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Sudan: Pugno duro dei militari golpisti, uccisi 10 manifestanti

Esercito e polizia hanno aperto il fuoco sulla folla a Khartoum e in diverse altre città e località del paese. Oltre ai morti decine di feriti.

di Michele Giorgio

«La legittimità viene dalla strada, non dai cannoni». Issando cartelli con questa e altre scritte, i sudanesi ieri hanno confermato, una volta di più, che non si rassegnano al golpe del 25 ottobre. E sono tornati nelle strade di Khartoum, Port Sudan, Omdurman, Kassala, Dongola, Wad Madani, Bahri, Geneina e di altre città e località a manifestare contro la dittatura militare che il generale Abdel Fattah al Burhan, passo dopo passo, sta instaurando nel paese. La protesta prosegue e così la risposta brutale di soldati e poliziotti che ieri aprendo il fuoco sulla folla hanno bagnato di sangue la capitale e altre città. Dieci manifestanti sono stati uccisi: 7 a Bahri, 2 a Khartoum e uno a Omdurman.

«Le forze del colpo di stato stanno usando copiosamente proiettili veri in varie aree della capitale, hanno ucciso diverse persone e ferito altre dozzine, alcune sono in condizioni critiche» ha denunciato la Commissione centrale dei medici sudanesi. «Abbiamo visto violenze mai praticate prima – ha aggiunto la Commissione, schierata con la transizione democratica cominciata nel 2019 e con il governo del premier deposto Abdallah Hamdok -, le forze di sicurezza hanno attaccato gli ospedali, tra cui quello di Omdurman, il Waad e l’ospedale del Nilo orientale e hanno anche impedito alle ambulanze di trasportare alcuni dei feriti più gravi da Omdurman a Khartoum». La polizia nega che sia stato aperto il fuoco con proiettili veri, sostiene di aver lanciato solo lacrimogeni e che «le proteste sono iniziate in modo pacifico e improvvisamente sono diventate violente» costringendo gli agenti ad impiegare «la forza minima necessaria per fermarle».

I Comitati di resistenza popolare rigettano questa versione dell’accaduto e chiedono giustizia per gli oltre 20 morti dalle proteste contro il golpe. Il quadro è in rapido peggioramento e il paese continua a essere isolato. Oltre a internet sono state tagliate le linee di telefonia mobile per ostacolare l’organizzazione delle manifestazioni. Preoccupa il fallimento degli sforzi di mediazione per rilanciare almeno la partnership tra militari e civili che ha guidato il Sudan dopo la caduta nel 2019 di Omar al Bashir. Il generale Al Burhan, che il 14 novembre ha presieduto la prima seduta nel nuovo Consiglio Sovrano senza i civili, si affida proprio alla collaborazione con esponenti dell’era Bashir per cementare il suo potere, forte anche delle posizioni inizialmente di condanna del golpe e in seguito più moderate espresse dagli Stati uniti e da altri paesi, occidentali e arabi. Ne sono un esempio le parole pronunciate ieri dal segretario di Stato Usa Antony Blinken in visita nel vicino Kenya. «Se i militari rimetteranno in sesto questo treno e faranno ciò che è necessario, penso che il sostegno della comunità internazionale possa riprendere. Quel sostegno è stato in gran parte sospeso. E il Sudan ne ha bisogno», ha detto il capo della diplomazia statunitense. Washington fa capire che potrebbe accontentarsi anche di una parvenza di «transizione democratica» gestita dall’esercito, pur di evitare che il golpe del 25 ottobre spinga Al Burhan e il suo braccio destro, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, ad abbandonare il campo pro-Usa per affidarsi a russi e cinesi. Dormono tranquilli invece a Tel Aviv, l’Accordo di Abramo e la normalizzazione tra Israele e il Sudan non sono a rischio. Al Burhan e Degalo sostengono l’alleanza con lo Stato ebraico.

Burhan si è sbarazzato delle Forze per la libertà e il cambiamento, l’alleanza che aveva condiviso il potere con i militari. E ha accolto a braccia aperte El Hadi Idris, Malik Agar e Taher Hajar, i rappresentanti di alcuni ex gruppi ribelli che hanno deciso di scommettere sull’alleanza con i militari. Osservano gli sviluppi di terreno altre due formazioni ex ribelli, il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Jem) e il Movimento per la liberazione del Sudan.

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