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di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Introduzione

Il 17 dicembre 2021 sono state pubblicate le motivazioni della sentenza di condanna dell’ex Sindaco di Riace Domenico Lucano, e degli altri coimputati nel processo Xenia, emessa dal Tribunale di Locri il 30 settembre dello stesso anno. Qualunque (coraggioso) lettore delle oltre 900 pagine della sentenza potrà notare come la preoccupazione dominante espressa dal collegio giudicante di Locri andasse ben oltre la razionalità e la completezza delle motivazioni di una sentenza, occorreva demolire moralmente la figura di Lucano e qualificare un sistema di accoglienza diffusa , che aveva raccolto lodi anche a livello internazionale, come una bieca associazione per delinquere. Quelle pagine vanno lette tutte, e per intero, anche negli interminabili “copia e incolla”, che occupano più della metà delle motivazioni, tenendo presenti  i principi basilari sul contraddittorio ed i diritti di difesa sanciti dalla Costituzione italiana, oltre i principi dell’equo processo stabiliti negli atti dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa. Emerge molto nettamente come il collegio giudicante fosse particolarmente avvertito dell’impatto che la sentenza  avrebbe potuto avere (ed ha avuto) sull’opinione pubblica, in modo di allontanare il sospetto che la decisione fosse diretta alla criminalizzazione della solidarietà. Sospetto che tuttavia diventa plausibile, se si approfondiscono le singole argomentazioni dei giudici, le motivazioni su cui si basano e le conclusioni che tendono a raggiungere, come se si trattasse di risultanze oggettive ed incontrovertibili di fatto, come tali contestabili solo in base al principio di verità, piuttosto che di interpretazioni soggettive, seppure dotate della forza di sentenza.

In uno scritto, rimasto purtroppo incompiuto, Alessandro Dal Lago metteva bene in evidenza come il contenuto della decisione ed il distacco temporale tra il dispositivo di condanna e la pubblicazione delle motivazioni contribuissero a svolgere una precisa funzione “performativa” che incideva profondamente sui meccanismi di comunicazione e quindi sul senso comune, e dunque sull’accettazione delle condanne inflitte dai giudici. Secondo Dal Lago, “La frase, spesso ripetuta da qualche uomo politico, che le sentenze si appellano, ma non si commentano, tradisce la cautela nei confronti di un sistema “irritabile”, sensibile spesso in modo spasmodico alle critiche; ma rivela anche un atteggiamento ipocrita nei confronti della giustizia e soprattutto di chi la esercita. I giudici rappresenterebbero un corpo ammantato di sacralità, e il solo modo di contrastarne le decisioni sarebbe giocare il loro gioco, ovvero agire in base al sistema (di presupposti, retoriche, automatismi ecc. noti come diritto) entro cui hanno deciso o a cui fa riferimento esplicito la loro decisione. La realtà è che una sentenza, in quanto giudizio pubblico, è un atto performativo, una decisione gravida di effetti pratici, in primo luogo sugli attori che ne sono oggetto (nei procedimenti penali, gli imputati). Inoltre, si tratta di un fatto che rientra in una serie di sistemi interconnessi (linguistici, culturali e sociali), che hanno rilevanza pubblica e che possiamo definire discorso giudiziario efficace. Di conseguenza, una sentenza è inevitabilmente e naturalmente suscettibile di commento in quanto atto discorsivo. E questo vale, a maggior ragione per le motivazioni della sentenza del processo,, che vengono rese pubbliche qualche tempo dopo l’enunciazione solenne (in tribunale) del dispositivo. In realtà, in termini strettamente logici, le motivazioni rappresenterebbero le premesse o motivazioni di una sentenza elaborate alla fine del dibattimento. Ma il semplice fatto che siano rese pubbliche dopo la formulazione solenne della sentenza ne fa – oggettivamente – la giustificazione complessa di una decisione. In tale complessità rientrano considerazioni, giudizi e valutazioni ex post che ragionevolmente vanno al di là dei processi decisionali che hanno portato alla sentenza (penso a questioni stilistiche come abbellimenti, ironie, citazioni colte e non ecc.). Una sentenza è quindi espressione non solo della particolare versione del diritto penale a cui si attiene il giudice (in termini di sensibilità, pre-giudizi ecc.), ma anche della cultura in cui il suo giudizio è immerso. Questo vale non solo e non tanto per le questioni di interpretazione delle norme, ma per l’interpretazione dei“fatti”. Si consideri il seguente passo delle motivazioni della sentenza Lucano, in cui il giudice contrappone la versione della pubblica accusa (fatta propria dal Collegio giudicante) a quella della difesa.

Il processo ha consegnato al collegio una visione delle cose […] secondo cui le prove presenti in atti, “viste da vicino” – e cioè senza l’uso di lenti deformanti e, soprattutto, senza compiere fughe in avanti (realizzate nel tentativo di prescindere dalla piattaforma probatoria, cercando di ignorarla, in nome di una presunta persecuzione di natura politica, che si dimostrerà essere del tutti insussistente – hanno consentito di delineare una realtà fattuale di segno diverso., che è quella di cui si dirà a breve, la quale sarà tratteggiata lasciando fuori dalle carte ogni valutazione strumentale che di essa si voglia darne (ai più diversi fini), sforzandosi di documentare passo passo gli elementi di prova di cui si dispone, che saranno illustrati nella loro nuda oggettività e nel loro inequivoco significato (pag. 60).

Come osservava Dal Lago, “In questo e analoghi passi delle motivazioni emerge limpidamente la dicotomia epistemologica a cui il giudice dice di ispirarsi. Le prove “viste da vicino”, cioè nell’ottica dell’accusa, non comportano “lenti deformanti”, “fughe in avanti”, “valutazioni strumentali” (come quelle evidentemente “viste da lontano” della difesa), ma una “nuda oggettività” e un “inequivoco significato”.

In questo commento, mentre si stanno svolgendo le prime fasi del processo di appello davanti alla corte di Appello di Reggio Calabria, la prossima udienza è fissata per il 6 luglio prossimo, cercheremo di svolgere alcuni rilievi critici e di rendere evidente come la decisione adottata dal Tribunale di Locri sia solo apparentemente basata su prove di “inequivoco significato”. Mentre in realtà si fonda, anche per il linguaggio adottato, sui presupposti ideologici più diffusi all’epoca dei fatti contestati, dalla “pacchia dell’accoglienza”, fino agli interessi di arricchimento o di altri vantaggi che sarebbero stati perseguiti da coloro che operavano in associazioni senza fine di lucro per scopi solidaristici. Gli stessi presupposti valutativi sono facilmente rinvenibili anche in altre indagini avviate contro Organizzazioni non governative impegnate nei soccorsi in mare o nell’assistenza dei migranti entrati irregolarmente nel territorio italiano per chiedere asilo, a partire dal 2016. Quando si cominciava a contrastare la presenza di navi di soccorso in mare, e si cercava di limitare in tutti modi gli “sbarchi”, e dunque le dimensioni dei sistemi di accoglienza decentrata, allora inclusi in una fitta rete di enti locali (SPRAR). Si riteneva in questo modo, da parte dei governi del tempo, di  ridurre gli oneri dell’accoglienza gravanti sull’Italia per effetto della mancata riforma del Regolamento Dublino III del 2011, e dei sistemi di condivisione degli oneri di accoglienza in ambito europeo che ne derivavano. Come se invece fossero meno dispendiosi i grandi centri di accoglienza gestiti dalle prefetture in convenzione con i privati ( come ad esempio il CARA di Mineo) o i centri di prima accoglienza (Hotspot) e di accoglienza straordinaria (CAS) che si potevano aprire (e gestire) senza garantire percorsi di integrazione e con un minimo di controlli, in base alla Legge Puglia del 1995. Una legge che rimetteva alla mera discrezionalità amministrativa, di fatto alle prefetture ed al ministero dell’interno, il regime giuridico dei centri di prima accoglienza e  rendeva, come rende ancora oggi, del tutto precario lo status delle persone che vi venivano accolte. Da quella discrezionalità amministrativa che mutava ogni tre anni la natura dei centri di accoglienza e il regime giuridico e contabile che li caratterizzava, ed alla quale il sistema Riace tendeva a sottrarsi, sono nate prima le censure in sede amministrativa, poi il blocco dei fondi, quindi le indagini penali che hanno portato alla sentenza di condanna del Tribunale di Locri.

Se si vanno a considerare “da vicino” le singole argomentazioni addotte da un Collegio giudicante che a tratti sembra assumere quasi la veste dell’accusa, tanto da lamentarsi per non avere ottenuto risposte dagli imputati, ai quali avrebbe voluto “formulare domande” (p. 97), si rileva uno scarto ricorrente tra i fatti oggettivamente accertati, e quanto emerge dalla valanga di intercettazioni disposte a carico degli imputati. Al di là della dubbia legittimità di molte di queste intercettazioni, ma di questo ne tratteranno gli avvocati nel procedimento  di appello, si nota una interpretazione parziale ed orientata di ciascuna captazione registrata dalle autorità inquirenti, tale da scorporare la frase, segnata con tratti in grassetto, dal contesto del discorso nella quale è inserita, in modo da avvalorare le tesi dell’accusa, ed anche oltre, tanto che il collegio decidente arriva a riqualificare alcuni fatti già contestati dalla procura ed aumenta sensibilmente  l’ammontare delle pene, quasi raddoppiate rispetto a quelle richieste dalla stessa accusa.

