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Reportage da Lesbo, per svelare quello che l’Europa vuole nascondere

Ciò che per primo ho visto sulla sinistra della strada, illuminato dal sole splendente, è stato un cumulo di spazzatura non definita, che a me è sembrata spazzatura e basta. Andando avanti e salendo su per la campagna del nord dell’isola di Lesvos (Lesbos) la vista poi finalmente si è aperta su una gigantesca discarica, un gigantesco cimitero che si stagliava davanti a me. Non so come me lo fossi immaginato questo posto, questo cimitero dei salvagenti, the Lifejackets graveyard, il luogo dove sono raccolte tutte le cose che restano sulla spiaggia dopo gli sbarchi. Forse dentro la mia testa aveva un ordine, una qualche forma di organizzazione che specificasse esattamente i suoi singoli elementi. Un po’ come se dentro di me avessi pensato che almeno in ultima istanza a quelle cose, a quegli effetti personali, fosse stato ritenuto doveroso e necessario da tutti conferire una qualche forma di riconoscimento, di attribuzione di valore, separandole da tutto ciò che non appartiene loro e dunque non appartiene a chi è sbarcato sulle coste di Lesbo.

Forse in questa visione ingenua non vi era la consapevolezza che molta di quella spazzatura effettivamente è stata parte del viaggio di chi è arrivato la notte dalla Turchia. Le bottiglie di plastica, i sacchetti, le taniche, i pezzi di motore e i resti dei gommoni sono stati effettivamente il viaggio. Magari non le macchine abbandonate, i pezzi di recinto, di muro e rimasugli di intonaco e calcinacci, ma le valigie e i pezzi di barca sì. Dentro di me è implosa una rabbia corrosiva nel vedere che anche in quello che rappresenta l’ultimo riposo per cose come i salvagenti, che sono appartenute a persone che hanno solcato il mare e che hanno riposto in loro fiducia e paura, non vi fosse spazio, si confondessero insieme a tutto il resto. Come se le avessi trovate senza voce. Come se perfino in quel posto, non segnalato e senza nome se non per chi li conosce, la loro esistenza si mescolasse e continuasse ad essere fusa con gli scarti di una società marginalizzante.

Ho cercato con gli occhi di identificare, isolare e distinguere i vari salvagenti, quasi fossero i rifugiati stessi, di mettere insieme i pezzi di barche e di gommoni. Cercavo le persone, cercavo di dargli quell’attenzione che in quel momento sentivo così negata da farmi salire un gigantesco groppo alla gola, da strozzarmi il respiro. In mezzo al silenzio assordante dove si sentiva soltanto il sibilo del vento e la plastica schiacciata sotto i piedi rimbombava forte dentro di me l’assoluta impotenza che provavo di fronte alla vastità di tutto quello che mi trovavo davanti. Più camminavo, più la plastica che pestavo scricchiolava sotto i miei piedi e più sentivo che in mezzo a quei cumuli di spazzatura c’era qualcosa di profondamente ingiusto. Davanti, dietro, intorno a me solo e soltanto una discarica in cui spuntavano vaghi i salvagenti colorati, di varie grandezze. Salvagenti scadenti, assolutamente inadatti a proteggere chi li indossa. Salvagenti costosi anche 100 euro che non tutti i migranti si possono permettere. Salvagenti che si confondono con tutto il resto, che muti e nascosti sono privati delle loro rivendicazioni.

Cercavo in mezzo al silenzio di sentire le grida delle persone, di immaginarmi i corpi muoversi dentro i salvagenti – che non avrei mai voluto pestare – nello sciabordio delle onde e per quanto abbia disperatamente scavato dentro di me ciò che rimaneva era soltanto uno spaventoso silenzio secco. In mezzo a tutto, persa in chissà quale nebulosa, mi sentivo sommersa, senza fiato. Eppure non abbastanza. Avrei voluto che quel posto fosse una pugnalata e invece mi trovavo a considerarla tale proprio per il fatto che non gli era concesso il diritto di esserlo. Solo con uno sguardo mirato, consapevole si potevano individuare e riconoscere singoli oggetti strazianti ed abbandonati in mezzo ai resti di gommoni, motori e pneumatici. Fra i tanti, un piccolo babbo natale assolutamente solo e un maglioncino, della taglia di un bambino, lasciato per terra.

Probabilmente non è facile conservare la memoria di un posto del genere, per il dolore che crea, per il male che fa, per il suo peso politico e per la violenza istituzionale che vi sta dietro, ma probabilmente è anche sbagliato parlare di memoria, come a cristallizzarlo in un passato, in quanto la vita che c’è dietro questi salvagenti, la vita e la volontà delle migrazioni è presente ed è adesso. Per ogni roccia che fuoriesce intorno alla costa di Skala Sikamineas la mia mente è andata a quelle logoranti immagini di barche che attraccano, di migranti in mare sbattuti sulle rocce e il fatto che non siano solo immagini idealizzate, ma realtà drammatica e costante implica necessariamente una presa di coscienza e consapevolezza su quanto stia accadendo a Lesvos, su cosa stia succedendo in questo lembo di mare che collega Turchia e Grecia.

Bisogna parlare di come la guardia costiera Turca speroni le navi con sopra i rifugiati e di come la Turchia continui ad essere considerata un “third safe country”. Dalla primavera del 2015 infatti l’arrivo dei migranti, prevalentemente nelle isole dell’Egeo, ha visto una notevole crescita e l’accordo fra Unione Europea e Turchia del 20 marzo 2016 ha reso le isole dell’Egeo delle vere e proprie prigioni a cielo aperto, dalle quali i migranti che vi arrivano, mentre prima potevano proseguire il viaggio verso la Grecia, non possono uscire a meno che non ottengano l’asilo o un trasferimento ufficiale.

