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Punire l’attivismo per controllare il dissenso. Il caso di Eddi Marcucci

Il processo imbastito dal Tribunale di Torino si è avviato per la partecipazione di Eddi alla lotta delle Ypj, ma durante lo svolgimento sparisce la questione siriana e i giudici si focalizzano unicamente sul suo attivismo politico in Italia. Le sue battaglie politiche, le sue idee, i suoi valori diventano in una volta sola i capi d’accusa e le prove indiziarie

Dobbiamo riconoscerlo, il Tribunale di Torino è stato quantomeno coerente nell’applicare una misura ereditata dal fascismo a una persona attiva proprio nel combattere il fascismo e altre derive autoritarie. Lo è stato invece meno nell’interpretare il suo ruolo: non ha giudicato un singolo evento, ma tutta la vita di Eddi. Il decreto non sanziona infatti l’offensività sociale, concreta o potenziale che sia, degli atti di Eddi, ma sembra invece risolvere il conflitto ideologico esistente tra giudicante e giudicato (ovviamente a favore del primo). In questo modo ne escono irragionevolmente mutilati diritti civili e libertà fondamentali, che invece un Tribunale avrebbe il compito di tutelare.

 

Chi ha letto le 25 pagine del decreto sostiene che è una decisione che non si basa sui fatti (agli atti ce ne sono veramente pochi e di poco conto), ma sulle idee.

 

Anche la genesi del processo lascia pochi dubbi in tal senso: avviato per la partecipazione di Eddi alle Ypj, durante lo svolgimento sparisce la questione siriana e i giudici si focalizzano unicamente sul suo attivismo politico in Italia. Ma come detto le prove fattuali scarseggiano e, per tracciare il profilo di una ragazza belligerante e socialmente pericolosa, il Tribunale ce la mette veramente tutta e sceglie di basare la sua valutazione principalmente sulle dichiarazioni della Digos. Ancora una volta dobbiamo toglierci il cappello davanti alla coerenza dei giudici di Torino, dato che anche in epoca fascista le misure di prevenzione si applicavano sulla base di semplici indizi forniti dalla polizia politica.

Poiché l’essere ritenuti pericolosi per «la sicurezza e la tranquillità pubblica» è il presupposto per applicare la sorveglianza speciale ai casi di conflittualità, in assenza di circostanze fattuali non poteva che assumere rilevanza centrale l’identità di politica di Eddi. Le sue battaglie politiche, le sue idee, i suoi valori diventano in una volta sola i capi d’accusa e le prove indiziarie.

 

E allora, come nella caccia alle streghe, il processo diventa un processo al suo modo di pensare e alla sua forma di vita, così lontana da quella che una società patriarcale vorrebbe per una donna.

 

Ma quella di prevenire reati non è l’unica funzione della sorveglianza speciale. Ve ne è una ulteriore, più intima, che ha come obiettivo quello di rieducare il soggetto e di riportarlo dentro modelli sociali più accettabili. Una sorta di pedagogia che mira ad addomesticare la persona e che si avvale di un indeterminato ed eterogeneo insieme di obblighi (c.d. obblighi accessori alla sorveglianza speciale) tutti diretti ad annichilire il sorvegliato sino ad azzerare la sua capacità di critica, a fargli accettare passivamente lo stato delle cose. Grazie alla costante minaccia di una pena più grave e al ricatto perpetuo (basti pensare alla generica prescrizione del «non dare ragione di sospetti»), si colpiscono brutalmente le relazioni, i luoghi abituali, le pratiche e le consuetudini con il fine di decostruire l’identità soggettiva.

È proprio questo l’aspetto più subdolo e invasivo della sorveglianza speciale. Mentre in una condanna al carcere la prigione è ben visibile e i giorni di detenzione calcolati previamente, qui le sbarre esistono ma non si vedono, e la loro durata è indefinita a causa dell’indelebile stigmatizzazione che ci si porta dietro una volta giudicati socialmente pericolosi.

 

Una funzione, quest’ultima, che storicamente può trovare la sua collocazione in un regime totalitario come quello fascista che si ergeva sulla repressione del dissenso, ma incompatibile con una qualsiasi società democratica.

 

Del resto è dagli anni ‘80 che la Corte europea dei diritti dell’uomo – nell’esaminare tra l’altro casi di persone sottoposte a misure di prevenzione personali appartenenti ad associazioni mafiose e non a collettivi politici! – ribadisce l’incompatibilità della legge sulla sorveglianza speciale con la legalità convenzionale, in quanto, per come è redatta, i suoi esiti applicativi non sono prevedibili e viola pertanto il principio di tassatività (si veda tra tutte la sentenza del 23/2/2017 della Grande Chambre). Prevedibilità e tassatività, come è noto, rappresentano la tutela contro le ingerenze arbitrarie della pubblica autorità nella vita delle persone e contro l’applicazione discrezionale di limitazioni alle libertà fondamentali.

Ma assumiamo per un secondo (di più proprio non ci si riesce, provateci voi!) che il processo a Eddi non sia stato un processo alle idee e tralasciamo anche i profili di illegittimità della sorveglianza speciale, in cosa consiste quest’ordine pubblico che i giudici hanno ritenuto turbato?  Non vi è un riferimento esplicito della nozione di ordine pubblico nella Costituzione, ma la Corte Costituzionale ritiene che consista nei principi fondanti il regime politico, il sistema normativo che ne è espressione e la convivenza sociale.

 

Questo non vuol dire, però, che il concetto di ordine pubblico abbia una funzione conservativa dell’entità statale e che quindi possa essere strumento di repressione del pluralismo democratico e del dissenso.

 

Al contrario, la dottrina maggioritaria ci dice che il concetto di ordine pubblico è fluido, va considerato in divenire ed è pertanto compatibile con le più radicali critiche alla società. Se questo è il significato di ordine pubblico, sembra difficile comprendere come una persona che, senza commettere alcun reato, difende l’università dall’intervento dei fascisti, che manifesta in Val di Susa contro la devastazione ambientale, che lotta per i diritti transfemministi, possa essere accusata di aver turbato la tranquillità pubblica e venire giudicata socialmente pericolosa.

Fa rabbrividire pensare che possa essere punito il mero sospetto, che esista una condizione a metà tra innocenza e colpevolezza. L’augurio è quindi che i prossimi passaggi giudiziari – se ce ne saranno – smontino la costruzione del Tribunale di Torino e che quello di Eddi non diventi un pericoloso precedente da azionare contro chi, con una penna, con un megafono o con il proprio corpo, ha il coraggio di esprimere una critica all’attuale sistema sociale e politico. Ma che, anzi, diventi l’occasione perché nella materia della prevenzione ante-delictum si ritorni ai principi garantisti del costituzionalismo moderno e che un intervento legislativo cancelli definitivamente istituti giuridici provenienti da epoche nefaste. Un augurio tanto più attuale oggi che attraversiamo una fase in cui la deriva autoritaria in materia di pubblica sicurezza è dietro l’angolo.

Tommaso Gianni

da DINAMOpress

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