Per gli avvocati difensori  Daqua e Pisapia,  condanne tanto gravi sono conseguenza di “Una lettura ‘forzata’, se non surreale” delle intercettazioni. Un’ “aberrante ‘tecnica’ di ‘silenziare’ gli elementi di prova”. Ma anche “un’inspiegabile lettura deformata dei dati fattuali emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale, che altra giustificazione non ha se non quella di dichiarare ad ogni costo’ responsabile” Mimmo Lucano. Per gli stessi avvocati,“Lucano appare nella motivazione del Tribunale come una figura avida, infida, arrogante, una controparte da perseguire più che una persona da sottoporre a giudizio per i fatti che gli vengono attribuiti. A questa ‘narrazione’ la difesa contrappone una ‘narrazione’ diversa e alternativa. L’obiettivo perseguito dal Lucano era uno solo ed in linea con quanto riportato nei manuali Sprarl’accoglienza e l’integrazione. Non c’è una sola emergenza dibattimentale (intercettazioni incluse) dalla quale si possa desumere che il fine che ha mosso l’agire del Lucano sia stato diverso. Le somme contestate non sono state utilizzate con la finalità di arricchire sé stessi o comunque le associazioni, ma destinate esclusivamente all’espletamento dei servizi previsti dalla confusionaria normativa di settore”.

Ad una lettura delle motivazioni addotte dal Tribunale di Locri, emergono diversi passaggi che fanno dubitare fortemente della “nuda oggettività” degli argomenti probatori su cui si fonda la condanna. Di certo nelle motivazioni sono stati inserite intere parti del faldone processuale formato dalla procura e prima ancora dalla polizia giudiziaria, e decine di pagine di sentenze della Corte di cassazione per estrapolare principi di diritto da casi molto distanti da quello qui in esame, mentre le argomentazioni della difesa vengono liquidate con considerazioni tanto sintetiche da far dubitare che i giudici abbiano letto per intero gli atti difensivi. Nella sentenza di condanna si individuano  per la prima volta profili di responsabilità sui quali gli imputati non hanno potuto esercitare i loro diritti di difesa nel dibattimento. Una tecnica argomentativa che si ritrova nei procedimenti penali contro le ONG che soccorrono migranti nel Mediterraneo, procedimenti che però, salvo poche eccezioni (come il caso Iuventa ancora aperto a Trapani) si sono risolti con provvedimenti di archiviazione. Nel caso del processo Xenia si è assistito ad una continua riqualificazione dei fatti, fino alla sentenza di condanna che proprio sulla base della modificazione del titolo dei reati contestati è giunta ad un cumulo di pene che quasi raddoppiano le richieste della pubblica accusa. Rilevare questi dati “oggettivi” significa esercitare un diritto di critica che è tanto più giustificato quanto i giudici, per motivare la sentenza di condanna fanno ricorso ad un linguaggio che sembra rivolto più ad una cerchia di potenziali lettori esterni al processo che agli imputati che hanno diritto a conoscere le motivazioni in fatto ed in diritto per  esercitare effettivamente i diritti di difesa e di ricorso.  .

In ogni caso, sembra quasi che  uomini, donne, minori, accolti a Riace vengano considerati come una massa indistinta, tanto che nel caso dei “lungo residenti” che riguardo ai minori ed agli altri soggetti in condizione di vulnerabilità. Gli immigrati vengono considerati solo come lo strumento per commettere una sfilza di reati tanto gravi, e rimangono sullo sfondo, come se si trattasse di “non-persone”, come meri oggetti, Su questo aspetto si registra lo scarto più netto tra la visione amministrativa e politica di Mimmo Lucano e la considerazione delle persone come entità numeriche oggetto di rendicontazione, che prevale nelle argomentazioni dell’accusa e nella decisione di condanna adottata dal collegio giudicante di Locri,

2. Il processo Xenia tra discrezionalità amministrativa e valutazione del giudice penale.

I giudici del Tribunale di Locri come si è detto propongono una chiave di lettura dei fatti che dovrebbe tradursi in una considerazione “da vicino” dei singoli comportamenti e delle singole responsabilità, poi ricondotte ad un identico disegno “criminoso” di stampo associativo. Se andiamo allora a considerare questa lettura ravvicinata dei fatti alla luce delle motivazioni della sentenza di condanna emerge la distanza tra le fattispecie di reato per cui Lucano ed altri coimputati sono stati condannati, e la reale consistenza delle responsabilità personali, che pure le difese avevano cercato di fare emergere, anche attraverso documenti e prove testimoniali che il collegio giudicante sembra quasi avere ignorato. Dalla interpretazione parziale delle intercettazioni, richiamate per esteso ma con sottolineature che ne determinano spesso la portata, si ricavano prove indiziarie, una sorta di interpretazione distorsiva dei fatti, e non soltanto delle norme, che  sembra più rilevante di quanto risulta da documenti e passaggi processuali che appaiono incontestabili. La incompletezza della documentazione che il Comune di Riace aveva presentato negli ultimi anni  ha certamente favorito questa linea interpretativa, Per questa ragione occorre ricostruire le diverse fasi del procedimento penale che ha riguardato non solo l’ex Sindaco di Riace, ma numerosi rappresentanti di associazioni e diversi imprenditori.

Nell’ottobre del 2017 a Mimmo Lucano veniva notificato un avviso di garanzia per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ai danni dello Stato e dell’Unione europea, concussione e abuso d’ufficio. L’indagine avviata nel 2016, andava crescendo nel tempo, soprattutto sulla base di intercettazioni ambientali,  e sfociava con il rinvio a giudizio di numerosi indagati. Nel processo Xenia venivano imputate 27 persone con la contestazione di ben 22 capi d’accusa. Tra questi, a carico di Mimmo Lucano, si contestavano i reati di: Associazione a delinquere ex art. 416 c.p, per essersi associato assieme ad altri alla commissione di un numero indeterminato di delitti (indebite rendicontazioni e indebiti prelievi di denaro), al fine di interferire sulla regolarità dei pagamenti relativi ai diversi programmi di accoglienza, in danno del Ministero degli Interni e dello SPRAR; Abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. per aver procurato ad una serie di associazioni un indebito vantaggio patrimoniale, in relazione alle irregolarità riguardanti le indebite rendicontazioni poi riqualificato dal collegio giudicante nella sentenza di condanna come Truffa aggravata  ex art. 640 bis c.p., per il conseguimento di erogazioni pubbliche, per aver rendicontato,  a seguito del protrarsi della presenza di persone migranti nei progetti oltre i termini previsti, costi non giustificati in relazione alle rendicontazioni dei programmi di accoglienza e dunque per avere determinato “una fraudolenta omissione dell’aggiornamento della banca dati SPRAR”; Falsità ideologica ex art. 479 c.p. per aver attestato falsamente di aver eseguito i controlli sui rendiconti di spesa propedeutici al rimborso dei costi sostenuti per i centri di accoglienza straordinaria (CAS) dei migranti; Peculato ex art. 314 c.p. per aver distratto 2 milioni di euro per l’acquisto di un frantoio e di alcune unità immobiliari,da destinare al lavoro di quanti erano accolti a Riace, e degli stessi lavoratori locali, dunque  alla valorizzazione del territorio; Abuso d’ufficio e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, per aver affidato in via diretta il servizio di raccolta e trasporto di rifiuti ad associazioni non iscritte nell’albo previsto dall’art. 5 L. 381/91. Per questi reati il Tribunale di Locri condannava Mimmo Lucano ad una pena complessiva di 10 anni e 4 mesi. Lo stesso tribunale individuava poi un secondo disegno criminoso e condannava Mimmo Lucano per il reato di  falso ideologico ex art. 480 c.p., in concorso e continuato , ed ancora per abuso d’ufficio (art.323 c.p. limitatamente al rilascio di una carta d’identità, in assenza dei requisiti di legge, come si asserisce, condannando lo stesso ad una ulteriore pena di 2 anni e 10 mesi di reclusione.

Mimmo Lucano veniva arrestato il 2 ottobre 2018 per finire ai domiciliari per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (ex art. 12 del Testo Unico n.286 del 1998), e per affidamento fraudolento del servizio di raccolta rifiuti,  ma proprio il reato più grave, per il quale era stato sbattuto sulle prime pagine di tutti i giornali, era tra i primi ad essere archiviato. Insomma un arresto che non poteva essere giustificato solo dall’affidamento del lavoro di pulizia ad una ditta non iscritta nell’albo regionale e senza gara di appalto. La Corte di  Cassazione annullava con rinvio l’ordinanza cautelare del 16 ottobre 2018 con riguardo a due profili: la sussistenza dei gravi indizi del reato di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente (mancavano, in sostanza, i “comportamenti fraudolenti” nell’assegnazione dei servizi) e la effettiva consistenza ed intensità delle esigenze cautelari.  Nel corso del 2019 si succedevano tre avvisi di garanzia che ampliavano il quadro delle contestazioni nei confronti di Mimmo Lucano e di altri indagati, Il 7 luglio 2020 il Tribunale del Riesame di Reggio Calabria rigettava l’appello della Procura di Locri contro l’ordinanza del GIP con la quale era stata respinta la richiesta di misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti dell’ex sindaco di Riace e di altri nove indagati per l’ipotesi di reato di associazione per delinquere. Secondo i giudici: del riesame “La gestione poco trasparente da parte del Comune di Riace e degli enti attuatori delle risorse pubbliche finanziate per i progetti di accoglienza dei migranti conferma l’esistenza di prassi improntate alla superficialità e alla negligenza, ma non consente, allo stato, di ritenere suffragata la sussistenza dell’addebito associativo, in assenza della prova del perseguimento di vantaggi patrimoniali privatistici o dell’appropriazione di somme di denaro da parte dei singoli protagonisti della vicenda […]”.Prova che non è stata neppure fornita neppure nel corso del dibattimento svoltosi davanti al Tribunale di Locri. Viene quindi da chiedersi quali nuovi risultati probatori hanno condotto lo scorso anno il collegio giudicante di Locri ad emettere una condanna tanto grave, molto più severa di quanto richiesto dalla Procura, arrivando a negare a Lucano persino le attenuanti generiche.

