«Noi, semplicemente, facciamo la nostra parte» intervista con uno degli indagati per l’irruzione negli uffici della Turkish Airlines di Torino
- settembre 07, 2016
- in misure repressive, no tav
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Questa è l’intervista raccolta con uno dei dieci indagati per l’irruzione negli uffici della Turkish Airlines di Torino-Caselle del settembre 2015.
Il Tribunale di Torino, a fine luglio 2016, aveva imposto agli indagati per quell’azione l’obbligo di recarsi due volte al giorno in commissariato, ma diversi di loro, come altri tra Torino e la Valsusa, hanno deciso di non rispettare quelle restrizioni e di iniziare una campagna di resistenza alle imposizioni del Tribunale, rendendosi irreperibili in attesa dell’udienza di riesame il 2 settembre. Quel giorno, mentre in strada si svolgevano diverse iniziative di solidarietà, all’interno dell’aula gli imputati hanno letto una dichiarazione in cui ribadivano questa scelta, dichiarando che nessuna ulteriore misura restrittiva sarebbe stata rispettata. Il giorno dopo il Tribunale ha comunicato la propria decisione: annullamento di tutte le misure cautelari.
Non siamo soliti ai trionfalismi, ma non ci sembra di esagerare dicendo che la lotta, ancora una volta, ha pagato, e soprattutto che questo è un buon segnale per il prosieguo di una battaglia che non finisce certo qui.
Di questa battaglia, delle sue ragioni e prospettive, abbiamo parlato in questa intervista, realizzata a metà agosto “dall’esilio” con uno degli imputati.
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Puoi incominciare raccontando perché vi trovate in questa situazione, in fuga dalle misure restrittive datevi dal Tribunale di Torino, e in che cosa consistono queste misure repressive?
Il mese scorso, alla fine di luglio, precisamente il 21 luglio, a una decina di compagni e compagne che abitano in Piemonte – tra la Val Susa, la Val Chisone, la Val Pellice, Cuneo, Torino – ci hanno notificato delle misure cautelari, delle misure restrittive, per una iniziativa di protesta che abbiamo fatto l’anno scorso, il 25 settembre del 2015, contro la Turkish Airlines, la compagnia di bandiera turca, in solidarietà con la lotta in Turchia e la resistenza in Kurdistan. Ciò avveniva nel momento in cui lo Stato turco stava riprendendo la guerra anche sul suolo turco contro il popolo curdo, e nel momento in cui vigeva un accordo e una complicità tra l’Europa e la Turchia in conseguenza del ricatto umanitario della Turchia sulla questione dei rifugiati e dei migranti. In Europa c’era un silenzio pressoché totale di fronte a tutte le azioni di repressione e di vero e proprio tentativo di genocidio condotte dalla Turchia contro il popolo curdo. Di fronte a questo, l’idea era di rompere un po’ il silenzio che questa situazione di complicità aveva creato e di denunciare ciò che la Turchia di Erdogan stava facendo con questo intervento armato contro i propri stessi cittadini.
Quindi siamo andati alla sede della Turkish Airlines con delle bandiere del Kurdistan e del PKK, abbiamo occupato l’ufficio per qualche minuto, il tempo di leggere un comunicato che abbiamo filmato e fatto circolare su internet, poi abbiamo fatto un breve corteo nell’aeroporto di Torino-Caselle, con striscioni, megafono, volantini… Un’azione insomma tutto sommato tranquilla e a volto scoperto, per la quale oggi, dopo quasi un anno, siamo stati incriminati per i reati di resistenza, violenza privata e violazione di domicilio, e ci sono arrivate queste misure cautelari: l’obbligo di firmare tutti i giorni due volte al giorno. Non è che la cosa ci abbia sorpreso granché, purtroppo queste misure repressive non sono una novità nel panorama italiano.
