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Rotta balcanica, profughi abbandonati al gelo sulla via dell’Europa

Migliaia di profughi abbandonati sotto la neve della «rotta balcanica» senza cibo né acqua. Vorrebbero raggiungere l’Europa ma le frontiere con la Bosnia sono sigillate. L’allarme dell’Oim: «È una catastrofe umanitaria». E nel Mediterraneo «spariti» 13 migranti

«Orrore. Non c’è altro termine per descrivere quanto sta accadendo in quel che resta del campo profughi di Lipa». Così Vanja Stokic, caporedattrice del portale di informazione di Banja Luka Etrafika, al terzo viaggio nella tendopoli andata a fuoco mercoledì scorso. Il campo, in funzione dallo scorso aprile, ospitava circa 1400 migranti in transito in questo angolo della Bosnia nord-occidentale prima di raggiungere quell’agognata Europa che li respinge a suon di manganellate. Sigillate le frontiere esterne, i profughi restano per mesi e anni bloccati nel limbo bosniaco e da qui tentano il disperato passaggio per la Croazia, il «game», come lo chiamano, il gioco al massacro direzione Europa dove sei fortunato se ti resta la pelle addosso.

IL CAMPO DI LIPA ERA STATO pensato all’inizio come una soluzione provvisoria per dare una sistemazione ai profughi rimasti fuori dai centri di accoglienza e contenere così la diffusione della pandemia. L’Agenzia dell’Onu per le migrazioni (Oim) che gestisce il campo ne aveva disposto la chiusura pochi giorni prima che l’incendio lo distruggesse quasi completamente. Da allora centinaia di migranti sono abbandonati a loro stessi, lottano per sopravvivere alla fame, alla sete, al gelo dell’inverno balcanico. «Rispetto all’ultima volta in cui sono venuta, racconta Stokic, la presenza dei rifugiati si è dimezzata. Alcuni hanno riparato nelle foreste circostanti oppure si sono messi in viaggio verso il confine croato per tentare il game.

Altri ancora si sono diretti verso centri d’accoglienza di altre città, a Sarajevo ad esempio. Hanno paura di non farcela qui, hanno paura che lo scheletro delle tende andate a fuoco possa crollare su di loro da un momento all’altro, sferzate dal vento e dalla neve di questi giorni. Ho visto persone che non si reggevano in piedi, avevano la febbre alta, il corpo congelato. Ho visto persone ripararsi nelle foreste tentare di sopravvivere alle notti all’addiaccio con dei sacchi della spazzatura montati a mo’ di tenda. Ho visto persone malate non avere medicine, non avere nulla per alleviare le proprie pene».

LE ORGANIZZAZIONI internazionali hanno interrotto tutte le attività al campo di Lipa, di loro non c’è più traccia dal giorno dell’incendio. La Croce Rossa e qualche ong locale come Sos Bihac sono le uniche ancora presenti sul posto. Distribuiscono un pasto al giorno, un po’ d’acqua, dei sacchi a pelo ma «non è sufficiente, obietta la giornalista. Di quel pasto che spetta loro, a volte i migranti ne ricevono solo la metà. Stanno morendo di fame, di freddo, questa è la nuda realtà. Ci chiedono cosa ne sarà di loro, ma non sappiamo cosa rispondere. Ed è forse questo ciò che lascia più sconcertati: non si intravede alcuna soluzione, almeno non nell’immediato».

Sabato scorso Oim, Unhcr e Danish Refugee Council hanno diramato un comunicato stampa congiunto con cui sono tornate a chiedere una soluzione immediata per il ricollocamento dei migranti rimasti fuori dal campo profughi di Lipa ed evitare la catastrofe umanitaria in corso. Per le organizzazioni umanitarie il campo non è attrezzato per l’inverno e spetta alle autorità locali provvedere alla protezione minima dei migranti rimasti fuori dai centri di accoglienza. Una possibile via d’uscita sarebbe il trasferimento dei profughi nell’ex fabbrica di Bihac, il Bira, che fino al settembre scorso ha ospitato circa tremila persone.