Una buona parte della sentenza adottata dal Tribunale di Locri il 30 settembre 2021, con riferimento a fatti verificatisi dal gennaio del 2014 al settembre del 2017, si basa sulla contaminazione della valutazione penale con la discrezionalità amministrativa che si è espressa nel tempo, anche a seconda delle vicende politiche, con la sostanziale modifica avvenuta nel 2015-2016 delle regole che governano i diversi sistemi di accoglienza, che a Riace erano fortemente integrati, mettendo così a rischio il principio di uguaglianza e il carattere tassativo della sanzione penale, che rischia di sfumare a mera conseguenza di una  (mutata) valutazione amministrativa. La maggior parte dei fatti contestati a Mimmo Lucano sembra da ricondursi ad una rigida distinzione tra i sistemi di contabilità dei centri SPRAR, rispetto ai centri di accoglienza straordinaria (CAS) o di prima accoglienza (CPA) che nella organizzazione quotidiana dell’accoglienza a Riace non era facile distinguere, anche per la sfasatura temporale dei relativi rimborsi e anche perché nessuno poteva impedire con la forza che i migranti si incontrassero tra loro e condividessero in talune occasioni i medesimi servizi, al di là del sistema di accoglienza specifico cui erano assegnati. Ma se su questo terreno si possono configurare irregolarità amministrative, rimane tutto da dimostrare che a questi corrispondano singoli reati, o ancor peggio reati in continuazione, se non addirittura una vera e  propria associazione per delinquere volta alla commissione sistemica di reati. Come notava Luigi Ferrajoli in un convegno svolto a Reggio Calabria proprio all’indomani della pubblicazione del dispositivo della sentenza, “quando i reati derivano da violazioni amministrative occorre valutare senza scadere nella discrezionalità”. In ogni caso una irregolarità amministrativa non può tradursi automaticamente in una fattispecie penale se non ricorre l’intento soggettivo che questa prevede.

Come è stato osservato da Giulia Mentasti, in merito alla sentenza di condanna, “i giudici hanno quasi raddoppiato le richieste sanzionatorie avanzate dalla procura (la pena prospettata, infatti, era di sette anni e undici mesi di reclusione). Il Tribunale ha deciso di ripartire in due distinti filoni i reati di cui Lucano è stato ritenuto responsabile duplicando i disegni criminosi e, di fatto, aumentando la pena finale. La duplicazione dei vincoli di continuazione ha avuto come effetto ovvio e immediato la duplicazione delle pene base. Nel primo filone, infatti, il reato-base è il peculato (pena da 4 a 10 anni), al quale si aggiungono gli altri sedici reati avvinti dalla continuazione (tra cui associazione per delinquere e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche) che portano a una pena di 10 anni e 4 mesi di reclusione. Il reato più grave del secondo filone, invece, è l’abuso di ufficio (pena da 1 a 3 anni), al quale si aggiungono altri cinque reati (tra cui falso in certificato) che innalzano la pena sino 2 anni e 10 mesi.“I giudici hanno quasi raddoppiato le richieste sanzionatorie avanzate dalla procura (la pena prospettata, infatti, era di sette anni e undici mesi di reclusione)”. Per Luigi Ferrajoli” Nel caso specifico non è stato fatto valere il vincolo della continuazione tra reati e ciò ha comportato il fatto che le pene per ciascun illecito siano state sommate. Ma al di là degli aspetti tecnici, la cosa più grave è che questo tipo di decisioni rischiano di produrre un consenso di massa nei confronti della disumanità quando, invece, uno dei principi fondanti di una democrazia è il rispetto reciproco, la solidarietà.” 

Mimmo Lucano è stato invece assolto dalle accuse di concussione (art. 317 c.p.)e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art. 12 Testo Unico 286/98 imm.), che pure avevano caratterizzato con grande clamore mediatico l’avvio del Processo Xenia, tanto da giustificare misure restrittive della libertà personale, poi revocate.

Già  con l’ordinanza del 26 settembre 2018 il GIP di Locri aveva escluso la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza per le imputazioni di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale, concussione, malversazione a danno dello Stato e associazione a delinquere. Dopo tre anni di inchieste ed una valanga di intercettazioni di dubbia legittimità, rese in modo parziale dai brogliacci delle autorità inquirenti, si arriva invece ad una condanna per il reato di truffa, e soprattutto, si arriva alla condanna per associazione a delinquere. Come se l’intero sistema Riace fosse in sostanza basato su un intento criminoso  dei soggetti che più attivamente vi avevano partecipato, con un ruolo di primo piano assegnato a Mimmo Lucano che i giudici di Locri definiscono come autore di un  “piano delittuoso di natura predatoria”. Vero invece proprio il contrario, e questo i giudici di Locri avrebbero potuto rilevarlo dalle intercettazioni, se solo si fossero liberati per un momento dal pregiudizio colpevolista, e cioè che l’ex sindaco di Riace, sia nei rapporti con l’associazione Città futura, che nei molteplici rapporti con le altre associazioni attive nei progetti di accoglienza ed integrazione, perseguiva costantemente, nella qualità di Sindaco, il fine di evitare che altri soggetti privati potessero realizzare ingiusti profitti a nocumento degli scopi umanitari che si propone ad esclusiva tutela dei soggetti più deboli, le persone migranti accolte sul territorio riacese.

Secondo gli avvocati di Mimmo Lucano, i giudici di Locri hanno condannato l’ex sindaco di Riace, con una “motivazione puramente apparente”. “Invero – si legge nelle motivazioni dell’appello – il metodo adottato dal Tribunale segue in genere il seguente paradigma: annuncio che un certo fatto è comprovato dalle conversazioni intercettate, conferimento alluvionale delle predette intercettazioni, conclusione assertiva che le intercettazioni riportate forniscono la prova del fatto da provare”. La indicazione dei fatti contestati appare in ogni caso lacunosa, tanto che nella parte in cui si contesta la prolungata accoglienza dei cd. “lungo soggiornanti”, la sentenza non  individua precisamente le persone che si sarebbero trattenute oltre i limiti di tempo previsti dalle regole di amministrazione dei centri di accoglienza, né l’effettivo protrarsi della loro permanenza. I passaggi relativi a questo capo di imputazione non tengono neppure conto della situazione di peculiare affollamento che si verificava negli anni oggetto di indagine in tutti i centri di accoglienza, e delle repentine modifiche normative, spesso in via amministrativa, che ponevano gli enti gestori davanti alla drammatica alternativa di rispettare le istruzioni ministeriali e gettare gli ospiti su una strada, o rischiare conseguuenze gravi sul piano patrimoniale e penale, proseguendo l’accoglienza.

Non si può dunque contrapporre, in astratto, il diritto alla giustizia, o subire valutazioni moralistiche o meramente ideologiche, ma occorre verificare criticamente l’esercizio dei controlli giurisdizionali  attraverso i mezzi offerti dall’ordinamento ed in campo penale sulla base del più rigoroso rispetto del principio di legalità, che include anche una considerazione esaustiva di tutte le cause di giustificazione dei comportamenti astrattamente riferibili a fattispecie di reato. Crediamo in ogni caso che una sentenza penale non possa basarsi sulla demolizione della figura morale dell’imputato, magari con riferimenti espliciti a “cupidigia” o ad “avidità” nel favorire l’arrivo del maggior numero di migranti da accogliere, quando altri enti locali rifiutavano qualunque impegno solidaristico e le regole imposte dal ministero dell’interno, soprattutto a partire dal 2016, portavano a una diversa qualificazione e rendicontazione dei sistemi di accoglienza già noti e sperimentati sui quali, nel corso degli anni, si era costruito il cd. modello Riace.

La sentenza di condanna del processo Xenia, con particolare riferimento alla persona di Mimmo Lucano, e certo diverse considerazioni riguarderebbero gli altri imputati, costituisce una dimostrazione inequivocabile di come la polarizzazione del dibattito politico in materia di accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo possa portare ad una commistione di scelte discrezionali di natura amministrativa e di valutazioni penali, e quindi ad una crisi della razionalità delle decisioni giudiziarie (e politiche), che sempre più spesso finiscono per essere le une complementari alle altre. Tanto che già nella prima parte della sentenza, a pagina 59, prima ancora di avere svolto l’intero percorso di esposizione delle risultanze probatorie, il Collegio anticipa la decisione di condanna  affermando che l’esito del giudizio ha comportato l’affermazione della penale responsabilità nei confronti del predetto LUCANO e di alcuni dei suoi stretti collaboratori”. Ma non è stato ancora indicato alcun elemento di prova su cui si basa l’affermazione di una siffatta responsabilità penale. Come è stato correttamente osservato (Murone) , “L’anticipazione del risultato è una tecnica argomentativa: il lettore già conosce l’esito del ragionamento ed è propenso ad una lettura dei dati processuali orientati all’anticipazione suggerita dal Collegio, specie in relazione ad un testo così complesso ed esteso. Altri passaggi della sentenza dimostrano come il collegio giudicante abbia interpretato la sua funzione andando oltre il ruolo  di valutazione che gli assegna la legge, fino a diventare quasi un organo inquisitorio, laddove si fa richiamo al silenzio degli imputati nel corso del procedimento: “Si tratta solo di alcune domande più impellenti […] che questo Collegio avrebbe voluto formulare, dovendosi prendere atto del suo e degli altri legittimi, quanto ostinati silenzi, che potranno essere riempiti solo dall’eco delle loro stesse parole che si traggono delle varie intercettazioni, che hanno purtroppo tratteggiato un mondo privo di idealità, soggiogato da calcoli politici, dalla sete di potere e da diffusa avidità”. Si osserva (Murone) comeUno dei primi profili da esaminare, attiene alla necessità di dimostrare l’assoluta indipendenza dell’attività investigativa che è stata compiuta dalla Procura della Repubblica di Locri”. Secondo Murone “E’ questo, probabilmente, il passaggio più oscuro della sentenza. Non si vede in che modo il Collegio possa “dimostrare” l’indipendenza della Procura. Dimostrazione che, comunque, non compete al Collegio e che neppure è richiesta in un procedimento penale dove organo requirente e giudicante sono figure distinte e destinatari di responsabilità separate per la loro attività.”

