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San Patrignano, la comunità senza diritti

«Sanpa», la docuserie su Netflix di Carlo Gabardini, Gianluca Neri e Paolo Bernardelli, con la regia di Cosima Spender, racconta ascesa, trionfo, crollo di Vincenzo Muccioli e l’Italia degli anni Ottanta. Guru, padre-padrone con botte e amore, la sua figura diviene la risposta al vuoto dello Stato di fronte alla tossicodipendenza

Nello sterminato dizionario delle emergenze che si sono susseguite nella penisola la voce «Droga», che s’impose alla fine degli anni Settanta per prolungarsi poi lungo tutto il decennio successivo, merita un posto d’onore a sé. Lo Stato se ne lavò le mani. A farci i conti e reggerne l’oneroso peso furono le famiglie, sprovvedute, impreparate, sprovviste di mezzi, disperate.

Dovevano affrontare la tragedia di giovani e giovanissimi che rischiavano a ogni ora di rimanerci secchi con l’ago nella vena, che si spegnevano giorno dopo giorno, che soffrivano le pene dell’inferno in crisi d’astinenza, che rubavano, spacciavano, mendicavano, battevano per il «quartino» quotidiano.

Le comunità di recupero spuntarono una dopo l’altra, tanto diverse tra loro quanto l’intera tavolozza dei colori, per supplire a quella mancanza, riempire almeno parzialmente quel vuoto. Le famiglie le videro come il solo faro in una notte senza stelle.

IN QUESTA sorta di Far West emerge un romagnolo a metà tra i 40 e i 50, senza attività di rilevo alle spalle, anzi senza arte né parte, già sedicente medium, guaritore, spiritista, con una marcata punta di megalomania destinata nelle condizioni adatte a straripare.

Disprezza la medicina ma ha il physique du rôle del capo carismatico, vanta il carattere del guru e del santone: fisicamente imponente, di bell’aspetto e molto telegenico, voce profonda, convinzione incrollabile di essere nel giusto, illimitata fiducia in se stesso e nei propri metodi.

Trasforma il podere ricevuto in dono dai parenti della moglie in comunità terapeutica. Inizia curando una sola tossicodipendente, figlia di amici. Finirà per guidare la più mastodontica e discussa comunità italiana, San Patrignano. SanPa: luci e tenebre di San Patrignano, la docuserie in cinque puntate di Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, regia di Cosima Spender, che spopola su Netflix racconta la sua parabola e quella del fondatore Vincenzo Muccioli: l’ascesa, il trionfo, il crollo.

Il metodo di Muccioli è in realtà semplice: ai ragazzi allo sbando offre la riproposizione di una comunità patriarcale arcaica, fondata sulla figura di un padre padrone che dispensa carezze e botte a fin di bene, che impone disciplina ferrea ma sa far sentire calore e vicinanza, che punisce, premia e convoglia su di sé l’amore dei fedeli, che combattono i loro fantasmi proprio per conquistare il suo amore. Dalla comunità, una volta entrati, non si esce.

Le ronde, formate dai più affidabili tra gli internati (perché di questo si tratta), vegliano e sorvegliano, inseguono i fuggitivi. Muccioli va a riprendersi uno per uno quelli che sfuggono alle maglie: a SanPa si ha il diritto di non entrare ma una volta entrati se ne esce solo quando decide il santone.

Le punizioni sono frequenti: botte ma anche segregazione, catene e manette, stanzine fetide e buie trasformate in celle di rigore. La contestazione è punita severamente: mettere in discussione l’autorità è il peccato più grave. I rapporti tra maschi e femmine devono essere ridotti al minimo e comunque casti: a Muccioli la licenziosità non piace.

COME FUNZIONINO le cose a San Patrignano lo sanno tutti almeno dal 1983, quando la polizia entra nella comunità e trova i puniti di turno incatenati nelle loro cellette. Muccioli viene processato: sarà condannato in primo grado, poi assolto in appello e Cassazione. La vera anomalia, registrata dal documentario in modo magistrale, si produce a questo punto.

