Habashy, nato in Egitto 52 anni fa, dove ha lasciato cinque figli che non vede e non sente da quattro anni. Non ha fatto neanche in tempo a mettere piede sul suolo italiano che è stato rinchiuso al carcere di Arghillà, a Reggio Calabria. Affetto da un tumore al quarto stadio, il migrante egiziano, condannato in via definitiva perché considerato uno scafista, è stato accolto a Riace.
di Tiziana Barillà da articolo 21
Fine pena: 7 marzo 2025. Oggi, Habashy Rashed Hassan Arafa finisce di scontare la sua pena, ma c’è una sentenza più implacabile che lo tiene ancora in prigionia: un tumore al pancreas al quarto stadio. Quando mancavano ormai una manciata di settimane alla sua liberazione, è stato scarcerato per incompatibilità con il regime detentivo: le sue condizioni di salute – ha scritto il magistrato di sorveglianza competente – sono precipitate e «non sono assolutamente compatibili con il regime detentivo». Perciò, il 24 febbraio, è stato ricoverato nel reparto di Oncologia dell’ospedale di Locri, fino al 2 marzo, quando un’ambulanza lo ha accompagnato al Villaggio globale di Riace. Ero a Riace quella sera, quando Mimmo Lucano mi ha invitata a entrare in casa per visitarlo, in una delle piccole abitazioni del Villaggio globale, al piano terra, con in sottofondo gli schiamazzi dei bambini nella piazzetta. Per Habashy quegli schiamazzi sono una piccola cura dell’anima, insieme alle carezze di Lemlem e alle visite di perfetti sconosciuti, come noi.
Giudicato colpevole del cosiddetto “articolo 12”, e cioè ritenuto uno “scafista”. Condannato in primo grado il 12 maggio 2021, in appello il 17 gennaio 2023 e in via definitiva il 2 giugno 2023, Habashy è stato incarcerato il 19 ottobre 2021. Quel giorno a Roccella Jonica si è registrato uno degli sbarchi più consistenti della rotta egiziana: 298 persone di cui oltre 100 provenienti dall’Egitto. I dati e i movimenti di questa rotta, in quegli anni, sono contenuti in “Dal mare al carcere”, il report di Alarm Phone che, insieme con Arci Porco Rosso, ha denunciato la criminalizzazione della migrazione esaminando il percorso dei cosiddetti scafisti: «La rotta egiziana – si legge nel report – collega l’Egitto alla Grecia e all’Italia meridionale». È molto lunga e richiede barche più grandi per sopravvivere alla traversata». Sono perlopiù pescherecci, enormi carcasse di legno consumate dal tempo e dall’usura, che oggi si trovano perlopiù sotto sequestro nel cosiddetto “cimitero delle imbarcazioni” al porto di Reggio Calabria, in attesa di demolizione.
L’accanimento politico contro gli “scafisti” non è una novità. Centinaia, se non migliaia di persone, in questi anni, una volta giunti in Italia dopo un viaggio infernale, hanno trovato odio e indifferenza, carcere e repressione. Accusati di essere gli artefici del loro stesso dolore, capri espiatori sacrificati per la propaganda dell’invasione e della guerra ai trafficanti.
Eppure questa “guerra agli ultimi” della destra italiana, europea e mondiale, è cominciata già trent’anni fa. Il decreto legislativo n. 286 – e cioè il Testo unico sull’’immigrazione – è del 1998, nell’era del Centrosinistra, voluto dal governo di Romano Prodi, ministro dell’Interno Giorgio Napolitano. In particolare, l’articolo 12 del Testo si sofferma sulle “disposizioni contro le immigrazioni clandestine” sanzionando chiunque «promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato». L’articolo 12 è una crepa che, nel nome della sicurezza e della disciplina, ha aperto la strada a quell’obbrobrio meglio noto come “Decreto Cutro”. Così, nell’era della Destra – quella del governo di Giorgia Meloni, ministro Matteo Piantedosi – quell’articolo 12 può costare la reclusione da 2 a 6 anni (invece che da 1 a 5) e, in caso di aggravanti, fino a 30 anni. Ad Habashy ne hanno dati 4.
Negli ultimi anni, le galere calabresi e siciliane si stanno riempiendo di fantomatici “scafisti”. Come Marjan, che sta ancora affrontando un processo; come Maysoon, che ne ha appena vinto uno. E come Habashy, nato in Egitto 52 anni fa, dove ha lasciato cinque figli che non vede e non sente da quattro anni. Non ha fatto neanche in tempo a mettere piede sul suolo italiano che è stato rinchiuso al carcere di Arghillà, a Reggio Calabria.
“Come è arrivato a Riace, Habashy?”, chiedo a Mimmo. “Perché non lo vuole nessuno”, risponde lui. Del destino di Habashy, alla fine, si è fatta carico Riace. Quella stessa Riace, assediata e combattuta, che oggi non ha più progetti di accoglienza, chiusi d’imperio e in tutta fretta e ancora non riaperti nonostante il Consiglio di Stato ne abbia definitivamente conclamato la legittimità.
Ogni mattina, la Croce verde di Siderno preleva Habashy e lo accompagna verso il supplizio della terapia, chilometri di curve e superstrada, fino al terzo piano del reparto di oncologia. Habashy parla solo in arabo. Le cose che ha da dire non sono tantissime, ne ha soprattutto una: sta male da tempo. Per i dolori lancinanti dice di aver chiesto aiuto più e più volte, ma è rimasto inascoltato. Il sistema carcerario è sempre più sordo alle richieste d’aiuto dei suoi detenuti, ma com’è possibile che in quasi quattro anni nessuno lo abbia ascoltato? Con questa domanda in tasca, l’europarlamentare di Avs Mimmo Lucano il 7 marzo andrà al carcere di Reggio Calabria per «capire come è stato possibile ignorare le richieste di aiuto di Habashy per così tanto tempo e sapere se ci sono altri detenuti nelle sue condizioni».
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