L’accertamento della verità dei fatti e la riconduzione di questi alle fattispecie di reato previste dal codice penale è invece un procedimento che richiede una valutazione critica che tenga conto  degli argomenti addotti dall’accusa e dalla difesa, sulla base di una piena comunicazione e condivisione del fascicolo processuale, e dunque nel rispetto dei principi del giusto processo e del contraddittorio tra le parti. Il quadro accusatorio non può essere stravolto dal collegio giudicante al di fuori del rispetto di questi principi anche per non compromettere la portata effettiva dei diritti di difesa attribuiti dalla Carta costituzionale (art.24). Dal tenore delle espressioni usate nei confronti di Mimmo Lucano, e dalla ricorrente trasformazione di irregolarità amministrative in reati penali, e quindi dalla continua riqualificazione dei  reati, si ricava invece un capovolgimento sostanziale della narrazione dei fatti. Fatti che si potevano già ricavare dai fascicoli di accusa, ed anche da alcune intercettazioni, che vengono riportate solo parzialmente, e con una lettura tendente soltanto a fare emergere presunte responsabilità, come “i vantaggi privatistici” conseguiti da Mimmo Lucano, vantaggi che però poi non trovano riscontri oggettivi. Il materiale probatorio acquisito dai giudici di Locri nel fascicolo processuale non consentono di individuare infatti “vantaggi patrimoniali privatistici o appropriazione di somme di denaro” a favore di Mimmo Lucano.

Per i giudici di Locri, invece, “La povertà dell’ex sindaco era solo apparenza. In realtà ha sfruttato l’accoglienza per fini personali”. Eppure quello che emerge dalle motivazioni della sentenza di condanna, con specifico riferimento a Mimmo Lucano, è l’assenza di un qualsiasi intento fraudatorio volto a procurare al sindaco di Riace un ingiusto vantaggio patrimoniale, come peraltro riconosciuto anche dalla Corte di cassazione nella sentenza del 2019. Né si intravede quale tipo di pressione ( sulla Prefettura di Reggio Calabria, o addirittura sul Ministero dell’interno?) avrebbe esercitato il sindaco di un comune tanto piccolo nel tentativo di “accaparrarsi” il più alto numero di migranti. Se non fosse stato vero il contrario, invece, come provato dalla documentazione e dal dibattimento, e cioè che era la Prefettura di Reggio Calabria, articolazione territoriale del Ministero dell’interno, che in assenza di altre soluzioni, a causa del cronico dissesto del sistema di accoglienza nazionale, sollecitava il sindaco Mimmo Lucano perchè offrisse una prima accoglienza a Riace ad un numero sempre più elevato di migranti, che poi potevano essere accolti su un territorio tanto ristretto solo grazie alla tipicità del modello di accoglienza diffusa e di inclusione sociale che caratterizzava il cd. modello Riace.

I giudici di Locri basano la sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano su una ““logica predatoria delle risorse pubbliche provenienti dai progetti SPRAR, CAS e MSNA, sempre più asserviti ai loro appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica, e soddisfatti strumentalizzando a loro vantaggio il sistema dell’accoglienza dci migranti che, da obiettivo primario ed apprezzabile di quelle sovvenzioni, è diventato un comodo paravento dietro cui occultare le vistose sottrazioni di denaro pubblico che essi attuavano, per fini esclusivamente individuali” (pag.59). Si utilizzano espressioni assai forti come “arrembaggio ai finanziamenti”, come se si potessero ricavare vantaggi sempre maggiori in conseguenza al maggior numero degli stranieri che si sarebbe riusciti a trattenere a Riace. Come se questo dato di fatto corrispondesse ad una finalità speculativa, assunta come base per la configurazione di un reato associativo, mentre rimane indimostrato il vantaggio ricavato dal principale imputato. Per quanto riguarda le finalità politiche che sarebbero state perseguite dall’ex sindaco di Riace, peraltro smentite dai fatti, come si vedrà, i giudici di Locri appaiono ben consapevoli in diversi punti della sentenza che tali asseriti vantaggi potevano comunque configurarsi solo in favore di Mimmo Lucano e non certamente della pletora di altri soggetti coinvolti nella fattispecie di associazione a delinquere che viene pure contestata.

Non si vede davvero, dall’alluvionale motivazione della sentenza di condanna, come lo “sforamento” dei tempi di accoglienza dei migranti lungo-residenti presenti a Riace “fosse stato deliberatamente preordinato per conseguire vantaggi economici rilevanti ed ingiusti” (p. 155 della sentenza). Vero è invece il contrario, che l’intero modello si basava su percorsi di emancipazione che miravano a rendere autonomi i migranti ed a non farli “pesare” per un tempo eccessivo sulle finanze pubbliche. Allo stesso tempo il prolungamento dei tempi di accoglienza nei centri di Riace mirava a sottrarre i migranti ad una condizione di irregolarità e di sfruttamento, che si verificavano a pochi chilometri di distanza,  come nel caso del ghetto di San Ferdinando, nell’indifferenza generale. In definitiva la “crisi dei lungo permanenti” nasceva dalle scelte delle autorità amministrative e politiche del tempo, che riducevano drasticamente i margini di tolleranza verso i cd. “lungo residenti” presenti in tanti centri di accoglienza italiani, e non da una volontà perversa del sindaco di Riace, volta a conseguire indebiti vantaggi dalla prolungata accoglienza di queste persone.

Non sembra peraltro possibile ricondurre ad una fattispecie tipica di reato associativo la “ sfrenata sete di visibilità politica” che i giudici di Locri contestano soltanto a Mimmo Lucano, atteso anche il fatto obiettivo che quest’ultimo, pur potendo competere per l’elezione al Parlamento europeo preferiva rinunciare alla proposta di candidatura e proseguire nel suo impegno per salvare il sistema di accoglienza Riace, già oggetto da tempo di durissimi attacchi. La moltiplicazione degli enti gestori e dei progetti di accoglienza non veniva determinato da una perversa volontà del sindaco ma dalla dinamica dei fatti che vedevano la prefettura di Reggio Calabria sollecitare una accoglienza sempre maggiore da parte del comune amministrato da Mimmo Lucano, in tempi che non potevano consentire l’adozione di procedure ad evidenza pubblica. E la netta avversione al modello Riace, dopo anni di valutazioni positive, si ricollegava a precisi indirizzi politici ed amministrativi che dal 2016, a livello nazionale, tendevano a ridimensionare il sistema di accoglienza ed a favorire le strutture più grandi e di carattere temporaneo come i CAS (Centri di accoglienza straordinaria). Una tendenza che purtroppo si riafferma nelle prassi amministrative ancora oggi. Anche se “vantaggi economici rilevanti ed ingiusti” si sono invece verificati, e si continuano a verificare, con la chiusura dei centri di accoglienza diffusa e con il concentramento di un numero sempre più elevato di persone in centri di grandi dimensioni.

3. La realtà storica e le contestazioni rivolte dall’accusa: uno scarto incolmabile

3.1 Il modello Riace si caratterizzava per l’assegnazione in comodato d’uso ai richiedenti asilo delle case abbandonate presenti nel comune e per l’investimento della parte residua dei fondi governativi stanziati per l’accoglienza e l’integrazione, per la parte che si riusciva ad economizzare, in borse lavoro e attività commerciali nelle quali operavano i richiedenti asilo insieme ai cittadini del paese. Si era anche creato, già a partire dal 2010,  un sistema di pagamento dei beni e dei servizi offerti agli immigrati sulla base di buoni (i cd. bonus sociali) che poi venivano rimborsati agli operatori economici dal comune nell’ambito dei progetti di accoglienza di cui era titolare. Questo avveniva per i ritardi nelle erogazioni dei rimborsi ministeriali, che però per le autorità amministrative si collegavano ai ritardi nella rendicontazione. I negozianti di Riace si erano resi disponibili ad accettare i bonus, convertiti in euro non appena i fondi , con i ritardi notori, venivano erogati. I bonus equivalevano al pocket money di 2,5 euro al giorno per migrante, che diventano 175 euro mensili, 310 per due persone e 375 per un nucleo familiare da 3 persone in su.

A Riace si svolgevano diverse iniziative culturali, ed alcune abitazioni del paese, dopo essere state recuperate, venivano destinate all’accoglienza di turisti Si trattava di un modello innovativo di turismo solidale inserito in un contesto di accoglienza diffusa, avviato da anni da Lucano, in particolare dopo l’emergenza nord africa del 2011. Questo modello di accoglienza superava la stessa distinzione tra centri SPRAR e centri CAS, riconosciuto dalle istituzioni fino all’avvento delle nuove regole di contabilità dei diversi sistemi di accoglienza introdotte a partire dal 2014, rese operative dal ministro dell’interno Minniti, con il Decreto ministeriale 10 agosto 2016, e poi ulteriormente inasprite da quando al Viminale si era insediato Salvini. Con il Decreto sicurezza n.113, convertito nella legge n.132 del 2018 e con i provvedimenti amministrativi e regolamentari conseguenti, oltre a stabilire nuove regole per la rendicontazione dei sistemi di accoglienza, si arrivava all’abolizione dell’istituto della protezione umanitaria ed allo smantellamento dei sistemi di prima accoglienza, imponendo, oltre alla scadenza semestrale, la fuoriuscita di tutti coloro che non avessero conseguito lo status di protezione internazionale o che non fossero minori di età. Gli enti gestori ed i sindaci si trovavano cosi’  davanti alla intimazione di mettere sulla strada persone che erano in accoglienza senza avere conseguito il riconoscimento di uno status di protezione internazionale, o per le quali erano semplicemente scaduti i termini semestrali di durata massima dell’accoglienza. Le eccezioni potevano riguardare solo i casi di maggiore vulnerabilità, ma la procedura per il riconoscimento delle deroghe era particolarmente lenta, e passava attraverso il filtro discrezionale delle autorità amministrative. Come non riconoscere in questi casi uno stato di necessità,ex art. 54 del Codice Penale, se poi sono state tragiche e ben visibili le conseguenze della fine forzata dei progetti di prima accoglienza e la impossibilità di trasferimento in strutture di seconda accoglienza, soprattutto dopo il diniego della richiesta di asilo, o la repentina abolizione dell’istituto della protezione temporanea  frutto del primo decreto sicurezza Salvini del 2018?

