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Sulla rotta balcanica dei migranti morta anche la pietà per i disabili

Secondo le autorità di Sarajevo nel corso del 2020 sono entrate in Bosnia poco più di 16mila persone, altre 11mila sono state bloccate lungo i confini a sud. Farid si è svegliato senza una gamba. Eppure era sicuro di averla ancora dopo l’incidente stradale capitato al camion sotto al quale si era nascosto per sfuggire alle guardie di confine. Soprattutto Farid non riusciva a capire come fosse possibile che un mutilato potesse addormentarsi in un pronto soccorso in Slovenia per poi risvegliarsi a Sarajevo, in Bosnia.

I respingimenti dai Paesi Ue alla Bosnia non conoscono sosta, e nemmeno pietà. Anche della famiglia di curdo-iraniani catturati e portati via sotto i nostri occhi non c’è notizia. Erano riusciti a superare i crinali innevati e i campi minati in Croazia. Nell’Hotel Porin, l’unico centro di permanenza ufficiale del Paese, nella periferia di Zagabria, nessuno li ha visti ancora arrivare.

Di là della foresta, nei campi di confine bosniaci, la condizione non migliora. Un primo gruppo di circa duecento migranti rimasti senza riparo dopo l’incendio al campo di Lipa, presso Bihac, è stato provvisoriamente sistemato sotto a grandi tendoni riscaldati allestiti dalle forze armate bosniache. Gli stranieri sono rimasti per giorni esposti alla neve e al gelo, senza un riparo neanche per la notte.

Secondo le autorità di Sarajevo nel corso del 2020 sono entrate in Bosnia poco più di 16mila persone, altre 11 mila sono state bloccate lungo i confini a sud. Nei miseri centri d’accoglienza bosniaci sono registrati 6.300 migranti. Secondo le stime del Ministero dell’Interno altri 1.500 soggiornano in sistemazioni private o vagano all’aperto, nei boschi o in edifici abbandonati. Tra questi c’era proprio Farid, il ragazzo afghano rimasto senza la gamba destra. La sua testimonianza è stata raccolta proco prima di Natale da “Infokolpa”, una delle organizzazioni del network “Border violence monitoring”. Farid aveva cercato di attraversare il confine con la Slovenia alcuni mesi prima. Si era acquattato sotto a un tir, agganciandosi al telaio, ben nascosto tra gli pneumatici. Una volta in Slovenia il mezzo ha avuto un incidente, così Farid si è gravemente ferito. Per la sua gamba non c’era più niente da fare. Dopo tre interventi, mente era tenuto in coma farmacologico, i medici hanno amputato l’arto fin sopra al ginocchio.

Da subito Farid aveva espresso la volontà di ottenere protezione internazionale. Invece è stato caricato su un’ambulanza e scaricato come accade a chi viene acciuffato lunga la traversata dalla Croazia all’Italia. Non sono bastati 17 giorni in uno degli spedali di Lubiana per guadagnare almeno la speranza di una riabilitazione motoria in Europa. Dalla capitale slovena è stato “riammesso” in Croazia, da cui non ricorda neanche di essere transitato con il camion, e da qui in Bosnia Erzegovina, dove era stato consegnato a un campo profughi ufficiale. Lì, però, non c’erano cure adeguate a un caso grave come il suo. Ora si trova in un appartamento preso in affitto da un amico con cui attende la guarigione e qualcuno che si decida a fornirgli una protesi.

A Zagabria, intanto, le autorità continuano a ripetere che ogni segnalazione di abusi commessi dalle forze dell’ordine viene presa sul serio ed esaminata. E così si viene a sapere che a Karlovac, città a sud della capitale, nota per la confluenza di quattro fiumi e per la produzione di birre e pistole, a ottobre il tribunale ha respinto le accuse della polizia contro un presunto trafficante iraniano e quattro migranti orientali. Gli agenti avevano spiegato le circostanze dell’arresto, a cui gli stranieri si erano opposti, sostenendo che la violenza era venuta dagli iregolari e non dalla polizia.

Il tribunale non ha creduto a questa versione e ha rimesso in libertà i migranti, che avevano manifestato l’intenzione di chiedere asilo. La polizia li aveva accompagnati fuori dal tribunale facendoli salire a bordo di un furgone. Alcuni giorni dopo, i cinque sono riapparsi in Bosnia. Respinti. Il commissariato, intanto, aveva presentato ricorso contro l’assoluzione dei migranti. Ma anche la corte d’appello ha confermato il verdetto di non colpevolezza.

