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Sadico, crudele, disumano. Il 41 bis è tortura

Vietata la musica. Vietato leggere. Vietato dare una carezza ai familiari, da incontrare dietro un vetro per un’ora al mese. Tutti ne parlano, ma nessuno spiega cos’è. E cosa c’entra con la “sicurezza”.

di Gian Domenico CaiazzaPresidente Unione Camere Penali Italiane

Abbiamo detto mille volte che i temi della giustizia penale si discutono ormai come si parla di calcio tra curve contrapposte. Ignoranza, visceralità, totale indisponibilità all’ascolto. Il tema del 41 bis ovviamente non si sottrae a questa desolante regola, anzi la esalta, come stiamo vedendo in questi giorni. Come uscire da questo pantano, da queste sabbie mobili nelle quali annegano razionalità e civiltà del confronto di idee? È semplice: basterebbe fare della buona, onesta, documentata informazione.

Chi come me – e come da sempre tutti i penalisti italiani – denuncia con forza la barbarie di questo istituto, non pensa nemmeno per un attimo che lo Stato non abbia il diritto e anzi il dovere di differenziare i regimi di detenzione a seconda della pericolosità criminale del detenuto. È ovvio che un soggetto qualificato come un pericoloso capomafia debba essere ristretto in condizioni tali da non poter continuare a esercitare il proprio potere criminale. Questa finalità preventiva del regime custodiale, a garanzia della sicurezza sociale, non può sensatamente essere messa in discussione da nessuno. Senonché il regime normativo e regolamentare dell’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario persegue questa legittima e giustissima finalità con modalità tali da risolversi invece nella sistematica – e in alcuni casi addirittura sadica – umiliazione delle condizioni minime di dignità della persona detenuta, senza che peraltro ciò abbia nulla a che fare con la tutela della sicurezza sociale. E questo ha una ragione storica, visto che la norma fu introdotta sull’onda delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, in pieno stragismo mafioso. Lo Stato reagì con straordinaria durezza, letteralmente “murando vivi” i detenuti per mafia di più alto lignaggio e più pericolosi. Ciò fu possibile perché la norma nacque come provvedimento esplicitamente eccezionale e transitorio, così giustificandosi la ferocia delle misure. À la guerre comme à la guerre, insomma. Senonchè quella eccezionalità, proroga dopo proroga, è divenuta la regola, e da pochi mesi o forse un anno che avrebbe dovuto sopravvivere, esiste e prospera da trent’anni.

Dicevo allora della buona informazione, che nessuno fa. Vorrei darvene io qualcuna. I detenuti al 41 bis hanno l’obbligo di rimanere in cella per 21 ore al giorno. Hanno diritto massimo a due ore d’aria (in cortili con alte mura) e a una di “socialità”, riducibili a una sola ora d’aria per ritenute ragioni di pericolosità. Nelle “aree riservate”, cioè di massima sorveglianza (dei veri e propri sottoscala) l’ora d’aria si fruisce in piccoli e ristretti cortili, che non permettono nemmeno di azzardare un passo di corsa. Colloqui con moglie, figli, familiari: un’ora al mese, e sempre divisi da un vetro. Un detenuto non può nemmeno sfiorare la mano di un figlio o di una moglie per anni, quando non per il resto della propria vita. Tranne un paio di eccezioni, i reparti 41 bis non sono dotati di struttura sanitaria adeguata.

Salvo necessità di natura ospedaliera, le visite mediche, qualunque ne sia la natura, urologica o odontoiatrica, si svolgono nella medesima stanza, con le ovvie conseguenze in termini di igiene. Ma soprattutto – udite udite avvengono alla presenza di un agente della polizia penitenziaria, che sta addosso a medico e paziente ascoltando la conversazione ed assistendo alla visita, qualunque manovra il medico debba compiere: e qui la umiliazione della dignità della persona tocca l’apice.

Lo scambio di piccola oggettistica tra soggetti dello stesso gruppo di socialità è vietato, salvo autorizzazione del Giudice di Sorveglianza, reclamabile dal Dap.

