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Il teatro del supplizio: potere, Stato, violenza, consenso. Giustizia?

Con la volontà di comprendere con il proprio sguardo la vulnerabilità intrinseca alla restrizione della libertà, nelle sue diverse forme, chi ha il compito di tutelare e prevenire si rivolge alle tre principali ipotesi che vengono formulate all’origine di un esercizio così violento, quale è quello, appunto, di ridurre o privare della libertà un’altra persona. Una violenza necessaria in determinate situazioni, ma che deve postulare sempre la consapevolezza dell’asimmetria drammatica del suo attuarsi e la considerazione della maggiore necessità di tutela dei diritti della persona che la subisce, richiesta dalla sua contingente situazione. Le aree sono essenzialmente tre: innanzitutto quella della libertà ristretta in conseguenza di ciò che la persona destinataria della misura ha commesso o è supposta di aver commesso, per la necessità di preparare un possibile ritorno che tuteli la collettività e l’autore dal suo ripetersi; in secondo luogo quella della libertà ristretta in funzione di uno scopo di espulsione o di respingimento della persona che una realtà sovrana, per vari e anche legittimi motivi, ritiene non possa essere accolta; infine la libertà ristretta, per la presunta tutela di una persona ritenuta non in grado di tutelarsi da sola e per proteggere gli altri dalle conseguenze di questa sua presunta incapacità di autodeterminarsi. Quest’ultima, forse, la più problematica. Sono tre ipotesi diverse, una di area penale, una di area amministrativa e l’altra di area sanitaria, a cui corrispondono luoghi e strutture del tutto diversi nonché programmi, ipotesi e atteggiamento della collettività esterna, anch’essi del tutto diversi. Luoghi previsti da norme di rango primario e regolati in aspetti di dettaglio, come è ovvio, da norme secondarie e regolamenti che però ne determinano la concretezza, con limitazioni sempre più specifiche che finiscono col restringerne lo spazio dell’autonomia decisionale, in un processo di tipo implosivo, fino a ridurlo quasi al nulla – metaforicamente nel linguaggio della fisica parleremmo dell’evoluzione della massa in buco nero. Per capire quale possa essere la Giustizia agita lungo tali diverse ipotesi, quantunque in via tendenziale, approssimata e sempre mutevole, è forse necessario partire da ciò che accomuna la loro attuazione, in queste tre aree. Non da ciò che le differenzia.

Anche in altre occasioni, ho sintetizzato un loro tratto comune nella logica della sottrazione in un contesto che avrebbe invece bisogno di addizione. La logica che spesso sottende gli interventi nell’ambito della progressiva riduzione della libertà, infatti, è quella del togliere: si toglie non solo la libertà stessa, ma anche relazioni, spazio, cose, a volte suppellettili, a volte abiti. Si finisce per togliere diritti e anche soggettività. Spesso ciò è formalmente motivato dalla necessità di avere regole comuni in collettività complesse; altre volte dalla volontà di proteggere la persona da gesti auto o etero-aggressivi. Il risultato è in regole e norme di tipo precettivo, la cui definizione non ha nulla di relazionale e comunicativo – dimensione che invece in una realtà para-comunitaria come è comunque la vita ristretta potrebbe diminuire tensioni e dare luogo a una connotazione discorsiva della produzione di regole o anche autoregolativa, favorendo un sistema di autorganizzazione, pur controllata, capace di responsabilizzare le persone ristrette. Al contrario, si preferisce un sistema regolativo formale, spesso ipertrofico e burocratico, che effettua progressive selezioni nell’attribuzione di responsabilità e richiede soltanto obbedienza. In ciò sottraendo progressivamente autonomia. La logica del normare sottraendo si nutre di pericoli presunti, di imperativi etici, di opportunità utilitaristiche, di ipotizzate necessità e finisce col concretizzarsi, oltre che nella riduzione di contatti e relazioni, anche nello spazio fisico. Così si giunge negli Istituti di detenzione alla collocazione in stanze prive di suppellettili – che non a caso vengono dette nel micro linguaggio interno «celle lisce» – nei Centri per migranti a gabbie non munite di alcuna cosa se non di tavoli in cemento, nei luoghi deputati ad accogliere le difficili vite nelle strutture sanitarie a stanze vuote. Per questo, ho voluto includere nella Relazione al Parlamento di quest’anno il locale vuoto tra gli ambienti della privazione della libertà. Un locale caratterizzato dall’assenza, al contrario di come si caratterizza ogni altro spazio della vita: assenza di oggetti, stimoli; da qui, assenza di sogni.