Negli ultimi anni, infatti, principalmente a partire dal 2011-2012, ovvero il momento un po’ più caldo della lotta in Valsusa, in Italia c’è stata una vera e propria escalation di questo tipo di misure, a partire soprattutto dal Piemonte per il fatto che tra la Valle e Torino ci sono state più occasioni di conflitto e di lotta popolare. Si tratta di misure cautelari, nel senso che vengono date prima del processo e in vista del processo, come misure di restrizione in attesa del giudizio; quindi in teoria tu potresti essere innocente, nei fatti non sei ancora stato giudicato, però fino al processo avrai delle misure di restrizione che normalmente sono il carcere o misure alternative al carcere quali gli arresti domiciliari, obblighi di firma, di dimora, divieti vari…
La questione è che nell’ultimo periodo questo tipo di misure sono state utilizzate a tappeto, su vasta scala e per reati spesso di bassissima rilevanza. Normalmente le misure cautelari venivano utilizzate per reati abbastanza gravi, perché oltre al fatto che in teoria fino al processo si è innocenti, la carcerazione preventiva e anche le misure alternative al carcere devono essere giustificate dal pericolo di fuga o di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato, queste sono le tre motivazioni per cui un giudice può firmare delle ordinanze restrittive. Da quando hanno cominciato a utilizzarle per contrastare i movimenti sociali, si è invece esteso enormemente il loro utilizzo anche per reati di scarsissima rilevanza penale come resistenza, danneggiamento, occupazione… cioè tutte quelle tipologie di reato che vengono commesse all’interno di lotte sociali, come anche manifestazioni non autorizzate, blocchi del traffico, ecc. Chiaramente si tratta di una strategia da parte della Procura, in particolare la Procura torinese, per trovare delle forme di contrasto di fronte alle lotte: si sono chiesti «come possiamo colpire e indebolire delle lotte a cui partecipano centinaia e centinaia di persone di tutte le età?»; chiaramente per quella che è la situazione politica in Italia, per il momento, non possono mettere in carcere migliaia di persone, a maggior ragione per reati di così basso profilo, per cui hanno elaborato quest’altro tipo di strategia.
Un esempio, in Valsusa ma non solo, contro chi viene da fuori per partecipare alle mobilitazioni, è l’utilizzo abbondante che viene fatto del foglio di via, che è ancora una cosa un po’ differente perché si tratta di una misura di polizia, cioè non c’è un giudice che decide ma è semplicemente il questore che emette il foglio di via, è una misura amministrativa. In altri casi, come le centinaia di processi che hanno colpito la Valsusa, appunto sono queste misure restrittive cautelari che nei fatti rispondono a un ragionamento che io suppongo sia stato fatto nelle stanze del nostro nemico, quello di trovare delle modalità più soft per far fronte al conflitto, evitando arresti di massa che probabilmente avrebbero esacerbato ancor più la contrapposizione e la conflittualità.
Negli anni, però, ci siamo resi conto che tali modalità sono soft solo per loro, non per noi: chiaramente nell’immediato e individualmente è ovvio che è meglio stare chiuso in casa piuttosto che chiuso in carcere, ma nel complesso, quando ti trovi con decine e centinaia di compagni che non possono più venire nel posto in cui stai lottando, o non possono uscire dal loro Comune di residenza, non possono più andare qui o andare là, o devono andare tutti i giorni a firmare in commissariato, queste dinamiche nei fatti intralciano la prosecuzione delle lotte fino al punto di bloccarle… Nel nostro caso, ci hanno notificato l’obbligo di firmare due volte al giorno tutti i giorni nel commissariato di polizia più vicino (vicino poi si fa per dire perché ad esempio personalmente io che abito a Chiomonte dovrei andare a firmare fino a Bardonecchia, a circa 40 km da casa, per cui dovrei fare circa 160 km al giorno, una roba da passare mezza giornata ogni giorno su e giù per l’Alta Valle, e altri di noi sono messi anche peggio).
Chiaramente poi ci sono anche altre difficoltà e altre dinamiche che si intrecciano, però questa forma di repressione diffusa ha senz’altro avuto delle conseguenze sul movimento no tav. Ci sono davvero centinaia e centinaia di persone che hanno avuto e hanno divieti di questo tipo, soprattutto persone da fuori che non possono più venire in Valle e ciò rappresenta un attacco a tutta la solidarietà che si era creata nel resto d’Italia e non solo. I soggetti più partecipi hanno ricevuto una pioggia di divieti di questo tipo, o anche gente di Torino o della provincia di Torino che partecipava assiduamente alle iniziative di movimento in Valle, ormai a decine non possono più venire, magari per un anno o sei mesi, poi magari la misura decade e ne vengono aperte delle altre; tanti ancora non possono andare nel Comune di Chiomonte e di Giaglione, dove c’è il cantiere del Tav; è insomma qualcosa che senz’altro ha un effetto perché su larga scala riesce a rompere la continuità di un intervento nelle lotte e nei territori… Questo sia in Valsusa ma anche più in generale: a Torino anche non si contano più i compagni che hanno procedimenti di questo tipo, praticamente tutti quelli che partecipano alle lotte. Sono poi anche questioni che comportano un dispendio di forze e di energie tra seguire gli avvocati, raccogliere soldi, fare ricorsi, andare ai processi, lo stesso «battersi contro la repressione», alla fine quando la mole aumenta porta a spendere soldi, energie, tempo per queste cose e inevitabilmente sono energie che vengono sottratte ad altri fronti.
E dunque questo dilagare di misure restrittive ha suscitato delle reazioni?