Sul piano dell’accertamento delle ipotesi di reato e dell’attribuzione delle conseguenti responsabilità appare evidente come i giudici di Locri abbiano capovolto la narrazione dei fatti, ritenendo che l’emergenza derivante dall’arrivo dei migranti da accogliere a Riace derivasse da un preordinato disegno del sindaco Mimmo Lucano, diretto a sfruttare l’arrivo di tante persone in un piccolo paese desertificato dall’emigrazione, per raccogliere il massimo di contributi pubblici (pg.61). E che non si trattasse invece della conseguenza di un picco degli arrivi, soprattutto via mare, che si verificava negli anni 2015,2016,2017

, a  fronte di una insufficienza dei sistemi di accoglienza pubblici, e poi del loro progressivo smantellamento, di cui si pagano ancora oggi le conseguenze. Erano gli organi di governo territoriale, e il Servizio Centrale del Ministero dell’interno, che in quel periodo sollecitavano i sindaci ad accogliere migranti, che altrimenti non avrebbero avuto alcuna possibilità di una prima sistemazione dignitosa, nei Centri dei prpgetti SPRAR in convenzione con i comuni, nei Centri di accoglienza straordinaria-CAS gestiti dalle prefetture, e nei Centri per minori, non accompagnati, anche questi con un impegno diretto degli enti locali. Si deve anche aggiungere che proprio a partire dal 2015, a  fronte di un esodo tanto massiccio di profughi di guerra, come i migranti provenienti, oltre che dal continente africano, dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Kurdistan, a livello di Unione Europea non veniva adottata alcuna misura di accoglienza temporanea, come si è fatto adesso nel caso dei profughi (soltanto) ucraini, né veniva modificato l’iniquo Regolamento Dublino III che caricava sul primo Stato d’ingresso gli oneri di accoglienza dei richiedenti asilo o protezione sussidiaria. Se il sistema di accoglienza poteva reggere era soltanto perché molti migranti, soprattutto i siriani, proseguivano il loro viaggio verso altri paesi europei, senza documenti ma con l’avallo tacito delle autorità, per chiedere asilo fuori dall’Italia.

La sentenza di condanna non tiene conto di questa mobilità secondaria e non identifica esattamente il numero dei cd. “lungo permanenti”. Non si considera neppure la circostanza facilmente accertabile che molti di loro erano rimasti a Riace dopo essersi trasferiti dai centri di accoglienza nelle case di cittadini privati che avevano messo a disposizione le loro case. Risultato che era proprio quello auspicato dal sindaco che confermava il successo dei progetti di integrazione, mentre altri sistemi di accoglienza producevano clandestinità e spreco di risorse orientate, queste si, alla realizzazione di vantaggi politici o di carattere privato. Il caso di Mineo e di Mafia capitale, dove si verificava un gonfiamento delle presenze dei migranti su cifre ben superiori a quelle riscontrabili a Riace, sembra ormai sepolto nel dimenticatoio.

Negli stessi anni, l’intero sistema di accoglienza rimaneva basato sui CARA, come la megastruttura di Mineo (in Sicilia) e su grandi centri di accoglienza straordinaria (CAS)come quelli in provincia di Roma (Castelnuovo di Porto), presentava rilevanti caratteri di illegalità e di spreco di risorse, che neppure le indagini di una Commissione Parlamentare d’inchiesta, e quindi della magistratura (Processo Mafia Capitale), riuscivano a sanzionare con la severità adeguata alla gravità ed alla frequenza dei casi di vero utilizzo a scopo privatistico di ingenti risorse pubbliche.. Chi garantiva la gestione di quelle strutture poteva contare su lauti guadagni e magari fare anche una brillante carriera politica. La situazione della prima accoglienza si protraeva tanto a lungo da creare vaste sacche di emarginazione, ed attorno ai grandi centri di accoglienza fiorivano attività illecite di vario tipo, dalla prostituzione al traffico di droga, con uno sfruttamento sistematico delle persone che private spesso dei minimi mezzi di sussistenza garantiti dallo Stato ( 2,5 euro al giorno di pocket money), costrette a cercare sulle strade più vicine caporali e padroncini per i quali lavorare. Il passaggio al sistema di seconda accoglienza restava spesso un miraggio, per la mancanza di posti disponibili e per la progressiva contrazione dei centri SPRAR gestiti dai comuni, effetto del mutato corso politico e di una campagna mediatica che individuava nei migranti e negli operatori dell’accoglienza i responsabili di sprechi ingiustificabili.

Il protrarsi dell’accoglienza dei lungo residenti caratterizza proprio in quel periodo che, dopo i provvedimenti restrittivi varati dall’ex ministro dell’interno Minniti,  portava all’adozione del Decreto sicurezza 113 del 2018, che eliminava la protezione umanitaria e riduceva fortemente l’ambito dei soggetti che sarebbero stati accolti nei diversi sistemi di accoglienza allora esistenti. Ed è per il cronico dissesto del sistema di (seconda) accoglienza, ancora oggi sotto gli occhi di tutti, che si verificava in Italia già in quel periodo, che mancavano soluzioni per dare uno sbocco ai cd. lungo permanenti, che restavano a Riace oltre i termini previsti dalle norme regolamentari, solo per non finire gettati sulla strada, come si era verificato nel caso di Becky Moses morta carbonzzata in una baracca andata in fiamme nella vicina piana di Rosarno,dopo avere abbandonato Riace a causa del diniego pronunciato dalla competente Commissione territoriale sulla sua istanza di protezione e dunque per effetto della perdita del titolo di soggiorno necessario per essere inserita in un sistema di accoglienza. Per i giudici di Locri, invece, Mimmo Lucano era soltanto “il vero e proprio deus ex machina di quel sistema sotterraneo e perverso…che veniva nascosto dietro l’ipocrita bandiera della umanità solidale e integrata” (p.73).

3.2   Negli atti del ricorso in appello, come riferiti dal Fatto Quotidiano, si legge che “Il collegio difensivo contesta, inoltre, sia l’utilizzabilità delle intercettazioni, alla luce della sentenza “Cavallo” emessa dalle Sezioni Unite della Cassazione, sia la trascrizione delle telefonate riportate in sentenza. Trascrizione che non corrisponderebbe, a detta degli avvocati, a quella della perizia disposta dal Tribunale stesso nel corso del processo. Tra le contestazioni c’è pure la modifica operata dai giudicanti direttamente in sentenza, del capo di imputazione da abuso d’ufficio a truffa aggravata.  Che, secondo gli avvocati, contrasterebbe con quanto stabilito dalla Cassazione: “La Suprema Corte – scrivono infatti Daqua e Pisapia – ha più volte affermato il principio secondo cui sussiste violazione del diritto di difesa quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato originariamente, ‘in rapporto di eterogeneità’, vale a dire che presenti elementi aggiuntivi rispetto al primo, realizzando così una vera e propria trasformazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato”. “Invero – si legge nelle motivazioni dell’appello – il metodo adottato dal Tribunale segue in genere il seguente paradigma: annuncio che un certo fatto è comprovato dalle conversazioni intercettate, conferimento alluvionale delle predette intercettazioni, conclusione assertiva che le intercettazioni riportate forniscono la prova del fatto da provare”.

Si osserva in molti casi come la interpretazione data dal Collegio giudicante alle intercettazioni risulti talora in palese contrasto con le risultanze dell’istruttoria dibattimentale e con precise dichiarazioni degli inquirenti che hanno ricostruito per primi i capi di imputazione. Come si verifica ad esempio nei casi in cui si contestano rimborsi indebiti per spese di carburante, viaggi o iniziative di ospitalità che poi non si svolgevano neppure o non comportavano alcun onere per lo Stato.

La contrapposizione tra le prove “viste da vicino”, dalla Procura e poi dal Collegio giudicante ed una lettura del quadro probatorio “esterna al procedimento” che si  attribuisce alle difese (pag.60) merita comunque un approfondimento della natura dei reati che vengono contestati, sui quali le stesse difese avevano proposto una serie di risultanze probatorie a discarico, di cui il Tribunale di Locri non ha minimamente tenuto conto. Altri hanno già notato lo scarto tra la realtà vissuta a Riace da quanti hanno avuto modo di vivere all’interno di quell’esperienza, o vi erano andati in visita, e quanto emerge come “verità processuale” dai faldoni d’indagine che sono poi confluiti con ampi stralci nella sentenza di condanna. Non si potranno contestare qui  punto per punto le numerose affermazioni di responsabilità a carico di Mimmo Lucano, né tantomeno approfondire le posizioni degli altri coimputati, compito che tocca alle difese nella sede del giudizio di appello. Ma riteniamo utile verificare i capi di imputazione più importanti per accertare la funzione conformativa che la sentenza ha svolto, ricostruendo una “realtà nascosta” che si sarebbe celata dietro le luci dei tanti aspetti positivi del sistema di accoglienza diffusa ed integrata che si praticava a Riace. La qualificazione dei comportamenti dei singoli imputati, e di Mimmo Lucano in particolare, come reati, anche di notevole gravità, ha avuto una funzione conformativa per modificare la percezione esterna dei comportamenti esaminati dal giudice penale, ed a questa stregua, con un uso sapiente dei brani estrapolati dalle intercettazioni, affermare la responsabilità penale degli imputati.

