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Quella brutalità dice che la tortura è sempre di sistema

Non c’è attenuante che regga: lo stress, le proteste dei giorni precedenti, il virus. Quella che abbiamo visto è una pratica pianificata di violenza machista di massa che coinvolge decine e decine di poliziotti.

Le immagini interne al carcere di Santa Maria Capua Vetere parlano chiaro. Tutti abbiamo potuto vedere le violenze gratuite e brutali commesse da agenti di Polizia Penitenziaria su qualunque detenuto gli passasse sotto mano, finanche se su sedia a rotelle. È’ stata una rappresaglia indiscriminata, illegale, disumana che non ammette alcuna giustificazione. Non c’è attenuante che regga: lo stress, le proteste dei giorni precedenti, il virus. Quella che abbiamo visto è una pratica pianificata di violenza machista di massa che coinvolge decine e decine di poliziotti. È qualcosa che ci porta dentro l’antropologia della pena e della tortura.

Ogni difesa acritica del loro comportamento è inammissibile in uno Stato costituzionale di diritto. Ogni sottovalutazione o tentativo di circoscriverne la portata non aiuta a riportare il sistema penitenziario nell’arco della legalità. In quel video non abbiamo visto mele marce al lavoro. Erano troppo numerosi i responsabili delle violenze e non si intravedevano mele sane che provavano a riportare i colleghi alla ragionevolezza. Questo non significa che le mele sane non vi siano. Sono fortunatamente tante, lavorano in silenzio, non vomitano odio sui social, non si fanno condizionare da chi inneggia alle forze di polizia russe o brasiliane, non fanno carriera quanto meriterebbero. La quantità di poliziotti coinvolti ci porta però dentro valutazioni di tipo sistemico.

Dunque, in attesa del processo penale, proviamo a definire alcune vie di uscita da questo meccanismo di auto-esaltazione. In primo luogo vorremmo che le più alte cariche dello Stato dicano un no secco e senza eccezioni alla tortura e alla violenza istituzionale, preannunciando non solo un’indagine rapida amministrativa interna che porti a sanzioni disciplinari ma anche la volontà di costituirsi parte civile nel futuro procedimento penale. I provvedimenti del Dap di sospensione degli agenti coinvolti vanno in questa direzione. Così come le parole inequivoche della ministra della Giustizia Marta Cartabia che ha parlato di “tradimento della Costituzione” nonché “di oltraggio alla dignità della persona dei detenuti”.

In secondo luogo vorremmo che l’organizzazione penitenziaria rimetta al centro figure professionali quali educatori, assistenti sociali, animatori, mediatori, psicologi e che si riapra dappertutto il carcere alla società esterna. C’è chi per motivi economici avrebbe voluto cooptare gli educatori nel corpo di Polizia. Un errore di visione che avrebbe cambiato la fisionomia del carcere, a scapito della trasparenza e delle finalità costituzionali. Ogni occhio che arriva da fuori le mura è una forma di prevenzione dalla tentazione di maltrattamenti. Il direttore di carcere deve essere inequivocabilmente messo al vertice della gerarchia interna, senza cedere alle pressioni corporative delle organizzazioni sindacali autonome di Polizia penitenziaria. I sindacati confederali devono essere un’avanguardia democratica e mai cedere alla competizione securitaria con quelli che chiedono più taser per tutti. È necessario che si adottino linee guida nazionali su come gestire situazioni di rischio, affidandosi anche a una formazione interdisciplinare e interprofessionale.

La video-sorveglianza deve coprire tutte le aree del carcere, anche quelle oscure, come le scale o le sezioni di isolamento. I medici non devono mai sentirsi costretti dentro rapporti di tipo gerarchico con chi ha funzioni di controllo. Devono essere messi nelle condizioni di visitare in libertà e riservatezza le persone che hanno subito violenza. Infine vorremmo che vi fosse una visione costituzionale e condivisa della pena. La Costituzione non va tollerata, elusa, ridicolizzata. La Costituzione va rispettata, applicata. Sarebbe un gran bel segnale se all’indomani dell’inchiesta di Santa Maria Capua Vetere fosse adottato un nuovo regolamento di vita penitenziaria (il precedente è del 2000) ispirato ai principi di responsabilità, integrazione, normalità e rispetto della dignità umana.

