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Satira Libera, Fca condannata per i licenziamenti a Pomigliano

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Ribaltata la sentenza di primo grado: i cinque lavoratori di Pomigliano non dovevano essere licenziati. La Fiat era irritata per una manifestazione satirica contro i suicidi operai

Ce l’hanno fatta, i cinque di Pomigliano hanno vinto! E’ festa al presidio permanente in Piazza Municipio. I giudici del tribunale di Napoli hanno ribaltato la sentenza dei colleghi di Nola che avevano assecondato la richiesta della Fiat di confermare il licenziamento, due anni fa, dei cinque operai colpevoli di aver messo in scena, fuori dai cancelli di Pomigliano, il suicidio di un Marchionne pentito per l’ondata di suicidi con ogni evidenza scatenata dalla politica industriale di Corso Marconi. I cinque sono tutti aderenti al SiCobas e, in quanto tali deportati dal management Fiat nel polo logistico di Nola assieme a parecchi iscritti Fiom, tutti i lavoratori con ridotte capacità lavorative e quelli con un contenzioso aperto con l’azienda.

In corteo, i cinque di Pomigliano e centinaia di persone venute da Melfi, Taranto, dalla Val Susa, Roma, Torino, hanno raggiunto il Tribunale di Napoli il 20 settembre, proprio mentre andiamo in stampa, per il processo d’appello. Un appello in loro solidarietà è stato firmato da migliaia di persone. Stupisce l’assenza delle firme di Landini che pure su Pomigliano ha costruito gran parte della sua immagine di lottatore. «La sentenza di Nola nega che si sia trattato di una manifestazione sindacale e che ci sia un nesso di causalità con l’ondata di suicidi – spiega a Left, nel numero ora in edicola, Pino Marziale, legale dei cinque operai – e, soprattutto, estende gli obblighi di fedeltà all’azienda anche fuori dall’attività lavorativa, sebbene i cinque non mettessero piede in fabbrica da quasi sei anni. C’è un clima repressivo che si respira anche nelle aule dei tribunali. La parola magica sembra essere “vincolo fiduciario”, come se il lavoratore appartenesse al datore di lavoro».

«Immagina un capannone – spiega Antonio Montella, 55 anni metà passati in Fiat – come una piazza ma coperta. Vuota, mille metri quadrati per 150 operai ad ogni turno. E che non hanno nulla da fare. Come centocinquanta detenuti in un’ora d’aria moltiplicata per otto, qua e là a chiacchierare in piccoli gruppi. Ecco cos’è un reparto confino. Ogni tanto arrivavano le “cassette”, pezzi fuori misura per passare sulla linea di montaggio, che noi dovevamo sistemare in una sorta di scaffale a rotelle da affiancare alla catena per eliminare i tempi morti, sveltire il lavoro». Doveva essere un grandissimo polo, così aveva giurato la Fiat, ma è durato pochi mesi. Poi per Antonio e altri 315 deportati da Pomigliano è stata solo la fabbrica della disperazione, tutti in cassa integrazione dal 2008, mai o quasi mai richiamati al lavoro.

L’hangar sta a Nola, si chiama World Class Logistic (WCL).  Il tribunale di Nola non ci ha trovato nulla di discriminatorio ma, solo nel 2014, nel giro di pochi mesi, si sono suicidati tre lavoratori e altrettanti hanno tentato di farlo. «Non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti», scriveva nel 2011, dopo i primi suicidi, Maria Baratto, operaia che tre anni dopo si è tolta la vita nella sua casa di Acerra. Era la fine di maggio. Quaranta giorni prima s’era ucciso Peppe De Crescenzo, suo compagno di lotte, da 7 anni licenziato arbitrariamente ed ancora in attesa della causa rimandata alle calende greche dai giudici del lavoro di Nola. Lo stesso tribunale che ha dato ragione alla Fiat quando ha licenziato Antonio e altri quattro per aver manifestato tutto lo sdegno e il dolore per quei suicidi. Era il giugno del 2014. Una manifestazione satirica ai cancelli del Wcl: il manichino di un improbabile Marchionne pentito che s’impicca pentito per il male derivato ai lavoratori dalle sue scelte.

Checchino Antonini da Popoff

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