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Ogni scuola una barricata: occupazione scolastica, riflessioni a posteriori

Siamo cresciuti in una città in cui quando hai tanta rabbia dentro non hai nessun modo per incanalarla e quando hai mille idee non hai le parole giuste per esprimerle. Siamo cresciuti in una città che opprime ogni fermento creativo e rivoluzionario, una città che non ci offre spazi dove poterci esprimere, una città che “non è un paese per giovani” ma è rassegnata alle logiche del “qui non c’è niente per nessuno”.

Una città vecchia e triste, che non lascia spazio ai desideri, ai bisogni, al fermento, alla politica.
No, non parlo di quella politica “istituzionale”, non parlo dei giovani-vecchi-dentro che con le loro giacche e le loro cravatte leccano il culo a qualche consigliere comunale fascista per ottenere un posto dietro a una scrivania. Non parlo degli amanti della retorica sul degrado e sul decoro urbano, convinti che basti imbiancare qualche muro per fare qualcosa per la comunità.

Parlo di quel fare politica che è fare militanza che alla fine è anche vivere. Quello che non riesci a fare quando stai in una città che ti opprime e che ti soffoca nel corpo e nello spirito. Una città rassegnata al non vivere, all’isolamento e alla tristezza.

Ma ogni tanto si riesce a intravedere una qualche via d’uscita.

Quello che noi facevamo quando occupavamo, ogni anno, la nostra scuola, era riappropriarci degli spazi che non abbiamo mai avuto. Contrariamente al giudizio di una cittadinanza lobotomizzata – la stessa che si indigna per le scritte sui muri – la nostra occupazione era rivitalizzazione.

Riprenderci uno spazio, farlo nostro, farlo vivo, far capire che la scuola la fanno le studentesse e gli studenti che la attraversano.

Prenderci cura della nostra scuola, dormirci dentro per settimane, riuscendo in qualche strano modo ad avere una qualche consapevolezza in più.

La consapevolezza che c’è un altro modo di vivere, un altro modo di stare in società, un altro modo di far politica – che è quello della militanza con rabbia e amore e mai quello dei vuoti comizi istituzionali fini a se stessi.

Quello che ho provato e vissuto io durante le occupazioni che ho fatto è stato anche un sentimento liberatorio – di me stessa e della mia scuola – un fare, per una volta, le cose a modo nostro, il  “divenire soggetto imprevisto” del corpo studentesco.

Occupare la scuola ha significato creare un luogo di attivismo e di socialità, intessere una rete di relazioni in modo diverso dal grigiore quotidiano, crearsi una coscienza politica – cosa che la scuola non ha mai fatto e continua a non fare (meglio andare a lavorare da McDonald’s).

E anche quando alla fine, l’ultimo giorno, facevamo le pulizie e lasciavamo la scuola cantando e intonando cori in un mini-corteo, magari non avevamo cambiato le cose in grande ma sicuramente le avevamo cambiate in piccolo. Quando finiva l’occupazione ognun* di noi era una persona diversa, cresciuta, più consapevole.

Anche quando il secondo giorno della mia ultima occupazione la Digos ci ha sgomberati e siamo stati qualche ora sui gradini dell’ingresso – in pigiama e con i borsoni e i piumoni sotto braccio – ad aspettare di essere portati in questura, c’era la sensazione di aver fatto qualcosa di bello e giusto.

La sensazione di aver alzato la testa e aver cominciato ad esprimere tutto il nostro potenziale.

Ecco perché adesso, da una prospettiva extra-scolastica e “con il senno di poi” posso dire che ad occupare la scuola io c’ero e lo rivendico, che tutto il fango mediatico che ci hanno buttato addosso non è stato che un incentivo ad andare avanti, chè forse se cominci a far incazzare qualcuno sei sulla buona strada.

In una città che non offre spazi ed occasioni di dibattito, formazione, attivismo, occupare è giusto

contro la marginalità a cui studentesse e studenti sono sempre più relegati, faremo di ogni scuola una barricata, contro le logiche della tristezza e della repressione

personale è sempre politico

con rabbia e amore

un ex studentessa

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