L’analisi che facevamo prima, ovvero il fatto che si tratti di una strategia pianificata a cui è necessario dare una risposta, trovare delle forme di contrapposizione, ha fatto sì che un paio di mesi fa, ora non ricordo precisamente le date, una dozzina di compagni di Torino che avevano avuto dei divieti di dimora da Torino hanno deciso di rifiutare di andarsene. Quel divieto era già di per sé una cosa allucinante, perché si trattava di compagni che vivono a Torino, talvolta lavorano e hanno la casa a Torino, e a cui viene imposto di allontanarsi dalla propria città, è un vero e proprio esilio, come durante il fascismo, solo che non ti dànno un altro posto dove andare, te ne devi andare da un giorno all’altro da dove hai la tua casa, la tua famiglia, il lavoro…
Insomma, a dodici compagni di Torino avevano dato queste misure, loro hanno rifiutato di rispettarle, l’hanno dichiarato pubblicamente dai microfoni di Radio Black-Out, e hanno poi fatto un corteo per la città denunciando questa cosa e dichiarando che non se ne sarebbero andati. L’idea di fondo, che in quel caso si è rivelata vincente, era di farla finita con l’accettazione passiva delle misure restrittive di controllo, cosa che avviene finché le si affronta individualmente – perché il problema è anche un po’ quello, quando viene arrestato un compagno o una compagna la cosa verosimilmente provoca rabbia, solidarietà, manifestazioni, ecc., mentre invece quando si tratta solo di un obbligo di firma alla fine viene percepito come qualcosa di «leggero», niente di grave. Chiaramente però quando diventano centinaia la cosa cambia.
L’idea insomma era quella di rifiutare collettivamente di sottostare a queste limitazioni della propria libertà costringendo la Procura e i giudici a prendersi la responsabilità di mandare tutti in carcere. In quel caso si trattava di una lotta contro i CIE (centri di detenzione per migranti) nello specifico contro la ditta che forniva i pasti (pieni di vermi ecc.) agli immigrati rinchiusi nel CIE di Torino. Dopo il loro rifiuto, all’udienza del Tribunale di riesame, sono state annullate tutte le misure.
Pochi giorni dopo, in Valsusa sono arrivate altre misure per un processo contro oltre venti compagni, e diversi indagati in quell’inchiesta, che riguarda una manifestazione dell’estate scorsa davanti ai cancelli del cantiere a Chiomonte, hanno avuto diverse misure, obblighi, divieti, firme, arresti domiciliari. Anche in questo caso, quest’ennesima operazione poliziesca ha suscitato un rifiuto: due di quelli che dovevano sottostare al regime di detenzione domiciliare si sono pubblicamente rifiutati di farlo, dichiarandolo in un’assemblea pubblica in Valle – che sono Luca e Giuliano – e sono stati arrestati poco dopo. Bisogna precisare che fino ad allora, nel caso di Torino, si era trattato di misure come il divieto di dimora, la cui violazione non comporta direttamente il carcere – cioè ci sono dei passaggi intermedi: degli aggravamenti delle misure, se violi anche quelli poi avrai gli arresti domiciliari o il carcere, insomma è un po’ graduale la cosa – per cui quando il Tribunale di Torino gli ha annullato le misure ha annullato tutto e basta, mentre nel caso di Luca e Giuliano, che avevano gli arresti domiciliari, appena li hanno violati è scattato il mandato di cattura perché la violazione dei domiciliari in Italia configura il reato di evasione che comporta un minimo di sei mesi di detenzione. Ora loro due si trovano nel carcere di Torino per l’aggravamento della misura degli arresti domiciliari, mentre per l’evasione sono stati condannati a sei mesi, che dovranno poi scontare ai domiciliari. Altri, coinvolti nella stessa inchiesta, stanno rifiutando alcune restrizioni (per esempio dagli arresti domiciliari puoi avere il divieto di comunicare, ricevere visite, telefonare… alcuni ad esempio stanno dicendo che non rispettano questo divieto), quindi ci sono anche diversi gradi di risposta a seconda di diversi fattori, delle sensibilità, delle possibilità, delle scelte individuali. Poi c’è Nicoletta, a Bussoleno, sempre in questa inchiesta, che ha rifiutato l’obbligo di firma tutti i giorni, ora gli è stato aggravato in obbligo di dimora con rientro serale, quindi non potrebbe uscire dal Comune di Bussoleno e dovrebbe stare in casa dalle 18 alle 8; lei sta già rifiutando girando l’Italia per delle assemblee pubbliche e ha già detto che non rispetterà i domiciliari, si vedrà…
Subito dopo, poi, c’è stato il nostro caso, tutto insomma nel giro di un mese e mezzo, quindi è qualcosa di molto recente e in evoluzione, non è ancora molto ben chiaro, questo è anche un elemento da considerare, che anche per la Procura di Torino e in generale per la giurisprudenza italiana è una cosa abbastanza nuova, anche gli avvocati dicono che spesso è un po’ un’incognita perché non ci sono molti precedenti legali, è un po’ una novità anche per loro.