3.3 E’ bene ricordare a questo punto la cornice normativa dei reati di abuso di ufficio e di truffa che si contestano a Mimmo Lucano con riferimento a diverse circostanze ricavate dall’ assortimento tra le risultanze documentali, le prove testimoniali e le intercettazioni ambientali. Che tuttavia non sembrano giustificare la rilevanza penale delle irregolarità amministrative che erano ben note a tutti con riferimento al sistema di accoglienza diffusa praticato a Riace, e soprattutto la successiva trasformazione di presunte irregolarità amministrative in imputazioni per abuso di ufficio e quindi in condanne per truffa aggravata.

L’art.323 del Codice Penale detta la definizione del reato di abuso di ufficio: Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio( che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità(, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità.

 L’art. 640 del Codice Penale fornisce invece la definizione di truffa : Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sè o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 51 euro a 1.032 euro”.. Componente essenziale di questo reato è dunque il fine di perseguire un “ingiusto vantaggio patrimoniale”. Ricorre l’ipotesi della truffa aggravata (art.640 bis c.p.) quando “il fatto che integra il reato è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico”.In questo caso, La pena è della reclusione da 1 a 5 anni e della multa da 309 euro a 1.549 euro. Secondo l’articolo 316 ter del Codice Penale, titolato come “indebita percezione di erogazioni  a danno dello Stato” invece, “salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’articolo 640 bis, chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee(2 è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è della reclusione da uno a quattro anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso della sua qualità o dei suoi poteri. La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni se il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000.Quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a euro 3.999,96 si applica soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da euro 5.164 a euro 25.822. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito.

Il Tribunale di Locri  condanna Mimmo Lucano per abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. per aver procurato ad una serie di associazioni un indebito vantaggio patrimoniale, in relazione alle irregolarità riguardanti le indebite rendicontazioni. Si aggiunge poi la condanna per truffa aggravata ex art. 640 bis c.p. per il conseguimento di erogazioni pubbliche, per aver fittiziamente rendicontato costi non giustificati in relazione alle regole di rendicontazione dei programmi di accoglienza. Sotto questo profilo si attribuisce all’ex sindaco di Riace l’intento soggettivo che caratterizza il reato di truffa, senza prove documentali, ma solo sulla base di una interpretazione orientata del materiale probatorio derivante dalle intercettazioni. E si riscontra anche il requisito dell’ingiusto profitto, con riferimento a spese che erano andate comunque in favore dei migranti presenti nei centri di accoglienza riacesi. Ma non si vede davvero dove risiederebbe questo ingiusto profitto, che però i giudici affermano ricorrere, pure in assenza di riscontri probatori ricavabili dalla lunghissima vicenda processuale, riportata per sommi capi nella sentenza di condanna. Le considerazioni sulla vita futura e sulle sue aspirazioni economiche e politiche non possono essere certo integrare uno strumento di prova, né corrispondono alla dimensione reale della persona Mimmo Lucano, risultando frutto di congetture inserite nella sentenza dal collegio giudicante.

Nella sentenza si opera una particolare qualificazione dei contributi pubblici che arrivavano a Riace per i centri SPRAR e CAS, in modo da contestare a Mimmo Lucano non solo il reato di truffa (art.640 c.p. ma il reato più grave di truffa aggravata ( art. 640 bis, c.p.). “per aver riportato, in violazione dell’art. 97 co. 2 Cost. nonché dell’art. 5 co. 6 d.lgs. 140/2005 e DM 30 luglio 2013 un «ingiusto vantaggio patrimoniale pari ad euro 2.300.615,00 (CAS euro 124,140)» mediante indebite rendicontazioni al Servizio Centrale del Sistema di Protezione per i richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) e alla Prefettura di Reggio Calabria (CAS) delle presenze dei migranti relative alle associazioni attive nel Comune di Riace”. Per raggiungere questo risultato si argomenta che nel caso dei progetti SPRAR si sarebbe trattato di finanziamenti. E che il Sindaco di Riace, nella qualità di responsabile dei vari progetti di accoglienza,  avrebbe posto in essere “artifici e raggiri idonei ad indurre in errore i funzionari preposti  a liquidare i vari importi” (p. 192) E non si trattava di semplici rimborsi come nel caso delle somme erogate per la gestione dei centri di accoglienza straordinaria-CAS.  Come se i trasferimenti di danaro dal Ministero o dalla Prefettura alle casse del Comune di Riace fossero avvenuti in anticipo rispetto all’esecuzione dei progetti di accoglienza, circostanza che appare smentita dai fatti. Dati i rapporti tra la Prefettura di Reggio Calabria ed il Servizio centrale del Ministero dell’interno che decidevano l’invio dei migranti da accogliere a Riace nei CAS e nei centri SPRAR, non sarebbe stato assolutamente prevedibile il numero delle persone che sarebbero state effettivamente accolte nel piccolo comune di cui era sindaco Mimmo Lucano. E dunque qualunque quantificazione preventiva delle somme dovute per i diversi sistemi di accoglienza attivi nel territorio sarebbe stata, come si verificava in effetti, smentita dal successivo arrivo di un numero di migranti superiore a quello inizialmente previsto nei progetti di accoglienza. Le erogazioni di danaro relative ai progetti di accoglienza attivi a Riace potevano invece  qualificarsi in ogni caso come rimborsi, per i tempi e le modalità di erogazione. E rimane evidente una difformità tra accuse contestate dalla Procura e contenuto della sentenza di condanna, con solo per i cd. connotati materiali, ma anche per quanto concerne il riconoscimento dell’elemento soggettivo e del grado di colpevolezza. Ma la funzione conformativa della sentenza si realizza appieno anche in questo caso, ed ai dati reali si sovrappone la valutazione penale, prontamente rilanciata dai media, che accreditano immediatamente l’affermazione che il sistema Riace non era rivolto prioritariamente all’accoglienza ed all’integrazione dei migranti ma all’arricchimento di chi lo gestiva e di Mimmo Lucano in particolare, anche se non esiste uno straccio di prova che questo arricchimento si sia effettivamente verificato.

Non si può che attribuire dunque alla sproporzione tra i migranti inviati dal Ministero tramite il Servizio centrale (SPRAR) o la prefettura (CAS) e la dimensione reale del territorio e della sua amministrazione, la crisi del modello di accoglienza diffusa che si era consolidato nel corso degli anni a Riace. Modello alternativo certo, ma che senza uno sbocco in uscita, verso centri di seconda accoglienza, di fronte ad emergenze che comportavano l’arrivo imprevisto di centinaia di persone, restava oberato ad una attività amministrativa per la quale non era evidentemente attrezzato. Da questa difficoltà, a Riace si era colta una opportunità, garantire ai migranti in accoglienza una permanenza più lunga, ed una occasione di lavoro legale. anche quando i termini di accoglienza andavano in scadenza. Da qui le disfunzioni ed i ritardi nella tenuta della banca dati che si contestano all’ex sindaco. La Prefettura ed il Servizio centrale del Ministero dell’interno già dal 2015 erano perfettamente consapevoli della situazione di Riace e della difficoltà della rendicontazione, perché era una situazione prodotta dalle loro decisioni di trasferimento massiccio dei migranti dai punti di sbarco a Riace, e non una scelta proposta o imposta da Mimmo Lucano. Ai ritardi nella rendicontazione si sommavano poi i blocchi dei finanziamenti, già a partire dal 2016, che contribuivano a determinare il definitivo fallimento gestionale del modello Riace.

3,4  Secondo l’art. 314 del codice penale (reato di peculato) “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio(1), che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità( di denaro o di altra cosa mobile altrui(, se ne appropria(, è punito con la reclusione da quattro( a dieci anni e sei mesi(.Con la riforma del 1990 (l. 26 aprile 1990, n. 86) è stata cancellata la condotta ulteriore di distrazione, ovvero la destinazione del bene a finalità diverse da quelle sottese alla ragione del possesso, al fine di evitare nella prassi distorsioni interpretative.

I giudici di Locri contestano a Mimmo Lucano questo reato per aver “distratto” ed essersi appropriato di 2 milioni di euro;  (pp. 312-17) (408-426), ma non ci sono prove delle somme che sarebbero state acquisite nella disponibilità personale di Lucano, dunque non ricorre alcuna “appropriazione”. E’ la questione del’acquisto del frantoio che veniva considerato come un perno del modello Riace, tendente alla valorizzazione del territorio ed alla integrazione degli immigrati, coinvolti in attività che potevano produrre reddito.

In realtà, come ha notato Sergio Bontempelli, “ Mimmo Lucano pensava di poter riattivare una delle più antiche e «tradizionali» attività economiche di Riace – la produzione di olio di oliva di alta qualità – valorizzando proprio la presenza dei richiedenti asilo. Voleva perciò acquistare un frantoio, e darlo in gestione a un gruppo di migranti e di cittadini riacesi: dimostrando così che accogliere persone venute da fuori poteva essere un arricchimento per tutti, anche per gli italiani. Questo era non solo assolutamente legittimo, ma persino coerente con il concetto di «accoglienza integrata» che è uno dei pilastri del programma SAI (il sistema di accoglienza gestito dai Comuni, un tempo chiamato Sprar). L’ex Sindaco di Riace ha però avuto la «colpa» di non chiedere alle autorità centrali l’autorizzazione ad avviare il frantoio: così, ha cercato di ricavare – dai soldi che arrivavano via via per la gestione dei centri di accoglienza – un po’ di «economie», cioè di risparmi da destinare al suo progetto.