Gli episodi ricostruiti da Avvenire nell’ultimo mese saranno oggetto di diverse interrogazioni parlamentari in Italia e a Bruxelles. Pina Picierno (Pd) ha presentato un’istanza urgente “alla Commissione Ue e a Ursula von der Leyen perché si faccia chiarezza”. Nei giorni scorsi altri esponenti dell’europarlamento, tra cui Pietro Bartolo, vicepresidente della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, ha chiesto risposte rapide ed esaustive davanti alle accuse di respingimenti a catena e a ritroso dall’Italia alla Slovenia, da qui alla Croazia e infine in Bosnia.

Le copiose nevicate delle ultime ore fanno però del territorio bosniaco, fuori dalla giurisdizione Ue, il proscenio di una nuova tragedia umanitaria. Se pare tramontata l’ipotesi di adeguare l’accampamento incendiato a Lipa, nemmeno un trasferimento a Bihac pare al momento un’opzione praticabile sempre per l’opposizione del sindaco della cittadina e delle autorità del Cantone di Una Sana, che a fine settembre avevano chiuso il campo di Bira, allestito in una ex fabbrica e si erano opposti ad ogni tentativo di riapertura.

Uno scontro tutto interno alla politica bosniaca che secondo l’Organizzazione Onu per le migrazioni (Oim) lascia almeno 3 mila persone allo sbando e in pieno inverno. Se Zagabria, nonostante le accuse di respingimenti, non ha intenzione di costruire barriere. La Slovenia, al contrario, procede nell’istallazione di un “muro” che dovrebbe coprire una quarantina di chilometri lungo le zone maggiormente porose. Opere realizzate grazie a finanziamenti dell’Unione europea.

Nello Scavo

da Avvenire

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Croazia: Poliziotti a caccia di migranti (tra neve e mine): “Ce lo chiede l’Europa”

“Nessuno di questi vuole fermarsi in Croazia, ma noi dobbiamo fermarli”. Sulla rotta balcanica, tra i disperati in fuga dalle guerre (provocate anche dall’Occidente e dai suoi alleati).

La cronaca di un’altra emergenza umanitaria annunciata comincia dalla bufera di neve che per il terzo anno di fila ha quasi sepolto i campi profughi sul confine tra Bosnia e Croazia, trasformati in una trincea d’altri tempi. Pochi tra i migranti bloccati a Bihac e Velika Kladusa si azzardano a sfidare il manto bianco che poco più in là nasconde trappole mortali.

La maggior parte dei tremila accampati, tra cui i 1.200 in cerca di una sistemazione dopo l’incendio nel campo di Lipa, prima di ritentare i 300 chilometri di cammino verso l’Italia attenderanno che le temperature tornino sopra lo zero. Qualcuno però sfida la sorte, nella speranza che anche le guardie croate abbiano freddo.

“Ne prilazite”, avverte il cartello. “Non avvicinarsi”, perché questo è uno dei campi minati più pericolosi al mondo. Nella foresta di Bonja c’è il più recente tra i varchi aperti dai trafficanti. Lontano dai percorsi più noti al tam tam della rotta balcanica, in media chiedono 200 euro per ciascun migrante da guidare lungo i sentieri fin nel territorio croato. Di solito i passeur se la danno a gambe appena dopo il confine. I boschi, infatti, sono pattugliati giorno e notte. Arrivare a Bonja è un’impresa. Un viaggio tra edifici bombardati, eredità della guerra nella ex Jugoslavia, e chilometri di fango e torrenti senza anima viva. Non ci sono mappe stradali aggiornate, i telefoni diventano muti, e a ogni passo c’è da sperare di non essere incappati in un sinistro souvenir di guerra. Sono le cosiddette “aree sospette di mine”. Quasi il 99% delle trappole esplosive è ancora nascosto tra i boschi.

Il centro croato per lo sminamento, che da anni lavora incessantemente per mettere in sicurezza i quadranti più a rischio, stima almeno 18 mila esplosivi antiuomo ancora nascosti, oltre a un incalcolabile quantità di bombe inesplose. Dal termine del conflitto oltre 500 persone sono morte dopo aver sentito un micidiale clic sotto agli scarponi, più di 1.500 sono i mutilati. Perciò anche i poliziotti inviati a tenere d’occhio le possibili vie d’ingresso dei migranti non sono contenti di dover restare per giorni quassù.

“Le mine si spostano – racconta un giovane agente dai modi cordiali. Non esiste una mappatura affidabile perché la pioggia, il fango, le frane, cambiano continuamente lo stato del terreno”. Mentre ci implora di tenerci alla larga dal sentiero e tornare indietro il prima possibile, il suo sguardo cade dietro al furgone bianco del commissariato. Accovacciati su dei sassi ci sono due donne, due uomini e un bambino. Sono stati catturati pochi minuti prima da una squadra in tenuta antisommossa, poi tornata nella foresta per dare la caccia ad altri irregolari.