Fino al 2018 era vietato cucinare in cella (è dovuta intervenire la Corte Costituzionale). Non si possono ricevere libri per studiare, non si può essere seguiti da professori o tutor. Abbigliamento e libri di lettura contingentati. Solo da pochi anni si può guardare la TV, ma i canali sono limitatissimi. Non si può ascoltare musica, per quanto incredibile questo possa essere. E molto altro ancora potrei raccontarvi.

Voi pensate che tutto questo abbia a che fare con la tutela della nostra sicurezza? Io penso proprio di no. Io penso che sia una feroce, stupida, sadica volontà di annientamento della persona. E questa, qualunque sia il crimine che possa aver commesso quella persona, è una vergogna indegna di un Paese civile. Io non credo che ascoltare Chopin in un buco di cella possa mettere in pericolo la sicurezza nazionale. E nemmeno farsi controllare la prostata lontano dagli occhi di una guardia carceraria. E nemmeno baciare la guancia dei propri figli, o la mano della propria moglie. E penso che chi lo pensi, dovrebbe vergognarsene, e magari farsi visitare da un bravo psicologo. Possiamo cominciare a parlarne, finalmente, di 41 bis?

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di Elisabetta Zamparutti

Chiamato così in onore del leader sudafricano che ha trascorso in carcere 27 anni della propria vita, sancisce. Oltre i 15 giorni l’isolamento è da considerare una punizione disumana: in Italia c’è chi lo subisce ininterrottamente da 30 anni.

Nelle celle di isolamento del nostro “carcere duro” non vi è riconciliazione, non c’è riparazione. C’è solo separazione e punizione, cioè un carcere che nel suo significato etimologico vuol dire letteralmente coercere cioè reprimere, “carcar” cioè sotterrare, tumulare.

“Sembra sempre impossibile finché non lo hai fatto” disse Nelson Mandela che pensava e agiva verso livelli sempre più elevati di tutela della dignità umana. Parole potenti, perché potente è il vissuto di chi le ha pronunciate. Un uomo costretto in carcere per 27 anni, compreso quello duro, dell’isolamento totale. Nella forza dirompente che si genera da un pensiero orientato ai valori umani, quando sorretto da un agire con essi coerenti, come è stato quello di Mandela, accade che l’intera Assemblea generale delle Nazioni Unite, parliamo dell’organismo maggiormente rappresentativo la comunità internazionale, decida di chiamare Nelson Mandela Rules proprio gli standard minimi, rivisti nel 2015, per il trattamento dei detenuti.

Vi si trova per la prima volta una definizione di cosa si debba intendere per isolamento e quale sia il tempo oltre il quale ci si comporti in modo non umano. È isolamento, si legge alla regola 44, il confinamento per 22 ore o più al giorno in una cella senza significativi contatti umani. E si aggiunge che è da intendersi come isolamento prolungato quello superiore a quindici giorni consecutivi. Un trattamento questo che, insieme all’isolamento indefinito, la regola 43 considera una forma di tortura o un trattamento o punizione crudele, inumana e degradante. La regola 45 stabilisce poi che, in ogni caso, è proibito l’isolamento dei detenuti che abbiano disabilità mentali e fisiche quando le condizioni possano aggravarsi in ragione della misura applicata. Va poi abolito in ogni caso per i minorenni.

Se l’Italia “culla del diritto” si guarda allo specchio di questi standard internazionali, vede riflessa l’immagine di una “tomba del diritto”. Perché nel regime di isolamento al 41bis c’è chi vi è ristretto fin dalla sua introduzione avvenuta nel 1992. Parliamo di oltre 30 anni! Se è vero come è vero che “la durata è la forma delle cose” un sistema che dura così a lungo non è un sistema democratico e di emergenza, ma un vero e proprio Regime, totalitario e di prepotenza di cui è giunta l’ora di, finalmente, liberarsi come ci siamo liberati dal regime fascista che invece è durato “solo” un ventennio. Liberarsi di un trentennio di leggi di emergenza, tribunali speciali, regimi penitenziari inumani e degradanti, distruttivi a ben vedere non solo o non tanto della vita delle sue vittime ma della vita del diritto, dello Stato di Diritto.