Patrizio Gonnella

da il manifesto

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La “macelleria messicana” e ora “abbattere i vitelli”. Torna la tortura in Italia

Le immagini diffuse da Domani su ciò che avvenne il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e che il giudice per le indagini preliminari ha definito “una orribile mattanza” lasciano senza fiato. Vedendole e rivedendole, ho sperato che arrivassero da un luogo lontano: dalla Colombia in stato d’emergenza, da Myanmar dopo il colpo di stato. Invece, provenivano da un luogo distante neanche 200 chilometri da Roma. Come 19 anni prima a Bolzaneto, funzionari dello stato italiano hanno infierito su persone in loro custodia immaginando che quei comportamenti non sarebbero diventati pubblici o comunque confidando nell’impunità. Nel primo caso, immaginarono male ma confidarono bene.

L’impunità di Genova – Come già ricordato da Domani attraverso una serie di articoli sul ventesimo anniversario del G8 di Genova, nei confronti di persone inermi tanto alla scuola Diaz quanto nella caserma di Bolzaneto attrezzata a centro provvisorio di detenzione, venne praticata la tortura: pestaggi violentissimi (la “macelleria messicana” descritta dall’allora vicequestore di Genova Michelangelo Fournier), atti crudeli come lo spegnimento di sigarette sui corpi dei detenuti, umiliazioni degradanti. Sappiamo com’è andata a finire: col trionfo dell’impunità. Quella parola, tortura, ripetuta infinite volte nei dibattimenti giudiziari sui fatti di Genova non trovò spazio nelle sentenze perché nel codice penale ancora non era menzionata. E non sarebbe stata menzionata fino al luglio 2017 quando, grazie a un’ostinata campagna delle organizzazioni non governative, all’impegno di diversi parlamentari e a un’importante sentenza della Corte europea dei diritti umani dello stesso anno, il parlamento colmò un ritardo quasi trentennale e introdusse finalmente nell’ordinamento italiano il reato di tortura.

La legge sulla tortura – La legge non è perfetta: è ridondante e infarcita di locuzioni e aggettivi inutili come se il legislatore, dopo 28 anni e mezzo di continui ostacoli all’approvazione di un testo, si fosse arreso a votarne uno sperando che la sua ampollosità ne avrebbe reso problematica l’applicazione. Ma da allora la legge contro la tortura è stata applicata. Due processi, relativi a episodi avvenuti nelle carceri di Ferrara e San Gimignano, si sono chiusi con condanne per tortura.

Altre indagini sono in corso per presunte torture avvenute in altri istituti di pena italiani. C’è da sperare che la legge sarà applicata anche rispetto ai fatti, terribili, di Santa Maria Capua Vetere. Così lascia sperare la decisione del giudice per le indagini preliminari di disporre l’esecuzione di 52 misure cautelari, molte delle quali nei confronti di agenti della polizia penitenziaria, per vari reati tra cui, per l’appunto, torture pluriaggravate: l'”abbattimento dei vitelli”, come veniva descritta l’azione punitiva del 6 aprile 2020 nelle conversazioni tra gli agenti. Resta il fatto che c’è qualcosa, nel nostro paese, che da sole le leggi non saranno sufficienti a cambiare: stiamo assistendo, da anni, a una profonda erosione dell’idea di universalità dei diritti.

Ribadita nei comizi e amplificata praticamente ogni giorno sui social, sta diventando sempre più accreditata la pericolosa teoria che i diritti non siano innati ma si abbiano comportandosi bene. Si meritino, dunque. E poiché chi è in carcere si suppone si sia comportato male, non merita diritti, ne è automaticamente privato. Così diventa un “vitello da abbattere”.

Così accade che leader politici solidarizzino immediatamente con funzionari dello stato accusati di aver praticato torture e inequivocabilmente ripresi nell’atto di compierle. Sebbene accompagnate dal plauso dei social, si tratta di dichiarazioni irresponsabili che, oltretutto, procurano un danno enorme a tutti gli operatori delle forze di polizia che quotidianamente svolgono il loro lavoro, in condizioni spesso difficili, nel pieno rispetto dei diritti umani.

P.S. Per una drammatica coincidenza, le immagini di Santa Maria Capua Vetere sono state diffuse mentre erano da poco in rete le riprese di un brutale intervento dei carabinieri a Milano, all’alba del 27 giugno. Sebbene le ricostruzioni di quanto accaduto nei minuti precedenti siano parziali e contraddittorie, le manganellate che si vedono costituiscono comportamenti inaccettabili.

Riccardo Noury – Amnesty Italia

da il Domani

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