Il capo di accusa per cui è scattata la condanna riguarda anche il progetto di inserimento lavorativo, la fattoria didattica, inaugurata a inizio 2018,  in cui  gli abitanti  del luogo lavoravano insieme ai migranti allevando animali e coltivando prodotti della terra con metodi equi e sostenibili.  Si tratta anche delle somme destinate all’acquisto di altri beni immobili “da destinare ad alberghi per l’accoglienza turistica», che avrebbero costituito un arricchimento personale di Lucano, «su cui egli sapeva di poter contare a fine carriera, per garantirsi una tranquillità economica che riteneva gli spettasse, sentendosi ormai stanco per quanto già realizzato in quello specifico settore, per come dallo stesso rivelato nel corso delle ambientali che sono state esaminate». In realtà si trattava di attività turistiche avviate con un mutuo di 51 mila euro erogato da Banca Etica, con il quale si èra intervenuti su case abbandonate da decenni, di proprietà di emigranti mai più tornati. Con il consenso dei proprietari, venivano rimessi a posto infissi e impianti e ospitati turisti solidali da tutto il mondo. La sentenza, inoltre, ignora sistematicamente tutti le diverse forme di liberalità erogate da privati in favore delle associazioni operanti a Riace, e in molti passaggi non distingue tra il ruolo di Mimmo Lucano sindaco e le attività delle associazioni, a partire da Città futura, che erano attive nei progetti di accoglienza ed integrazione.

I giudici contestano a Mimmo Lucano interessi privatistici che però non riescono a dimostrare, il giudizio ipotetico sul futuro vantaggio patrimoniale che si sarebbe proposto il sindaco di Riace rimane sul piano delle mere illazioni, anche a  fronte di altri elementi del compendio probatorio che gli stessi giudici non avrebbero dovuto ignorare. Secondo il collegio giudicante si trattava di risorse “che pure erano destinate a favore di quelle persone più deboli, del cui benessere e della cui integrazione, però, nessuno si interessava più, se non in forma residuale e strumentale, dal momento che un maggior numero di stranieri avrebbe comportato un aumento degli importi che lo Stato avrebbe corrisposto, cosi alimentando gli appetiti di chi poteva fare incetta di quelle somme senza alcuna forma di pudore. In buona sostanza nelle numerosissime pagine di intercettazioni e di documenti non vi è alcuna traccia dei fantomatici ‘reati di umanità’ che sono stati in più occasione evocati da più parti, in quanto le vorticose sottrazioni che sono state compiute non servivano affatto a migliorare il sistema di accoglienza e la qualità dell’integrazione, ma solo a trarre profitto nelle diverse forme esaminate che non avranno nessuna connotazione altruistica, né alcunché di edificante”.

Ancora una volta in questo passaggio argomentativo emerge la funzione conformativa della sentenza del Tribunale di Locri, nella quale si dà per scontato, anche se non se ne fornisce prova, di una “incetta” di fondi pubblici a scopi asseritamente privatistici, mentre si cancella del tutto la realtà del buon funzionamento del sistema di accoglienza Riace, anche se nell’ultimo periodo, tanto più venivano decurtati i finanziamenti ed aumentava la pressione delle indagini penali, le disfunzioni non mancavano, e progressivamente si registrava una inesorabile caduta del livello dei servizi erogati.

Per i giudici di Locri, «Domenico Lucano, dopo aver realizzato l’encomiabile progetto inclusivo dei migranti, che si traduceva nel “Modello Riace”, preso a esempio da tutto il mondo, resosi conto che gli importi elargiti dallo Stato erano più che sufficienti, piuttosto che restituire ciò che veniva versato, aveva pensato di reinvestire in forma privata gran parte delle risorse, con progetti di rivalutazione del territorio, che, oltre a costituire un trampolino di lancio per la sua visibilità politica, si sono tradotti nella realizzazione di plurimi investimenti».

Anche in questo caso non si chiarisce se questi “plurimi investimenti” abbiano recato un vantaggio patrimoniale accertato in favore di Mimmo Lucano, o non abbiano piuttosto consentito di realizzare, con tutte le peculiarità del modello Riace, gli obiettivi di accoglienza ed integrazione ai quali erano destinate le risorse pubbliche. Di certo non si vede quale “trampolino di lancio per la sua visibilità politica” sia derivata dalle iniziative di integrazione dei migranti accolti nel territorio riacese, ripopolato grazie alla loro presenza. Semmai una maggiore visibilità politica veniva prorpio dopo le attività di indagine dell’autorità giudiziaria che nel 2018 sfociavano in arresti clamorosi, poi revocati, ma quando ormai erano finiti sulle prime pagine di tutti i giornali. Nei quali non si troverà certo la notizia che Mimmo Lucano è stato assolto per quel reato, l’agevolazione dell’immigrazione clandestina, per cui erano state richieste a suo carico le misure limitative della libertà personale.

3.5  Si contesta a Mimmo Lucano il reato di falsità ideologica ex art. 479 c.p. per aver attestato falsamente di aver eseguito i controlli sui rendiconti di spesa propedeutici al rimborso dei costi sostenuti per i programmi di accoglienza dei migranti; ma i bonus sociali venivano tollerati per anni, il loro rimborso era oggetto anche di incontri con le autorità centrali, ed erano parte integrante del modello Riace, non servivano certo ad arricchire il sindaco come confermano le stesse indagini condotte dalla Guardia di Finanza.

Riteniamo davvero superfluo in questa sede, rispondere alla contestazioni fatte all’ex sindaco di Riace per la organizzazione di vari eventi culturali collegati ai progetti di integrazione in corso ed i particolare al Riace Film Festival, per cui la SIAE ha avvertito addirittura l’esigenza di costituirsi parte civile per la riscossione di tributi che lamenta di non avere incassato. Al di là delle motivazioni tecnico-giuridiche che i difensori sapranno esporre nel corso delle udienze dibattimentali, questo capo della condanna costituisce forse la prova più eclatante della cultura dei giudicanti, e dell’idea di accoglienza che sottende l’intera sentenza di condanna. Sarebbe bastato leggere le regole allora vigenti per favorire l’integrazione dei migranti accolti negli Sprar  per cogliere come  questa ed altre iniziative culturali rientravano del tutto tra le spese finanziabili. Le accuse si basano anche in questo caso su mere congetture, sul pagamento di compensi stratosferici, trascurando la circostanza che molti artisti che vi partecipavano si esibivano senza chiedere un compenso, o limitandosi a chiedere il pagamento delle spese. Stessa considerazione ed analogo rinvio all’attività dei difensori può farsi rispetto alla contestazione di avere impiegato somme dei progetti SPRAR per false prestazioni occasionali, che invece alla luce di quanto emerso nell’istruttoria dibattimentale, risultano effettivamente rese.

E’ noto a tutti come la gestione dei rifiuti sia, soprattutto in certi territori, un affare riservato ad imprenditori controllati direttamente o indirettamente dal  sistema criminale. E come le procedure a rilevanza pubblica, con il formalismo delle certificazioni richieste, non garantisce dal rischio di infiltrazioni della mafia, o, nel caso della Calabria, della ndrangheta. E questo i magistrati calabresi dovrebbero saperlo per primi. Non si vede quindi cosa possa imputarsi a Mimmo Lucano per l’affidamento del servizio di pulizia ad una ditta privata non iscritta all’Albo regionale. Sarebbe bastato tenere conto delle dimensioni del paese, delle caratteristiche dell’impianto viario e degli importi modesti che ben potevano giustificare in un territorio difficile come quello riacese l’affidamento diretto su base fiduciaria. Ed invece il Tribunale di Locri sanziona Lucano per abuso d’ufficio e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, per aver affidato in via diretta il servizio di raccolta e trasporto di rifiuti ad associazioni non iscritte nell’albo previsto dall’art. 5 L. 381/91. Anche se l’albo in questione fino al 2016 non era reso operativo, e la mancata iscrizione nell’albo provinciale non dipendeva certo dalla volontà di Mimmo Lucano.  lo stesso Lucano, che intanto aveva istituito un albo comunale, si era adoperato perché appena possibile le due cooperative affidatarie dei servizi di pulizia vi si iscrivessero. Davvero difficile in questo caso ipotizzare un intento di favorire le due cooperative, al di fuori dei margini di discrezionalità riservati per appalti di queste dimensioni alle amministrazioni locali. E a Riace, come nel resto della Calabria, piuttosto che il sindaco Lucano, sarebbe stato necessario individuare ed eliminare tutti i soggetti che negli appalti pubblici potevano qualificarsi come responsabili di “turbata libertà di scelta del contraente”.

3.6.  L’aspetto più critico della sentenza di condanna riguarda proprio la configurazione del reato di associazione a delinquere ex art. 416 c.p, che si contesta a Mimmo Lucano per essersi associato assieme ad altri alla commissione di un numero indeterminato di delitti (indebite rendicontazioni e indebiti prelievi di denaro), al fine di interferire sulla regolarità dei pagamenti relativi ai diversi programmi di accoglienza, in danno del Ministero degli Interni e dello SPRAR;  (pp. 719 e ss. della sentenza). Lucano sarebbe stato dominus indiscusso del sodalizio criminale, sostengono i giudici. Un’organizzazione “tutt’altro che rudimentale, che rispettava regole precise a cui tutti si assoggettavano, permeata dal ruolo centrale, trainante e carismatico di Lucano il quale consentiva ai partecipi da lui prescelti di entrare nel cerchio rassicurante della sua protezione associativa, per poter conseguire illeciti profitti, attraverso i sofisticati meccanismi, collaudati negli anni e che ciascuno eseguiva fornendogli in cambio sostegno elettorale”.