Comunque, tornando a noi, anche noi abbiamo rifiutato di rispettare le misure che ci hanno imposto per l’azione contro la Turkish Airlines, anche se non proprio tutti in questo momento; nel senso che sui dieci che siamo in questa inchiesta uno si trova già in carcere, che è Giuliano (già dentro per la manifestazione no tav e che ora ha ricevuto anche questa), a una compagna non è stato notificato perché non l’hanno ancora trovata, tre stanno firmando e cinque abbiamo rifiutato di andare a firmare. L’elemento importante da sottolineare è che questa scelta è stata discussa e presa in una riunione che abbiamo fatto insieme e nella quale abbiamo condiviso tutti l’importanza di lottare contro queste misure, poi magari in questo momento per ragioni personali, di lavoro o altro, alcuni hanno preferito andare a firmare ma non c’è alcuna separazione o diversità di vedute. Questo è importante ed è stata anche la posizione che ha preso il movimento no tav, quella di sostenere collettivamente tutte le scelte individuali che vengono fatte per contrapporsi a questa repressione, senza dare una linea di condotta dicendo «tutti dobbiamo fare così o cosà», perché ci sono situazioni diverse, anche gente molto anziana o con bambini, o anche solo sensibilità diverse per cui non tutti magari sceglieranno di arrivare fino alla prigione ma comunque parteciperanno e sosterranno la lotta in altre forme, questo non è un problema e soprattutto non deve essere fonte di divisioni, anzi.
Per quanto ci riguarda, in questo momento noi siamo un po’ in attesa, il 2 di settembre ci sarà il riesame e vedremo: noi al momento abbiamo scelto non solo di non rispettare le firme ma anche di sfuggire la notifica degli aggravamenti che inevitabilmente questo comporta, non facendoci trovare dalla polizia almeno fino al riesame, per evitare di arrivare all’udienza con un mandato di cattura per il reato di evasione. Il 2 settembre vedremo: potrebbero annullarci tutto oppure confermare misure aggravate che comunque abbiamo già deciso di non accettare, e per cui la conseguenza sarà il carcere. L’idea alla base di questa nostra scelta è che è ora di dire basta, accettando con serenità le conseguenze che questo comporterà, compreso il carcere, non perché amiamo il martirio, ma perché la riflessione che abbiamo fatto è stata che di fronte a questo utilizzo a cuor leggero delle misure restrittive il modo più efficace per inceppare questa che sta diventando una normalità è quello di dire «noi non accettiamo più di autoinfliggerci limitazioni alla nostra libertà, dovrete farlo voi e dovrete prendervi la responsabilità di farlo, portandoci tutti in carcere con tutte le conseguenze che questo può innescare fuori e anche dentro le prigioni; per noi non è un problema, continueremo a batterci ovunque saremo». Ovviamente questo sarà tanto più efficace quanta più gente deciderà di farlo e di sostenerlo: se questo rifiuto assumerà proporzioni importanti, non dico di massa ma comunque di decine e decine di compagni, credo proprio che riusciremo a creargli un problema tale da costringerli a cambiare strategia…
Poi nello specifico del nostro caso, della nostra inchiesta, vedremo, nel senso che non abbiamo ancora avuto la possibilità di elaborare tutti insieme una strategia, una posizione precisa, non sappiamo come andrà il ricorso il 2 settembre, per cui è tutto un po’ da vedere, però l’idea generale è un po’ questa.
Hai parlato del 2012 come inizio di tutto ciò, puoi spiegare un po’ più nel dettaglio perché, e perché a partire dalla lotta no tav…
In Valsusa, in seguito allo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena, alla giornata di lotta del 3 luglio al cantiere di Chiomonte, e poi di conseguenza tutte le iniziative che ci sono state sia intorno al cantiere sia in giro per la Valle, blocchi delle autostrade dopo lo sgombero della baita e la caduta di Luca dal traliccio, sono stati circa tre anni, con alti e bassi chiaramente, ma comunque di lotta molto intensi, che inevitabilmente hanno portato alla commissione di molti reati a livello di massa: blocchi delle autostrade, delle ferrovie, manifestazioni più o meno notturne al cantiere, azioni e attacchi di qui e di là per contrastare quella che andava sempre più definendosi come una occupazione militare della Valle, azioni a cui hanno partecipato centinaia e spesso migliaia di persone. In conseguenza di ciò, a parte le inchieste più specifiche, come quella per il 3 luglio o quella contro i compagni accusati dell’attacco al cantiere con l’accusa iniziale di terrorismo, oltre a queste inchieste potremmo dire più tradizionali, c’è stata una vera e propria esplosione di denunce contro gli attivisti no tav, potremmo definirla una incriminazione di massa. Ormai al Tribunale di Torino c’è un pool di magistrati che lavora esclusivamente sul movimento no tav, oltre ovviamente a reparti della Digos; per dare un’idea dei numeri, dal 2011 a oggi ci sono stati oltre 1000 procedimenti di questo tipo, tra misure cautelari e di polizia, che è una cosa che non si era mai vista in Italia. Inizialmente soprattutto con misure amministrative, come i fogli di via, oppure multe, ecc., e poi con le misure cautelari di cui abbiamo parlato, quindi con restrizioni in attesa del processo penale.
