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In Siria le armi non tacciono ancora. (e i Curdi si preparano ad una possibile nuova invasione)

Lungi dall’essere pacificata e normalizzata, la situazione in Siria si mantiene “stabilmente instabile” e bellicosa, incerta. Permane infatti il rischio di ulteriori conflitti aperti che travalichino l’attuale “guerra a bassa intensità”. Andando ben oltre le odierne scaramucce, scambi di cannonate (che comunque lasciano sul terreno decine di civili, sia quelle di provenienza turca che governativa) e uccisioni mirate con i droni (una specialità di Ankara).

Le forze curde e i loro alleati locali (FDS e YPG – Unità di protezione del popolo) controllano ancora quel territorio (nel nord della Siria a est dell’Eufrate) che ormai è universalmente riconosciuto come Rojava. E portano avanti, rafforzano e sedimentano, il loro progetto di autogestione democratica grazie all’impegno dell’Amministrazione autonoma del nord-est siriano (AANES). Addirittura aprono sedi di rappresentanza (l’equivalente di un consolato o di un’ambasciata) all’estero. Come è avvenuto in Svizzera in agosto. Ovviamente i curdi qui operano tra mille difficoltà e perennemente sotto pressione. Basti pensare ai costi dell’irrisolto problema dei miliziani di Daesh e delle loro famiglie (si parla di decine di migliaia di persone, solo in Al-Hol oltre 60mila) ancora nelle mani dei curdi. Senza che a livello internazionale si cerchi una soluzione adeguata, garantendo il rimpatrio nella nazione di origine degli islamisti stranieri.

Gli accordi tra Mosca e Ankara dell’ottobre 2019 in qualche modo sembrano reggere e la Turchia, per ora, non ha lanciato altre operazioni militari in grande stile. Limitandosi, come già detto, a bombardamenti quasi quotidiani contro le postazioni curde.

Ma intensificando soprattutto le operazioni mirate contro quartieri generali e depositi e contro esponenti curdi (ma forse in questi casi si dovrebbe parlare di esecuzioni extragiudiziali). Utilizzando soprattutto i droni e talvolta gli aerei. In questo modo, il 19 agosto a Qamishli, è stato assassinato il comandante delle YPG Renas Roj mentre il giorno dopo veniva colpita Tall Tamr dove era prevista una riunione di esponenti politici e comandanti curdi (sette le vittime accertate).

Di questi fatti – e di almeno un’altra ventina di attacchi similari sempre in agosto – si erano apertamente lamentati con la Russia i membri di una delegazione approdata a Mosca. Nel frattempo i curdi rispondono come possono e il 7 settembre, per esempio, i colpi di mortaio provenienti dalle loro linee avrebbero causato la morte di un soldato e diversi feriti (sia tra i militari turchi che tra i miliziani dell’ANS). Ma soprattutto, in vista di una possibile nuova invasione, scavano tunnel e trincee.

Altre questione di non facile soluzione (sollevata regolarmente sia da Israele che dagli USA): la presenza iraniana sul territorio siriano. Sia quella iraniana tout court che quella filo-iraniana, ovvero le milizie sciite (non solo Hezbollah). Presenza che anche recentemente ha scatenato diversi attacchi aerei da parte di Israele.

Il 22 aprile veniva colpita la base antiaerea di Dmeir e un missile siriano aveva colpito un aereo israeliano (aereo che pare sia riuscito a rientrare in patria, ma solo per esplodere nei pressi di una centrale nucleare). Il mese successivo, il 5 maggio, altro raid e così il 9 giugno (questo su Damasco). Tra il 20 e il 22 luglio venivano colpite le zone intorno adAleppo e Homs, mentre Damasco – per la seconda volta in due mesi – il 19 agosto. Altri attacchi aerei, sempre contro installazioni ritenute sotto il controllo di Hezbollah (o comunque di altre milizie legate a Teheran), in settembre.

Da parte loro, gli statunitensi avevano pesantemente bombardato alla fine di giugno le postazioni di Hashd Al-Shaabi, un gruppo che si ritiene sia finanziato dall’Iran. Immediata la risposta della milizia sciita che aveva esploso numerosi colpi di lanciagranate contro Al-Omar, una zona controllata dai curdi.

Gianni Sartori

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