gli attentatori che vengono indottrinati e addestrati (o si auto-indottrinano e addestrano) sul web e compiono crimini ordinari, come furti e rapine, per procacciarsi le armi e i fondi necessari. Altri autori (Ruggiero, 2019), parlano di network terroristi, più che di organizzazioni, suffragando le loro ipotesi da analisi accurate della realtà. Gli attentati di Parigi del 2015, di Dhaka e Berlino del 2016, di Londra del 2017, mostrano l’obsolescenza del modello organizzativo prefigurato dai giudici torinesi e dalla Cassazione, ai quali non chiediamo di confrontarsi con la letteratura criminologica, ma, quantomeno, di andare a guardare le inchieste condotte dai loro colleghi di altri paesi per aggiornarsi sui fenomeni di violenza politica.  Infine, considerato che si tratta di anarchici, quindi di gruppi politici fisiologicamente refrattari a modelli organizzativi particolarmente sofisticati, la tesi dell’organizzazione criminale si dimostra ancora più caduca.  Fa specie constatare che, a 53 anni dalla tragedia di piazza Fontana e della morte di Pino Pinelli, le piste anarchiche continuano ad affascinare polizia e magistratura italiana.

Eppure, e questo è il secondo punto che vorremmo sollevare, la magistratura italiana si mostra ancora oggi incagliata tra le sabbie del cospirazionismo. In parte sarà la sub-cultura cattolica, che porta a rappresentare il male come il prodotto di una mente criminale che irradia dall’alto in basso tutti quelli che ricadono nel suo raggio d’azione, fino a contaminare un’opinione pubblica indefessamente alla ricerca, dopo 45 anni, del Grande Vecchio responsabile di tutte le azioni terroristiche degli anni Settanta. Malgrado le confutazioni del Teorema Calogero, la magistratura italiana non ha imparato appieno la lezione, fino a prefigurarsi l’esistenza di una pericolosa organizzazione anarchica con un capo da spedire al 41 bis malgrado l’inesistenza di prove a suo carico. Un bersaglio troppo facile da individuare, in quanto già condannato e autore di un altro attentato, che pure non ha danneggiato niente e nessuno.

La ragione principale, a nostro giudizio, va rintracciata anche in un altro aspetto della storia italiana contemporanea. Sin dal 1992, la magistratura italiana è assurta a vero e proprio regolatore dei rapporti sociali, fino a sviluppare delle proiezioni a livello politico. I 5 Stelle, ma anche settori dell’attuale maggioranza, hanno fatto propri lo zelo repressivo per acquisire crediti elettorali e politici. Alla lunga, ne è scaturito un eccessivo scollamento tra magistrati e paese reale, coi primi che, dall’alto delle loro prerogative, forti del consenso mediatico, in nome di una legalità sempre più arbitraria, si sentono in diritto di intervenire pesantemente su settori nevralgici della vita democratica come la libertà di riunione, di associazione e i diritti e le garanzie del sistema penale.

Infine, ci preoccupa l’applicazione ai danni di Cospito di reati risalenti al periodo fascista, come quella dell’attentato alla personalità interna dello Stato, un’imputazione che, per esempio, non venne mai utilizzata contro i neofascisti imputati nelle stragi di Stato. A parte il fatto che le conseguenze dell’attentato non hanno procurato danni o vittime, attribuire, nel 2022, una personalità interna a un apparato sempre più scollato e frammentato, non all’altezza di interpretare una società sempre più plurale e complessa, suona come un elemento sempre più distonico nel contesto contemporaneo. A meno che alcuni magistrati, al fine di stabilire una relazione positiva con la neonata maggioranza di governo, non tentino di anticiparne o di assecondarne le tendenze e le aspettative in materia di dissenso politico. In tal caso, vorremmo ricordare loro il Leonardo Sciascia de Il Cavaliere e La Morte, quando evidenziava come gruppi o organizzazioni presuntamente terroristiche diventano tali quando lo Stato attribuisce loro questa definizione. Sperando che sia un monito utile.

REFERENZE

Burke, J. (2003), Al Qaeda. La vera storia, Feltrinelli, Milano

Hamm, M. (2014), Terrorism as Crime, New York University Press, New York.

Ruggiero, V. (2019), Organized Crime and Terrorist Networks, Routledge.

da

da Studi questione criminale

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Questo Stato: invettiva per Alfredo Cospito

di Vincenzo Morvillo

Questo Stato.

Questo Stato che rilascia attestati di democrazia e documenti d’identità libertaria di fronte a presunte violazioni dei diritti umani in ogni angolo del creato.

Questo Stato che s’indigna per gli arresti politici in Cina, in Russia, a Cuba, in Venezuela, in Iran.

Questo Stato che incide sulla dura pietra della Legge Morale norme di comportamento incontrovertibili per la difesa dei diritti civili.

Questo Stato e questa Società che si commuovono per Navalny, per la Tymošenko, per la San Suu Kyi e per centinaia di altri dissidenti sotto il cielo cupo delle cosiddette autocrazie.

Questo Stato e questa Società che piangono, stracciandosi le vesti, per l’Ucraina invasa da Putin, come prefiche ai funerali della libertà e della democrazia.

Questo Stato e questa Società, schiumanti furia anticomunista, sventolando il vessillo liberale del secolo dei lumi e della razionalità kantiana.

Questo Stato e questa Società murano vivo Alfredo Cospito.

Condannato alla tortura perpetua dell’isolamento carcerario.

Alla crudeltà monastica dell’incessante presenza a se stesso.

Alla malattia della contemplazione claustrale dell’Io senza l’Altro.

Senza parola. Senza gesto. Senza scrittura. Senza carne nella pesantezza insostenibile del corpo.

Questo Stato e questa Società sono il simbolo più indecente della merdosa ipocrisia borghese e padronale.

Bianca e Cristiana.

Sono la trasfigurazione terrena di un dio arcaico, sadico e feroce. Un dio etrusco antropofago e totemico.

Questo Stato è il Padre kafkiano che riscrive la legge a suo piacimento.

Questa Società e questo Stato sono la faccia del conte Ugolino che solleva la bocca grondante sangue dal fiero pasto.

Sono il volto orrendo del macellaio che si nasconde vigliaccamente dietro un velo di Maya dall’iniquo candore.

Questo Stato è l’icona feroce di una teologia democratica, nel nome della quale i suoi sacerdoti, in giacca e camicia bianca, godono del potere di vita e di morte.

Questa Società indifferente, cinica, egoista, sorda, si crogiola nella propria apatia. E nel proprio vomito che puzza di odio.

Questo Stato ha processato e condannato a morte Alfredo Cospito.

Noi processiamo e condanniamo all’estinzione questo Stato.

Libertà per Alfredo!

da Contropiano

 

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