Anche tutta la fase delle multe fa parte di queste forme di repressione elaborate per far fronte a un movimento popolare, come quello della Valsusa, di fronte al quale hanno preferito evitare di esacerbare gli animi con ulteriori carcerazioni. Un conto infatti è la repressione contro ambienti militanti ristretti, in cui di certo non si fanno problemi ad arrestare qualche militante ultra noto e pluripregiudicato, un’altra cosa è arrestare l’abitante qualsiasi della valle, la signora settantenne o il barbiere o il medico del paese… per loro è molto più problematico…
Quando hanno visto che gli arresti di alcuni attivisti e addirittura l’imputazione di terrorismo non erano serviti a spaccare il movimento né a spaventare la popolazione, e anzi avevano provocato una reazione di solidarietà che in Italia non si era mai vista in queste forme, hanno provato a spaventare la gente con la minaccia di togliergli lo stipendio, la pensione, la casa; hanno visto che la gente non aveva paura di prendersi le botte, le denunce, persino di essere arrestata e hanno provato così. È qualcosa che è stato sperimentato negli anni immediatamente precedenti in Euskal Herria, nei Paesi Baschi, ed effettivamente ha dato dei risultati, perché se ogni volta che scendi in piazza ti prendi mille euro di multa, dopo un po’ ci pensi due volte a farlo, soprattutto nell’ambito di una lotta popolare (magari in ambito strettamente militante questo funziona meno, un po’ perché moltissimi non c’hanno niente o comunque si elaborano strategie difensive, ma per chi magari ha lavorato una vita per pagarsi il mutuo o per la pensione, l’idea che lo Stato arriva e te la porti via ovviamente ti fa girare i coglioni, ancor più delle mazzate o di qualche giorno di galera). Ma in Valsusa c’è stata una risposta sorprendente a questa strategia delle multe, con raccolte di soldi lanciate in Valle e in tutta Italia e che hanno portato a raccogliere centinaia di migliaia di euro; è una dimostrazione di solidarietà che ha sicuramente dato forza, e se non si può dire che abbia vanificato del tutto il tentativo di intimorire, questo non posso dirlo, sicuramente ha dimostrato una capacità di risposta a livello allargato e popolare, che non è poco.
Comunque, questa dimensione di massa di illegalità del movimento no tav sicuramente è stata alla base di questo processo repressivo, ma anche la situazione torinese, in cui c’è stato negli ultimi anni un incremento delle lotte, sia delle lotte contro gli sfratti, o per il diritto alla casa, come vogliamo chiamarle, delle lotte nei quartieri, contro le espulsioni dei migranti, e i centri di detenzione, soprattutto in alcuni quartieri in cui la composizione sociale negli ultimi anni si è parecchio modificata innescando nuove conflittualità, ma anche lotte studentesche con manifestazioni terminate in scontri con la polizia, scontri con i fascisti all’università e cose del genere, insomma contro tutto ciò si sono sperimentate largamente queste forme repressive. Torino e la provincia sono diventate sicuramente un laboratorio di forme repressive che poi vanno a diffondersi nel resto della penisola, ed è anche per questo che è così importante, crediamo, opporvisi qui e farlo ora, non permettere che diventi la norma, perché se questo passa qui senza incontrare resistenze sarà un precedente grave per tutte le lotte anche altrove presenti e future.
In realtà, come dicevo prima, questa sperimentazione è iniziata in Valsusa ma ormai è qualcosa di rodato, di sperimentato, e ora viene applicato su più larga scala in diverse situazioni di lotte e di conflitti, la nostra è una di queste, ma ce ne sono tante altre. A Roma ad esempio hanno dato delle misure di questo tipo per delle contestazioni a Salvini, a Bologna anche dei divieti per delle lotte studentesche, lo stesso accade a Ventimiglia nelle lotte sulla frontiera, o in Sardegna nelle battaglie antimilitariste, ormai è qualcosa che sta dilagando; io qui ho parlato molto della Valsusa e di Torino perché è il territorio in cui vivo e dunque conosco di più, ed è quello su cui c’è stato il maggior numero di queste misure, ma sempre di più questa cosa va diffondendosi ovunque ci sono lotte. Quindi chiaramente l’idea di costruire una battaglia contro queste misure non è una questione locale, non solo locale, ma è qualcosa che crediamo riguardi tutti; anche a livello europeo è un po’ una tendenza quella di utilizzare sanzioni amministrative, divieti, ecc. contro i movimenti, in Francia con lo Stato d’urgenza sta succedendo qualcosa di molto simile. Ovviamente nei periodi in cui i movimenti crescono o elaborano nuove forme di azione, anche la controparte si aggiorna, studia le sue tattiche e gioca le sue carte; perciò è importante elaborare e mettere in campo, il più possibile collettivamente, delle risposte all’altezza della situazione, senza aspettare di essere completamente bloccati, se no forse sarà un po’ troppo tardi.