“Vi prego – dice – qui non potete fare fotografie. Non dovete fare domande e non potete parlare con i migranti. Sono entrati illegalmente. Adesso arriva il mio capo e vi spiegherà tutto”. Poi viene interrotto dalla radio. Sembra che il tenente non creda sia possibile che ci siano dei giornalisti proprio lì. Mentre il poliziotto spiega che non è uno scherzo e che devono venire in forze, riusciamo a parlare con i migranti. Sono curdo-iraniani. Si erano messi in cammino da poco e sono stati intercettati subito. Chiederanno asilo, se gliene sarà data la possibilità. Il bambino non avrà più di 11 anni. È preoccupato, ma non spaventato. Una delle due donne tiene la testa bassa mentre arrivano i furgoni senza finestrini. All’interno solo due panche d’acciaio ancorate e diverse catene con manette agganciate ai sedili. È li che la famiglia di profughi verrà caricata. Gli agenti, però, non vogliono dirci dove li portano.

La dozzina di poliziotti indossa tute blu. Le mani coperte da guanti mozzati con le nocche rinforzate. “È per proteggerci dal freddo”, assicurano. Secondo le denunce di diverse organizzazioni umanitarie e dalle inchieste del Commissario croato per i diritti umani, uomini con analoghe divise sono stati ripresi mentre aggredivano i migranti nel corso dei respingimenti verso la Bosnia. Il governo di Zagabria ha garantito di avere avviato decine di indagini interne, ma esclude che le proprie forze di polizia possano essere state coinvolte in violazioni contro i diritti umani.

Il lavoro che Ipsia-Acli insieme alla Caritas sta svolgendo lungo la rotta balcanica “è proprio quello di non rincorrere l’emergenza, che – spiega la coordinatrice Silvia Maraone – puntualmente si ripresenta a ogni inverno. Semmai scegliamo di creare spazi di relazione con le persone che altrimenti vengono trattate semplicemente come numeri da mettere in coda per ricevere il cibo, le scarpe, le coperte”.

Oltre agli stranieri presenti nei campi, moltissimi altri che vagano alla ricerca di una sistemazione di fortuna. “Da mesi sapevamo che il campo di Lipa era inadeguato. Per ragioni politiche il governo bosniaco non ha ottemperato all’impegno di portare almeno l’elettricità nel campo”. Poi è arrivato un incendio alla vigilia di Natale e centinaia di persone sono rimaste senza neanche una tenda di plastica sotto cui ripararsi.

Attraversare il confine non è poi così difficile. La foresta è una terra di nessuno. La frontiera non è segnalata. Solo il gps può indicare con precisione lo sconfinamento. E quando raggiungiamo il territorio bosniaco, lungo la stradina di fango abitualmente percorsa dai trafficanti di uomini e dai contrabbandieri, una camionetta sopraggiunge dalla direzione opposta e corre a fermarci. “Andate via, ci sono anche trafficanti armati, sono pronti a sparare”, prova a spiegare mostrando la divisa completamente ricoperta di fango solo sul davanti, come se avesse strisciato per terra.

Dal 2017 il Centro per gli studi sulla pace di Zagabria ha depositato sei denunce penali. Due nelle settimane scorse, a causa della detenzione di 13 stranieri, tra cui due bambini, poi consegnati “a dieci uomini armati vestiti di uniformi nere, con il passamontagna sulla testa”. Secondo l’accusa, “gli uomini in divisa nera hanno picchiato, umiliato e respinto le vittime dal territorio della Repubblica di Croazia fino alla Bosnia-Erzegovina”.

Fonti del ministero dell’Interno hanno reagito sostenendo che potrebbe trattarsi di “civili armati” che sfuggono al controllo della polizia. Intanto l’ufficio del difensore civico presso la Commissione Ue ha avviato il 20 novembre una indagine per accertare se vi siano state omissioni o comportamenti illegali da parte delle polizie sui confini di Italia, Slovenia e Croazia, finalizzati al respingimento verso la Bosnia. “Nessuno dei migranti è intenzionato a fermarsi in Croazia”, ammette un poliziotto al posto di controllo di Veliki Obilaj. “Però dobbiamo fermarli lo stesso per proteggere i nostri confini. Sono gli ordini – dice. E poi ce lo chiede l’Europa”.

Nello Scavo

da Avvenire

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