Secondo l’art.416 del Codice penale, ricorre il reato di associazione per delinquere quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre a sette anni. Per il solo fatto di partecipare all’associazione, la pena è della reclusione da uno a cinque anni”. La pena è aumentata se il numero degli associati è di dieci o più. Nell’associazione per delinquere l’accordo criminoso persegue il fine di realizzare un più vasto programma di azioni antigiuridiche indeterminate da compiere nell’indistinto futuro e con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, ciascuno dei quali vuole, e tale è considerato dagli altri, essere associato per dare esecuzione al progetto condiviso. Il concorso di persone nel reato è disciplinato invece dall’art. 110 c.p. che testualmente recita: “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”. Si tratta di una fattispecie assai diversa rispetto al reato di associazione per delinquere, soprattutto sotto il profilo soggettivo :per integrare il c.d. requisito soggettivo del concorso basta dimostrare una precisa volontà di cooperare nel reato.  Una persona può essere ritenuta responsabile di concorso materiale o morale nel reato se ha la coscienza e la volontà del fatto criminoso, accompagnata dalla coscienza e volontà, nonché dalla consapevolezza di concorrere con altri alla realizzazione del reato. Nel caso del reato di associazione per delinquere, invece,  per accertare l’elemento soggettivo del delitto occorre,  per un verso, che  il soggetto agisca volontariamente raffigurandosi, nel momento della commissione del fatto, il vincolo associativo e l’afferenza del suo contributo alle dinamiche criminali del gruppo, dall’altro, che agisca con la speciale intenzione di eseguire o far eseguire uno o più delitti (Trib. di Bari, sez. II, 16.07.2012, n. 1558/12, caso “Arkeon”). Sono questi gli elementi soggettivi che si dovrebbero individuare nella sentenza di condanna del processo Xenia, ricerca che appare destinata a restare priva di risultati, malgrado l’estensione delle argomentazioni addotte dal collegio giudicante.

Gli stessi giudici di Locri mettono al centro della loro sentenza di condanna le relazioni ispettive dei funzionari del Servizio centrale SPRAR, i quali ancora nel maggio del 2018 rilevavano come “i soggetti attuatori dei progetti non avevano alcun dialogo strutturato e funzionale tra loro in merito a molti spetti della gestione e presa in carico dei beneficiari”, ed ancora che “ nello specifico mancavano totalmente momenti organizzati di coordinamento, discussione e condivisione che l’Ente locale sembrava non facilitare”(pag. 82). Dalla enorme massa di intercettazioni che vengono trascritte nella parte motiva della sentenza di condanna sembra davvero difficile configurare un vvero e proprio accordo associativo stabile tra i vari componenti volto alla commissione di una pluralità di delitti. Da un duplice punto di vista, sia per la mancanza di prova di un tale accordo, che per la dubbia configurabilità delle attività poste in essere all’interno del sistema di accoglienza Riace come attività delittuose. E’ qui che la sentenza del Tribunale di Locri raggiunge il punto più alto della sua funzione performativa, in piena sintonia del resto con i tempi, se si pensa ai numerosi processi contro le Organizzazioni non governative (caso Open Arms nel marzo del 2018) nel quale analoghe contestazioni di reati associativi sono cadute davanti al giudice delle indagini preliminari.

Ma anche ammesso, e non concesso, che Mimmo Lucano fosse mosso dall’intenzione di trarre un vantaggio politico dalla gestione del “sistema Riace”, come fa il Tribunale di Locri  a fare coincidere questa finalità con gli elementi soggettivi richiesti per la configurazione di un reato di associazione per delinquere? Anche gli altri componenti dell’associazione perseguivano forse un “vantaggio politico” o altro tipo di vantaggio, coordinato con quello dell’ex sindaco. Il collegio giudicante usa il termine “profitto” senza alcun riscontro concreto, per alludere ad una serie continuata di reati tendenti a procurare vantaggi ai privati e su questo (pre)giudizio ricostruisce una catena di responsabilità che viene smentita dagli stessi atti di indagine riportati all’interno della sentenza di condanna.

La valutazione del comportamento di Mimmo Lucano da parte dei giudici del Tribunale di Locri tocca poi il suo punto più basso nelle motivazioni con cui si esclude persino il riconoscimento delle attenuanti generiche, “non essendovi alcuna traccia dei motivi di particolare valore morale o sociale per i quali egli avrebbe agito, essendo invece emerso dal contenuto delle intercettazioni che la finalità per cui egli operò per oltre un triennio non ebbe nulla a che vedere con la salvaguardia degli interessi dei migranti, della cui presenza egli tuttavia ebbe a servirsi astutamente, a mò di copertura delle sue azioni predatorie, solo allorquando furono resi noti i contenuti di questa indagine, perché fu in quel momento che ebbe la necessità di mascherare le ragioni di puro profitto per le quali ebbe realmente ad operare (per interesse proprio e degli altri correi), per come si rileva in forma inequivoca dal contenuto delle sue stesse parole emerse dalla complessiva attività tecnica”. Si esclude poi quella che avrebbe dovuto essere la prima attenuante da riconoscere al sindaco di Riace, ove pure si fosse giunti ad una diversa sentenza di condanna per reati derivanti da irregolarità amministrative, l’attenuante derivante dalla circostanza di avere agito particolari motivi morali e socialidi cui all’art. 62 n. 1 cod. pen. La funzione performativa della sentenza di condanna opera qui un vero e proprio capovolgimento della realtà, non riconoscendo che l’attività di Mimmo Lucano fosse non solo ispirata a valori etici e sociali condivisi e riconosciuti come preminenti dalla coscienza collettiva, quali l’accoglienza dei migranti ed il loro inserimento sociale, ma si fosse tradotta in risultati tangibili e documentati agli atti delle diverse autorità che si erano occupate del caso Riace, come la Corte di Cassazione ed il Consiglio di Stato.

Ancora una volta si attribuisce valore determinante alla “complessiva attività tecnica”, dunque alle intercettazioni che vengono trascritte e riportate nelle motivazioni della sentenza del Tribunale di Locri con le consuete parole evidenziate in grassetto, allo scopo di orientare il lettore nello stesso senso colpevolista che ha spinto il giudicante ad adottare la condanna. Al di là della legittimità di queste intercettazioni, tutta da verificare, si tratta di elementi suggestivi che non si basano su una effettiva consistenza dei fatti. Se i migranti non venivano tutelati era proprio la conseguenza delle decisioni della prefettura e del ministero dell’interno, che bloccavano i pagamenti e imponevano lo sgombero immediato dei cd. lungo residenti, non certo frutto di un piano preordinato del Sindaco di Riace, che già prima della condanna, anche in sede giudiziaria, oltre che a livello internazionale,  aveva ottenuto, e continua ad ottenere, il riconoscimento per il valore sociale delle attività di accoglienza realizzate per decenni nel suo comune.

4.  Conclusioni

La portata comunicativa e performativa della sentenza del Tribunale di Locri ha contribuito in modo determinante ad accreditare la tesi, ormai dominante nel senso comune  della “gente”, che identifica nell’accoglienza dei migranti un detrimento economico a danno della collettività e giova soltanto a coloro che gestiscono i centri che si arricchirebbero sulla pelle dei soggetti più vulnerabili che chiedono protezione in Italia. Se sui grandi centri di accoglienza straordinaria (CAS) e sui centri Hotspot gestiti dalle prefetture in convenzione con i privati si fosse adottata anche una minima parte dei controlli ai quali veniva sottoposto per anni il “sistema Riace”, oggi la situazione sarebbe ben diversa, e magari con le risorse sottratte all’arricchimento privato si sarebbe potuto rivitalizzare un sistema di seconda accoglienza ( oggi denominato SAI – Servizio di accoglienza ed integrazione) che dopo i decreti sicurezza del 2018 e del 2019 rimane fortemente inadeguato.

Dal momento che la sentenza di condanna di Mimmo Lucano e degli altri imputati nel processo Xenia ha avuto un tale impatto sull’opinione pubblica, è evidente che occorre reagire proprio sul terreno della comunicazione e della pubblicità egli atti del processo di appello. Esiste da tempo e va rafforzata una “scorta mediatica” che anche nel corso delle prossime udienze del processo di appello contribuirà a ribaltare punto per punto la narrazione che promana dalla sentenza del Tribunale di Locri, e che molto probabilmente sarà fatta propria dall’accusa che chiederà la conferma delle condanne. Per questo scopo, giuristi, giornalisti, cittadini solidali, dovranno impegnarsi ed essere presenti ad ogni udienza, o a seguirne comunque gli sviluppi, comunicando attraverso i propri canali quanto sta avvenendo all’interno del dibattimento. Mimmo Lucano non resterà solo ad affrontare il peso di una scelta di vita orientata all’accoglienza integrata e diffusa che molti hanno condiviso e continuano a condividere.

Comunque  si svolga il processo Xenia occorre impegnarsi perché il modello Riace possa ripartire, e già i primi segni di un nuovo corso si stanno vedendo in questi giorni. Gli immigrati non sono le vittime di chi li assiste o presta loro solidarietà, come vorrebbero fare credere i giudici di Locri, ma attori consapevoli, abbandonati o emarginati dal sistema pubblico di accoglienza ormai ridotto ad un simulacro di buone intenzioni, che li mantiene in strutture che negano i diritti fondamentali della persona, come continua a verificarsi anche in Calabria.  Quelli che vengono genericamente definiti come “ospiti” sono persone capaci di distinguere chi si schiera davvero al loro fianco, sempre e comunque, e chi invece utilizza le parole dell’odio per escluderli, oppure ricorre ad un linguaggio ipocrita per legittimare politiche e prassi che bloccano il loro arrivo ed il loro inserimento sociale, con lo scardinamento dei sistemi di accoglienza diffusa. Il loro protagonismo sarà il supporto più forte che potrà ricevere Mimmo Lucano.  Oggi Riace si ripopola e dimostra una coesione ancora più forte delle persone migranti e dei cittadini solidali che, anche durante il processo in corso, continuano a sostenere questa esperienza di accoglienza, dall’Italia e dall’estero.

da A-dif.org

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