In ogni caso credo che questa sia un’occasione interessante per noi, un’occasione per testare la nostra capacità di costruire una solidarietà che vada oltre ai casi specifici. In qualche modo ci hanno dato l’opportunità di legare insieme diverse lotte, di rompere un po’ quella parcellizzazione tra le lotte che spesso si riflette anche sul modo di affrontare la repressione, in questo caso forse si aprono delle possibilità in più per reagire alla repressione attraverso il rilancio di una solidarietà che così facendo vada a rafforzare i legami tra le diverse lotte, questa è la nostra idea. Se riusciamo a far sì che le diverse lotte e le diverse anime interne ai movimenti di lotta si uniscano per far fronte a questi attacchi repressivi, potremo non solo dare delle risposte immediate davvero efficaci, ma anche e soprattutto rafforzarci, stringere nuovi legami. In questo modo non solo saremo riusciti a rispondere a un attacco, ma avremo saputo rovesciarlo, rigirarglielo contro, trasformandolo in un’occasione di acquisizione di forza e di consapevolezza. Questa credo debba essere sempre la prospettiva, la maniera – un po’ fluida – di affrontare gli attacchi che subiamo.
Puoi raccontare, magari attraverso la tua esperienza, come si è creato questo vostro legame con il Kurdistan? Com’è che hai cominciato a interessarti, a essere sensibile alla causa curda, e in che forma poi questo ha coinvolto di ritorno la Valsusa e il movimento no tav?
Io e altri amici e compagni, con cui ci coordiniamo nelle Alpi occidentali, abbiamo cominciato a interessarci alla lotta in Kurdistan un po’ di anni fa, direi verso il 2008, poi abbiamo fatto diversi viaggi sia insieme che io anche individualmente, in particolare l’anno scorso io sono rimasto là un po’ di mesi, anche per apprendere un po’ la lingua kurmanji. L’interesse di fondo era nato dalla curiosità e volontà di conoscere direttamente quella che potremmo definire l’ultima guerriglia popolare, erede delle lotte di liberazione anticoloniali, più vicina a noi, e contemporaneamente eravamo interessati a quella che è stata l’evoluzione fatta nel corso degli anni dal movimento di liberazione curdo, in particolare il fatto che un movimento nato con il classico obiettivo della liberazione nazionale, con una impostazione da partito marxista-leninista che mirava a prendere il potere e costruire un nuovo Stato curdo indipendente e socialista, attraverso l’elaborazione teorica di Ocalan e il lungo dibattito che c’è stato all’interno del partito (il PKK) e nella società curda, è giunto a un cambiamento di obiettivo e di strategia, e mira oggi alla costruzione di quello che loro chiamano il «confederalismo democratico», ovvero una confederazione di popoli e di comunità, e non di Stati nazione. Questo rovesciamento di prospettiva, che rinuncia allo Stato nazione che viene individuato come la principale causa dei disastri del Medio Oriente e più in generale della nostra epoca, ha portato all’idea di un autogoverno «dal basso», a partire dai territori, dalle comunità locali, preservando tutte le specificità etniche, religiose, linguistiche dei popoli che convivono in Mesopotamia e in Medio Oriente…
Questa idea di autogoverno di comunità territoriali che faccia a meno dello Stato centrale è qualcosa che non ci interessa come una prospettiva lontana ed esotica, ma è qualcosa che sentiamo vicina e condividiamo, anche perché fa parte della nostra storia, la stessa storia delle Alpi è la storia della resistenza delle comunità locali, con le loro lingue e i loro usi, contro i continui tentativi di sovradeterminazione da parte dei poteri centrali (anche la lotta no tav in un certo senso è parte di questo conflitto millenario, almeno io la leggo così). È una storia nascosta chiaramente, che nel nostro piccolo stiamo cercando di riscoprire, e il fatto di ritrovare altrove, in popoli diversi con storie diverse, esperienze e prospettive simili è per noi qualcosa di estremamente interessante con cui confrontarsi, per diversi ordini di ragioni.