Per questo – abbiamo scritto in quella Relazione che «il locale “vuoto” ci dice molto di quali siano le strategie adottate per risolvere le criticità: da quelle più ordinarie dello spaesamento subìto dopo la privazione della libertà a quelle più eccezionali della crisi. Ci informa della capacità o meno di saper armonizzare le conflittualità che inevitabilmente un microsistema sociale chiuso pone. Certamente il “vuoto”, come nuova collocazione della persona in crisi, sotto lo sguardo preoccupato e smarrito di chi si trova impropriamente affidata la responsabilità di vigilare sulle sue reazioni, è la falsa soluzione». Invece occorrerebbe agire sull’addizione: maggiori possibilità di relazioni con i propri affetti esterni, più frequenti norme che definiscano in positivo ciò che deve connotare la quotidianità nelle istituzioni chiuse, un maggiore riconoscimento di legittimi interessi, oltre che la scrupolosa effettività dei diritti, una produzione discorsiva delle regole interne. Un secondo tratto, connesso al precedente, è il rapporto tra una globalità affermata e un localismo vissuto: abbiamo ormai tutti uno sguardo globale, che supera non solo muri, ma confini e oceani, percettivamente e materialmente, e la produzione normativa si affanna invece attorno a percorsi limitativi e confinanti quando è chiamata a trattare delle difficoltà sociali. Qui si potrebbe richiamare il rapporto tra la razionalità giuridica e la sua espressione linguistica: la prima governata necessariamente dall’incidenza degli aspetti relazionali, sui quali deve fondarsi, la seconda regolata da aspetti semantici che però determinano in concreto l’azione della norma: la possibile scissione tra questi due ineludibili costruttori di ogni norma è alla base, in particolare quando si tratta di regolare la restrizione della libertà, di un normativismo di dettaglio che spesso incide in negativo sulla ratio che era all’origine della norma stessa, finendo col codificare un localismo che nega quello sguardo globale essenziale alla comprensione del presente. Lo sguardo globale, la mobilità del pensiero verso luoghi lontani, ma virtualmente prossimi, grazie a una tecnologia che si pone come estensione della propria capacità concettuale sono, infatti, la dimensione relazionale del presente e una persona non può perdere tale dimensione, qualsiasi sia la situazione contingente in cui viene a trovarsi, pena il fatto di rimanere esclusa da qualsiasi possibilità di appartenenza al presente stesso e di comprensione delle sue dinamiche e del suo sviluppo: una comprensione senza la quale non potrà esercitare la propria capacità analitica e critica e quindi avere una vita piena quale soggetto portatore di diritti. Eppure le tecnologie informative e comunicative sono precluse quasi sempre laddove la libertà è ristretta, così rendendo volatile ogni riferimento alla ricostruzione possibile di un proprio percorso. Inoltre, proprio la globalizzazione e la mobilità di massa hanno avuto un impatto profondo sulla giustizia penale e sulla dimensione del suo espandersi nella realtà contemporanea nonché sulle sue forme: dalla previsione in molte giurisdizioni di nuovi reati connessi con l’immigrazione e la sua irregolarità all’utilizzo della privazione della libertà come forma di controllo all’accesso ai luoghi e ai territori, dall’enfasi sul rischio di radicalizzazione, rafforzato dalle difficoltà di comprensione linguistica e culturale, allo sviluppo di una penalità sempre più orientata a individuare tipologie di autori.