Numerosi attori commerciali hanno ottenuto alti profitti fornendo infrastrutture e tecnologie per rafforzare le frontiere, ma anche per fornire servizi volti a detenere, nutrire, amministrare ed anche deportare i rifugiati. La logica neoliberista che sottende questo sistema mira a privatizzare il rafforzamento delle frontiere. Frontex, l’agenzia dell’Unione Europea che offre assistenza tecnica e coordina le operazioni di deportation ha siglato recentemente numerosi contratti con compagnie turistiche commerciali per servizi che prevalentemente consistono in trasferimenti via mare da un porto greco ad un porto turco. Secondo la commissione europea come minimo 2224 persone, le quali possono anche essere malate o ancora coinvolte nella procedura d’asilo, sono state deportate dalla Grecia verso la Turchia dal marzo 2016. E’ importante ricordare che la Turchia garantisce lo status di rifugiato soltanto ai cittadini di stati membri del consiglio d’Europa, mentre a persone provenienti da altri stati garantisce solo una protezione temporanea. Una persona deportata dalla Turchia alla Nigeria ha riportato episodi di minacce ed intimidazioni con la pistola da parte della polizia turca nel suo viaggio di deportazione.

In tutto ciò lo Stato greco, focalizzandosi prevalentemente sul controllo e la sorveglianza delle frontiere ha delegato ad attori non statali il lavoro umanitario e dal gennaio 2016 più di 80 ONG sono state attive sull’isola di Lesvos. Ciò in molti casi ha dato luogo ad un marketing dell’azione umanitaria ai fini di attrarre finanziamenti, ad esempio tramite l’uso di selfies con i rifugiati. Il corpo dei migranti è stato in questi casi posto al centro di un processo di profitto, svelando che anche nel modo di operare di alcune ONG è permeata una logica neoliberista.

Lo spettacolo agghiacciante di tutti quei salvagente ammassati uno sopra l’altro in mezzo alla spazzatura mi ha riportato negli occhi le immagini del campo di Moria, a pochi chilometri dalla più grande città di Lesvos, Mytilene, il quale costituisce un esempio terrificante, al punto da essere difficilmente esprimibile a parole per lo sgomento che lascia dentro, della marginalizzazione della questione dei flussi migratori in Europa. La capienza di questo campo è di circa 2800 persone, ma ad oggi ve ne risiedono circa 19166, il picco massimo da sempre. Ciò ha portato alla saturazione della capienza del campo ufficiale e alla graduale formazione intorno a questo di un campo informale in mezzo agli ulivi, denominato Jungle, il quale ospita 13000 dei 19166 richiedenti asilo totali. Le persone che vi risiedono versano in condizioni disumane, senza elettricità né coperte sufficienti per coprirsi, lunghissime code per ottenere cibo spesso avariato e non in quantità idonea a nutrire tutti. Proteste hanno spesso luogo, ma sono fortemente e volutamente criminalizzate. Ciò è infatti funzionale all’attuazione di politiche securitarie che violano i diritti dei rifugiati e alimentano razzismo. Lo scorso 6 gennaio un detenuto di 31 anni del pre-arrival centre, la prigione dentro Moria dove ad oggi sono detenute 92 persone con un criterio che si basa essenzialmente sulla loro nazionalità, si è impiccato. E’ stato poi riportato che il detenuto in questione viveva in totale isolamento da due settimane, nonostante la polizia fosse a conoscenza che vivesse una critica situazione di salute psicologica.

Abitare a Moria porta le persone a vivere esperienze traumatizzanti ed estremamente violente, da cui la polizia non è estranea ed un aspetto spesso non preso in considerazione, ma che invece a mio avviso costituisce un elemento fondamentale per comprendere la drammaticità di questo tipo di esperienza umana è che il limbo che si presenta alle persone che attendono una risposta dalle istituzioni sulla loro condizione può durare anni. Ho amici che sono bloccati su questa isola da più di 4 anni e ancora non sanno cosa accadrà loro, essendo dunque costretti a vivere non potendo formularsi prospettive, imprigionati in questo pezzo di Egeo. In mezzo a quei salvagenti e quel forte odore di mare, spersa nella mia sensazione di vuoto mi sono salite alla gola tutte le tensioni provate nei racconti che ho sentito e nelle immagini evocate dalle persone con cui ho parlato. Il sole e il freddo hanno cominciato a scendere sul mare rosso e arancione e ciò mi ha riportata fuori da me, di fronte a quella realtà presente e silenziosamente dolorosa. Ho guardato in alto e poi, lentamente, ho ripreso la mia via scricchiolante con un groviglio di fili che mi tiravano lo stomaco, serrandolo.

Sofia Del Vita –  giovane tirocinante in un progetto a Lesbo

da PerUnAltraCitta – La città invisibile

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Migranti in corteo sull’isola di Lesbo, la polizia usa i gas lacrimogeni

Fonti di stampa concordanti hanno riferito che alla manifestazione hanno preso parte circa 2mila persone
Gas lacrimogeni sono stati impiegati oggi dalla polizia greca sull’isola di Lesbo per respingere e disperdere i participanti a un corteo di richiedenti asilo partito dal campo profughi di Moria (video)

Fonti di stampa concordanti hanno riferito che alla manifestazione hanno preso parte circa 2mila persone, tra le quali minorenni e bambini.

I migranti hanno marciato dal campo in direzione del porto di Mytileni. All’origine della protesta una nuova legge che in Grecia renderebbe più difficile ottenere lo status di rifugiato.

da Dire- Agenzia di stampa nazionale

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