Questo ci ha spinto a viaggiare, a conoscere meglio e da vicino la lotta in Kurdistan e col tempo ci siamo abbastanza appassionati direi, e più la conoscenza si approfondiva più si approfondiva anche un legame profondo, non solo politico ma anche umano. Chiaramente quando siamo rientrati abbiamo cercato di riportare indietro un po’ di quel che abbiamo appreso in Kurdistan, di restituire nei luoghi in cui viviamo un po’ della forza e della passione da cui siamo stati attraversati. Abbiamo fatto delle pubblicazioni, dei video, tanti giri di incontri, ecc. e devo dire che c’è stata una enorme crescita di interesse sull’argomento, soprattutto in seguito alla guerra in Siria, in Rojava, a Kobane, all’avanzata dello Stato Islamico, e all’attenzione mediatica sulla situazione mediorientale.
Anche in Valsusa, come altrove, abbiamo organizzato diverse iniziative che hanno riscosso parecchio interesse. Giusto per citare un esempio, un aneddoto, mi ricordo una delle prime volte, nel 2012, quando abbiamo proiettato al campeggio no tav a Chiomonte un video su un Newroz nel Kurdistan turco, in cui si vedevano scene di repressione che hanno immediatamente richiamato agli occhi la repressione vissuta in Valsusa nello stesso periodo: i lacrimogeni, le botte, le manganellate su donne e bambini, gli sbirri che sfondano le porte delle case… Chiaramente il livello di violenza messo in campo dallo Stato turco non è paragonabile a quanto accadeva all’epoca in Valle, ma quelle immagini avevano qualcosa di famigliare, e hanno scatenato un sentimento di immedesimazione, di empatia immediata, viscerale (tanto che si sono coniate le espressioni Valsusistan o Kiomontistan per definire la Valle e Chiomonte militarizzate). A un certo punto nel video si vedono due sbirri turchi in borghese che si filmano sorridenti mentre spezzano le braccia a un ragazzino imbavagliato che avrà avuto dodici anni; quando abbiamo raccontato che in seguito un commando di donne del PKK aveva rintracciato e giustiziato quei due sbirri, dalla platea si è alzata un’ovazione da stadio, con le madame della Valle che non la smettevano più di applaudire.
Ultimamente poi c’è stata anche una crescita di progetti di solidarietà, c’è stato anche un Comune, San Didero, un Comune dichiaratamente no tav, che ha sancito il gemellaggio con Kobane (…). Chiaramente poi ci sarebbero tantissime cose da dire sul Kurdistan e sulla questione della solidarietà, ma a grandi linee le cose sono un po’ queste…
L’estate scorsa, poi, c’è stata la ripresa della guerra nel Kurdistan turco, con la rottura della tregua tra lo Stato turco e il PKK e la ripresa di bombardamenti sia sulle basi del PKK in territorio iracheno sia sui villaggi curdi in Turchia, assedi dei villaggi, incendi, massacri di civili. L’idea quindi alla base dell’azione che abbiamo fatto alla Turkish Airlines nasce dal bisogno di rompere il silenzio e la complicità tra la Turchia e l’Europa cementata ancor più dalla questione della gestione dei flussi di profughi, una complicità che dà carta bianca al governo di Erdogan nel genocidio del popolo curdo e nella repressione del dissenso interno. Inoltre noi abbiamo creato dei rapporti di amicizia oltre che di solidarietà con tanti curdi che sono là o che vanno e vengono dall’Europa a là, io personalmente ero rientrato da neanche due mesi, quando hanno iniziato a bombardare le postazioni in Iraq, la scuola dove ero stato io, ho saputo da qui della morte di diversi compagni con cui ho passato quei mesi… Insomma, ci siamo sentiti un po’ in dovere, se vogliamo, di fare qualcosa, di non restare a guardare, oltre alle varie iniziative di informazione che normalmente facciamo per sostenere e far conoscere la rivoluzione in Kurdistan; abbiamo sentito il bisogno di fare qualcosa in più, seppur minimo come è stata l’irruzione che abbiamo fatto alla Turkish Airlines, perché è davvero il minimo, quello di entrare nelle loro sedi, di dire «i terroristi siete voi e non certo i partigiani del PKK», di far sapere ai compagni e alle compagne che laggiù continuano a resistere, a combattere e a morire a decine ogni giorno, che non sono soli, che anche in questa Europa schifosa e complice c’è qualcuno che sta dalla loro parte… questo era un po’ il sentimento alla base di quell’azione.
Per tornare all’argomento iniziale, come pensi si evolverà la situazione prossimamente, con il Tribunale del riesame e poi in autunno? Come pensi che continuerà la campagna?