Questa riflessione si amplia a considerare il significato che assegniamo al tempo ristretto, quello, in particolare, che caratterizza l’esecuzione di una pena. Il tempo della privazione della libertà è proposto come tempo vuoto o come tempo “altro” rispetto al suo fluire esterno. Spesso è proposto come tempo dell’afflizione. […] Proprio nello specifico dell’esecuzione penale in carcere, infatti, le considerazioni che ho sommariamente sviluppato per tutte le aree della privazione della libertà diventano ancor più evidenti. Il pendolo dello sguardo oscilla nella nostra attualità penalistica – e nelle politiche messe in campo nell’ambito delle pene e della loro esecuzione – tra il tendere al futuro e il volgersi al passato, tra istanze di prevenzione, tendenze alla rieducazione e riflessi retributivi, senza ritrovare solidamente quel baricentro tra questi tre vertici di un ipotetico triangolo che la Carta ha voluto indicare. Anche perché questo pendolo è fortemente mosso, influenzato, dal vento del desiderio di soddisfare una presunta opinione pubblica. Questa, con l’abbandono dell’esercizio attivo, educante del pensiero politico e il suo retrocedere alla ricerca di consenso immediato, lo muove, spostandolo verso uno o l’altro dei vertici. Il principio legittimante soprattutto l’adozione di misure esecutive alternative alla secca detenzione rischia così di essere di natura consensuale, più che di stretta legittimazione legale e il presunto consenso va sempre nella direzione di proporre una linearità tra il delitto e il castigo. Ma, la complessità del come rispondere al reato è invece tema non lineare; lo era già dall’antichità, in un contesto che ricorreva al castigo come sola risposta possibile e che tuttavia non escludeva gli interrogativi che ritroviamo nelle parole di Protagora, nella elaborata descrizione che Platone riporta di ciò che noi oggi, con qualche forzatura semantica, potremmo leggere come necessità di deterrenza e rieducazione: «Chi cerca di punire- dice il filosofo – ragionevolmente castiga non a causa dell’ingiustizia trascorsa, poiché non potrebbe ristabilire come non avvenuto ciò che è stato fatto, ma in vista del futuro, affinché né il colpevole, né chi lo vede punire commettano più ingiustizia». Qui si condensa il valore ricompositivo che le pene devono avere. Senza ricomposizione, senza una sua previsione e senza azioni volte alla sua progettazione, la scena penale e il processo restano un teatro dell’esercizio del potere esclusivo di violenza da parte dello Stato e della costruzione di un consenso legittimante sul piano delle politiche della giustizia: un teatro che si realizza attorno alla sofferenza dei suoi attori. Attori sofferenti, tutti: la vittima in primo luogo che affida a quella scena una parte possibilmente lenitiva del proprio dolore o della rabbia per il torto subito e che invece è di fatto espropriata di una presenza, il reo che nel momento stesso dell’apparire sulla scena processuale è di per sé soggetto “debole”, delegato ad altri che parlano per lui e che vedono in lui la reificazione del reato e non il soggetto, la collettività esterna a cui è lasciato il ruolo di spettatore o a volte di tifoso, che comunque osserva a distanza. La teatralità è l’opposto della ricomposizione, che ha invece bisogno di capire: forse anche di silenzi. Senza ricomposizione la scena processuale diviene versione aggiornata del vecchio luogo del “supplizio”: certo non più epifania del martirio del corpo a cui dare dolore, così come rappresentato in molti quadri della tradizione moderna, come quello del fiammingo Cornelis de Wael che mostra la misericordia di visitatori impassibili in un ambiente di persone ai ceppi. Ma, pur sempre supplizio implicito nel corpo ristretto e soprattutto nella restrizione dell’estensione possibile del pensiero. Scrisse Gabriel Bonnot De Mably nel periodo dell’Illuminismo e del passaggio dalla pena corporale alla detenzione: «Che il castigo, se così posso dire, colpisca l’anima, non il corpo». La teatralità concede qualcosa ai residui di vendetta – e il linguaggio corrente sul «gettare le chiavi» o altre espressioni ormai utilizzate liberamente ce lo ricordano – perché una idea corporea della pena permane nella nostra contemporaneità, anche se avvolta dall’incorporeo di una penalità centrata sull’astratta neutralità del tempo sottratto come misura del castigo. L’assenza di prospettiva ricompositiva oltre a dare nuovamente spazio a quella teatralità che Michel Foucault richiama come sistema regolativo che si rivolge al reo e all’esterno con funzione ammonitrice e disciplinante dei comportamenti sociali, apre inoltre alla funzione estensiva dell’uso del diritto penale. Perché il teatro richiede sempre più spettatori: è a loro che si rivolge ciò che avviene sulla scena. Soprattutto quando mancano altre situazioni nel sociale che funzionino come elemento regolativo: che nel regolare e dirimere i conflitti, producano anche coesione. Il sistema penale strettamente punitivo si espande così con consenso laddove altri sistemi regolativi non funzionano: il suo ampliarsi è indice di altre assenze, di mediazione sociale e soprattutto politica e, a sua volta, agisce come base per ulteriori ampliamenti.

In questa corporeità residua rimane il nucleo della sanzione punitiva come sofferenza: la pena detentiva può divenire falsamente in discontinuità con l’antica pratica e persistente invece nel desiderio vendicativo: questo si concretizza, per le sue modalità esecutive, per i suoi elementi accessori, per la sua indifferenza al ritorno e all’inclusione.

Per questo abbiamo bisogno di ritornare ad alcuni fondamenti: il primo è che la detenzione in carcere, non è lo spazio per la pena possibile, perché è essa stessa il contenuto della pena. Il secondo è che non può esistere pena senza che a essa sia connesso un percorso. La stessa Corte costituzionale lo ha da sempre ricordato nell’aiutare a interpretare quella finalità rieducativa a cui la Carta afferma che le pene debbano tendere. Tale tendenza al reinserimento sociale – racchiuso nel termine «rieducazione» – non è elemento aggiuntivo, secondario rispetto alla struttura delle pene, ma un principio di orientamento delle pene stesse perché, scrive la Corte nella nota sentenza n. 313 del 1990 «se la finalizzazione venisse orientata verso diversi caratteri [affilittività, retributività], anziché al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l’individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione. È per questo – aggiunge la Corte – che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della pena». Un principio a cui ritornare e verso cui la nostra Corte costituzionale, recentemente come sempre, ha indicato la direzione. Ma, abbiamo anche bisogno forse di ripensare in sé il paradigma che lega il negativo del reato al negativo della punizione. Rinunciando a quella benda che indica il non voler vedere, abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo dell’esercizio di giustizia, in particolare della giustizia penale. La bilancia torna così a misurare la nostra capacità di incamminarci in questo percorso.

Mauro Palma

da il riformista

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