Senza contare che in questi regimi di isolamento, da malato vi è pure morto come ha raccontato Carmelo Gallico dalle pagine di questo giornale con suo fratello Giuseppe Gallico, agonizzante e ormai incosciente, in quella tomba scavata nel cemento che è la stanza del reparto protetto penitenziario all’interno dell’Ospedale San Paolo di Milano dove la moglie ha potuto rubare alla morte un attimo di vita stringendo la mano del marito dopo oltre 30 anni della separazione imposta dal vetro divisorio che impedisce qualsiasi contatto fisico ai detenuti del 41 bis.

A questa forza mortifera di uno Stato che in nome delle ragioni di Abele diventa esso stesso Caino risponde una forza vitale. Quella che ha portato Nelson Mandela, nel carcere duro di totale isolamento in cui si trovava, a non perdere mai la speranza e ad incarnare la speranza del cambiamento. Mandela assurto dalla condizione di detenuto a quella di leader mondiale nonviolento la cui forza arriva fino a noi con le Regole delle Nazioni Unite che portano il suo nome e che hanno indotto all’aggiornamento, nel 2020, anche delle Regole penitenziarie europee approvate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Una forza costituita da un insieme di standard che vanno letti unitamente a quelli che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa definisce sulla base delle visite che effettua nei Paesi membri. Un Comitato che, monitorando il nostro Paese fin dalla introduzione di questo regime speciale ha rivolto innumerevoli raccomandazioni, financo arrivando a pensare e scrivere che l’insieme di restrizioni che connotano il regime di detenzione “41-bis” più che volto ad interrompere i collegamenti con l’esterno sembra volto ad indurre alla cooperazione con la giustizia il che ne farebbe una pratica altamente discutibile sotto il profilo dell’articolo 27 della Costituzione italiana oltre che degli strumenti internazionali sui diritti umani di cui l’Italia è parte. Un Comitato che ha ritenuto il ricorso all’isolamento nelle sue svariate forme, non solo il 41bis ma anche l’isolamento diurno, il 14bis, l’art 32 e via dicendo, talmente problematico da fare una visita ad hoc in Italia sull’isolamento.

Ora, le Regole di Mandela, le Regole penitenziarie europee, gli standard del CPT non sono giuridicamente vincolanti ma hanno la forza morale e politica propria degli organismi sovranazionali da cui promanano. Possono dunque influenzare e influenzano le scelte delle Amministrazioni e dei Paesi. Non ci sono obblighi, non ci sono diktat ma c’è una forza più sottile, quella della persuasione che deriva dalla autorevolezza di chi indica un percorso e dalla conoscenza della natura autentica di ciò di cui si parla.

Mandela allora non ha dato solo il nome a quelle regole che sulla base del suo vissuto di prigioniero hanno ispirato il diritto internazionale, diritto che di per sé è sinonimo di limite invalicabile, cioè il limite che lo Stato pone a se stesso quando deve fare i conti con il male assoluto, con il più acerrimo dei suoi nemici.

Nelson Mandela è stato insieme a Desomond Tutu il fautore di un’altra visione della giustizia. È successo nel suo Paese, il Sud Africa, quando nel 1995, alla fine dell’apartheid, per sanare le ferite del passato e guarire il dolore di vittime di violenze inaudite, i padri del nuovo Sud Africa non si sono affidati al solito tribunale ma hanno concepito una commissione detta “verità e riconciliazione”. La verità volta a non dimenticare le vittime: La riconciliazione per dare un futuro al Paese. Hanno lasciato spazio a una giustizia che non punisce e separa ma riconcilia e ripara. Hanno dato vita a uno stato non spietato, ma di grazia che quel Paese ha salvato, dandogli un futuro.

da Il Riformista

 

 

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