Intanto c’è da dire che noi abbiamo avuto queste misure a fine luglio, poi noi che abbiamo deciso di non andare a firmare ci siamo un po’ defilati, diciamo così, per evitare l’aggravamento, quindi non posso parlare per testimonianza diretta perché non abbiamo più potuto restare sul territorio. Però sappiamo che i compagni hanno fatto un nuovo presidio alla Turkish Airlines il 2 agosto, e nonostante il periodo dell’anno che non è dei migliori per organizzare manifestazioni in città, la manifestazione è stata abbastanza partecipata ed è stato anche un modo per insistere sulla denuncia di quanto sta accadendo in Turchia. L’idea nostra infatti è quella di andare avanti sulle due questioni parallelamente: l’opposizione a queste misure restrittive e contemporaneamente battere sulla questione per cui queste misure di fatto ci sono state date, ovvero l’aver attaccato gli interessi turchi in Europa, nello specifico la compagnia di bandiera turca, che sicuramente è più attuale che mai… Un’altra cosa da sottolineare infatti è che ci hanno notificato queste misure proprio nella settimana in cui in Turchia dilagavano le purghe e gli arresti di massa in seguito al tentato golpe dei militari; oggi in Turchia ci sono decine di migliaia di arresti, una repressione di massa senza precedenti e dunque le ragioni che ci hanno portato alla Turkish Airlines allora sono oggi più vive che mai. Anche questa è una delle ragioni che ci hanno spinto a rifiutare di obbedire alle restrizioni che ci hanno dato, esplicitamente emesse per impedirci la reiterazione di simili reati: non abbiamo nessuna intenzione di rinunciare a esprimere la nostra solidarietà a chi sta resistendo in Turchia e in Kurdistan proprio nel momento in cui ce n’è più bisogno.
Il 2 settembre come dicevamo ci sarà il ricorso, e sicuramente sarà una occasione di mobilitazione, anche se non posso dire nulla di preciso perché non abbiamo ancora avuto la possibilità per confrontarci tutti insieme su cosa fare…
Abbiamo anche saputo della campagna che è appena stata lanciata dalla Valsusa, «Io sto con chi resiste», una campagna di sostegno a tutti coloro che hanno risposto con un rifiuto alla repressione della Procura di Torino. È un’iniziativa importante, anche se è appena stata lanciata e da lontano ovviamente non possiamo avere il polso di come stia andando, ma senza dubbio contribuisce a darci ulteriore forza per proseguire e a farci ben sperare nell’esito di questa battaglia.
Per quanto riguarda la nostra situazione specifica, bisognerà vedere, ma la prospettiva più probabile, e che noi abbiamo messo in conto, è quella di ulteriori aggravamenti rifiutando i quali – come abbiamo già deciso che faremo – finiremo in carcere. Iniziare una battaglia di questo tipo significa perlomeno essere pronti ad arrivare a quel punto, non aver problemi ad arrivare a quel punto, chiaramente se saremo in tutto quattro o cinque o sei a farlo magari non sarà così efficace, però è indispensabile incominciare, è importante affermare che il carcere non ci fa paura, se finiremo in carcere continueremo la nostra lotta lì, abbiamo tanti esempi di come questo non solo non sia un problema ma di come il carcere sia un terreno di lotta fondamentale. Questo è senz’altro uno degli insegnamenti che abbiamo appreso dai curdi, per tornare a loro; loro sottolineano sempre che il carcere è stato il fulcro della loro lotta, la resistenza in carcere dei loro compagni all’inizio degli anni Ottanta è stata il detonatore di tutta la loro lotta, non solo per il coraggio e la forza dei loro prigionieri che si sono battuti fino al martirio in condizioni disumane, ma anche per aver saputo trasformare le carceri in vere e proprie accademie della rivoluzione in cui si sono formate generazioni di nuovi militanti. Questo ci insegna come il carcere non è un posto che può bloccare le lotte, anzi, l’hanno dimostrato tutte le lotte dei prigionieri in Turchia, non solo curdi, e non si tratta di eroismo, di coraggio individuale, ma della determinazione interiore che è espressione di una forza collettiva. Quello che mi ha più colpito e che tutti ci hanno sempre ripetuto, raccontandoci le loro esperienze personali, gente che ha passato venti o trent’anni di prigionia e di torture nelle carceri turche, è che non bisogna averne paura, perché fuori non si è per forza più liberi che dentro, tutto dipende da come lo si vive, dallo spirito con cui lo si affronta; la libertà dipende dalla forza con cui sappiamo confrontarci con ciò che ci circonda, non dalla metratura di spazio che abbiamo a disposizione: si può essere molto più liberi in una grotta in montagna o in una cella in prigione che in una metropoli o in un centro commerciale.
Il carcere poi, nella nostra società, è l’ultimo baluardo dell’ordine capitalista e statale, l’ultima minaccia contro la gente. Se la gente impara a non avere più paura del carcere, lo Stato non ha più argomenti. Riuscire a rompere il ruolo intimidatorio del carcere è qualcosa di dirompente, non sarà facile, certo, e non saremo certo noi a farlo, ma l’idea è di fare un passo in quella direzione, anche se ora siamo ancora pochi, come sempre qualcuno deve cominciare… noi, semplicemente, facciamo la nostra parte…
Pepi
da qualche parte, 17 agosto 2016
da InfoAut