Non è rappresentata da Muccioli e dal suo tentativo conclamato di resuscitare una comunità contadina e patriarcale fondata su obbedienza cieca e disciplina rigida ma dalla reazione del Paese, dei politici, degli opinionisti, dei giornali e delle tv. Il coro che rivendica il diritto di Muccioli a violare uno per uno tutti i diritti costituzionali in nome del «buon fine» è imponente, assordante.

Famiglie e ministri e gente comune, Mike Bongiorno e Red Ronnie, Montanelli e Biagi, i Moratti, che nel corso del tempo investiranno nella comunità 260 milioni di euro: fanno tutti muro in difesa dell’uomo che, come chiosa con felice espressione Paolo Villaggio, «dà quegli schiaffoni che noi genitori di sinistra non abbiamo dato».

La legge e i diritti si fermano sulla soglia di San Patrignano, in un’apoteosi dell’emergenza che cede a un privato megalomane la sovranità sul proprio territorio. Per comodo, per risparmio, per inettitudine, per convinzione, per disperazione. Le spinte sono molteplici, diverse. Il risultato è univoco.

Gli applausi frenetici che salutano il tentativo, inevitabilmente effimero, di rispondere al disagio e al disordine ripristinando le regole di un ordine patriarcale e autoritario accompagnano la per nulla effimera edificazione di un sistema basato sull’uso permanente dell’emergenza, di volta in volta giustificata da «esigenze superiori». Da quel momento una «buona causa» in nome della quale sterilizzare diritti e svuotare libertà la si troverà sempre.

Per Muccioli il processo dell’83 è il trampolino di lancio. Osannato, accolto come un profeta, ascoltato come un vate dai politici, vede la sua comunità ingrossarsi a vista d’occhio. Di fronte ai cancelli fanno la fila per mesi. Tutto è gratuito ma lo è anche il lavoro dei pazienti-operai. San Patrignano è anche un laboratorio del moderno modo di produzione neoschiavista. Lo chiamano ovunque, modellano leggi sui suoi suggerimenti, lo implorano di buttarsi in politica.

Lui appassionato di animali, spende e spande, compra cavalli e cani che costano centinaia di milioni. Nessuno fa una piega, neppure dopo il fermo di due suoi luogotenenti alla frontiera con il doppiofondo della macchina pieno di soldi esportati di contrabbando.

MA NELLA SUA APOTEOSI San Patrignano cambia. Con il guru sempre meno presente il mix di schiaffi e carezze, di paternalismo autoritario ma anche affettuoso, cede il passo a un universo puramente concentrazionario, nel quale comandano le squadrette delegate dal capo, formate dai maschi più tosti e più fedeli. Arrivano i suicidi, poi il caso di Roberto Maranzano, ucciso nella porcilaia a botte dalla «polizia interna»: la salma viene trasportata a 600 km di distanza, per stornare i sospetti.

Arrivano anche le prime testimonianze dall’interno, un rottura dell’omertà che sancisce la fine di Muccioli. Walter Delogu, suo autista e uomo di fiducia, va oltre: lo registra mentre ipotizza l’omicidio di un possibile delatore. Muccioli muore nel 1995, secondo voci da sempre in circolazione ma mai confermate di Aids, dopo essere stato condannato a 8 mesi per favoreggiamento. Se fosse sopravvissuto avrebbe dovuto affrontare un nuovo processo, con imputazione ben più grave: «Maltrattamenti seguiti da morte».

«SANPA», pur palesemente molto critico, evita il rischio di trasformarsi in una requisitoria. Cerca anche le luci, o quelle che per molti furono e sono ancora luci: il senso di comunità che aiutò comunque molti a scrollarsi la scimmia di dosso. Sfugge anche la tentazione di allargare lo spettro: stringe l’obiettivo solo sulla vicenda di San Patrignano ma così facendo riesce a svelare, attraverso la dissezione del caso esemplare, cosa sono stati davvero gli anni Ottanta, dietro i lustrini nostalgici alla Stranger Things, e quanto la realtà di oggi sia ancora fondata sulla controrivoluzione culturale di quel decennio.

Andrea Colombo

da il manifesto

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