LA RICHIESTA DELLE organizzazioni però si è infranta sul muro dell’opposizione delle autorità locali. In particolare, il governo del Cantone Una Sana, dove si concentra il maggior numero di migranti, e quello della città di Bihac si oppongono alla proposta delle associazioni umanitarie, sorrette in questo da una parte dei cittadini che ogni giorno manifesta di fronte ai cancelli del Bira per impedire l’eventuale ingresso dei profughi. La popolazione locale si difende dalle accuse di intolleranza: la situazione, sostengono, è fuori controllo, lo Stato e le organizzazioni internazionali hanno fatto ricadere i costi dell’accoglienza su una comunità già gravata dalla povertà e dall’assenza di un futuro per i tanti giovani che migrano verso l’Europa in cerca di una vita migliore.

Le autorità locali, che nei giorni scorsi hanno respinto la decisione del governo bosniaco di ricollocare i migranti nell’ex fabbrica di Bihac, stanno pensando piuttosto di trasferire al campo di Lipa i container che si trovano all’interno del centro di accoglienza del Bira. Soluzione che potrebbe rivelarsi però inadeguata, oltre che tardiva per quei corpi che vagano come fantasmi nelle foreste in cerca di un po’ di umanità.

Alessandra Briganti

da il manifesto

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L’intervista di Radio Onda d’Urto a Gianfranco Schiavone, dell’ICS di Trieste, e già vicepresidente di Asgi. Un’intervista realizzata da Andrea De Lotto, nostro collaboratore e di Pressenza.com.
La prima parte dell’intervista Ascolta o scarica
La seconda parte dell’intervista. Ascolta o scarica

La terza parte dell’intervista. Ascolta o scarica

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Mediterraneo, perse le tracce di 13 persone

L’Sos lanciato da Alarm Phone il 26 dicembre. Nel 2020 1.100 migranti sono morti provando a raggiungere l’Europa via mare

Nel Mediterraneo centrale si sono perse le tracce di 13 persone. L’allarme è stato lanciato da Alarm Phone (Ap), centralino che riceve gli Sos dei migranti. Sono partite la sera del 24 dicembre dalle coste libiche di Sabratha, 80 km a ovest di Tripoli, su una barca in vetroresina. Uomini provenienti da Bangladesh, Pakistan e Nigeria. Non sono arrivati a Lampedusa e le condizioni del mare, peggiorate rapidamente, fanno temere il peggio.

«Non abbiamo parlato direttamente con le persone in viaggio – dice Deanna Dadusch, di Ap – Siamo stati contattati da tre familiari distinti, che ci hanno chiamato diverse volte, molto preoccupati». Il 26 dicembre Ap ha inoltrato la richiesta di soccorso alle guardie costiere maltese e italiana, le autorità libiche e Frontex, trasmettendo tutte le informazioni in suo possesso e i numeri di telefono dei migranti, che possono essere usati per i tentativi di localizzazione.

Frontex ha detto di aver effettuato due voli di ricognizione sabato 26, ma senza individuare l’imbarcazione. È sorprendente che l’agenzia europea abbia risposto ad Ap: per molto tempo ha evitato ogni rapporto con le organizzazioni umanitarie. Il cambio di prassi, se confermato, potrebbe dipendere dalle pesanti accuse ricevute di recente per l’operato nell’Egeo, in seguito alle quali alcuni europarlamentari hanno chiesto le dimissioni del direttore Fabrice Leggeri.

Anche la guardia costiera italiana si starebbe occupando della sorte dei 13 dispersi, ma finora non si conoscono maggiori dettagli. «Perché le autorità italiane e maltesi non avviano una missione di ricerca e soccorso?», ha chiesto ieri il deputato Erasmo Palazzotto (LeU).

Nel Mediterraneo l’ultimo naufragio confermato risale ad appena cinque giorni fa: la vigilia di Natale almeno 20 persone hanno perso la vita davanti alla Tunisia. 19 erano donne, quattro incinte. Altre 20 sono risultate disperse. Secondo l’Oim sono almeno 1.100 i migranti morti quest’anno nel Mediterraneo. In media tre ogni giorno. 739 vittime si registrano lungo la rotta centrale, quella che raggiunge l’Italia.

Giansandro Merli

da il manifesto

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