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“Proroga dell’emergenza? Pretesa illusoria decidere quando finisce una guerra”

Intervista al costituzionalista e scrittore Michele Ainis: “È la più politica delle scelte. Saltata di fatto la gerarchia normativa, Figliuolo vale più di mille parlamentari”

intervista a cura di Federica Fantozzi

Professor Michele Ainis, lo stato di emergenza scade il 31 gennaio del 2022. È costituzionalmente possibile prorogarlo e nel caso con quali strumenti?

La legge del 1992 che ha inizialmente regolato la disciplina dell’emergenza non prevedeva alcun limite di durata massima. Il Governo era libero nelle sue scelte, sono state poi le novelle legislative a inserire un orizzonte temporale. Un decreto legge nel 2012 ha posto un termine di 90 giorni prorogabile al massimo per altri 60. Infine, nel 2018, il Codice della Protezione Civile ha esteso il termine a 12 mesi prorogabili di altri 12. Due anni in sostanza, ma con un’interpretazione restrittiva della norma saremmo già fuori dai tempi di proroga.

In che modo saremmo già fuori?

La norma prevede un massimo di 12 mesi di proroghe dalla prima deliberazione dello stato di emergenza. Conte lo ha dichiarato la prima volta di sei mesi, fino al 31 luglio 2020. Dunque, la validità delle successive proroghe non avrebbe dovuto estendersi oltre il 31 luglio 2021. Del resto siamo ormai alla sesta proroga. È chiaro che possiamo leggere questa norma in modo più generoso, fino a due anni complessivi che terminano il 31 gennaio 2022. Ma la morale è che è una pretesa illusoria decidere quando finisce una guerra o quando smette di eruttare un vulcano.

Significa che la proroga era inevitabile o che sarebbe meglio non fissare un termine per legge?

È un cattivo legislatore quello che mette il legislatore futuro in condizione di smentirlo. Adesso il Governo varerà un decreto legge che derogherà al precedente decreto legislativo, che è il Codice della Protezione Civile. La gerarchia delle fonti sarà rispettata. Ma sono termini scritti sull’acqua.

Rispetto alle altre proroghe, questo con la variante Omicron ancora oltre confine è uno stato di emergenza preventivo? O i presupposti per proclamarlo permangono?

Decidere cosa sia l’emergenza è la più politica delle decisioni. Come diceva il giurista tedesco Carl Schmitt: chi lo decide è sovrano. Perché nello stato di emergenza è come se l’ordinamento giuridico si ritraesse al suo interno mostrando il cuore, il fulcro del sistema.

E chi è, oggi, il sovrano?

Il Parlamento e non il Governo. L’articolo 78 della Costituzione affida la deliberazione dello stato di guerra, la più drammatica delle emergenze, al Parlamento e non all’esecutivo né al presidente della Repubblica. Sebbene il sistema legislativo, sempre più imperniato sul Governo, non sia allineato con quello costituzionale.

E difatti è il Governo che adesso prende questa decisione proiettandola nei prossimi quattro mesi. Non c’erano strumenti alternativi?

Anche l’obbligo vaccinale per determinate categorie che entra in vigore domani è proiettato nel futuro. Ripeto: sono decisioni politiche che portano con sé responsabilità politiche, di cui noi elettori saremo giudici ultimi. È stata fatta una scelta che privilegia lo stato di emergenza rispetto ad altri strumenti. Oggi comunque ci sono 20mila contagi al giorno e l’allarme Omicron. Credo che l’intenzione di Draghi sia lanciare un messaggio psicologico: nonostante il panettone e l’albero di Natale siamo ancora in situazione di pericolo e non bisogna allentare la guardia.

Non è un messaggio contraddittorio con l’idea di un Natale quasi “normale”, il super green pass, le attività aperte e il successo della campagna vaccinale?

È contraddittoria la pandemia, che va a ondate. La conseguenza è anche che nell’ordinamento si sovverte in modo rivoluzionario la normale gerarchia delle fonti del diritto: l’articolo 25 del Codice della Protezione Civile prevede che si adottino ordinanze “in deroga alle disposizioni vigenti”. Significa che ciò che dice il generale Figliuolo vale più delle decisioni di mille parlamentari.

A fine gennaio si vota per il Quirinale, con l’ipotesi che l’attuale premier possa traslocare sul Colle più alto e il rischio di un ingorgo istituzionale. Il perdurare conclamato dell’emergenza che riflessi potrà avere su queste dinamiche?

Qui si passa nel campo delle congetture, magari fallaci. Se Draghi fosse disponibile o persino intenzionato a salire sul Colle avrebbe tutto l’interesse a disegnare un quadro di normalità e non di eccezione. Non si cambia il comandante della nave in mezzo alla tempesta. Quindi, partendo da questi presupposti, il premier anteporrebbe l’interesse pubblico al suo presunto interesse personale.

A febbraio scorso il presidente Mattarella ha fatto nascere il governo di unità nazionale spiegando agli italiani che non si poteva votare in piena pandemia. E adesso che si torna a parlare di elezioni anticipate, la situazione è paragonabile?

È evidente che la proroga dello stato di emergenza contribuisce ad allontanare lo scenario del voto anticipato. Così come vi contribuisce il tema, meno alto, della pensione dei parlamentari. Ma devo dire che trovo difficile che l’esordio del prossimo presidente della Repubblica, chiunque sarà, possa coincidere con il licenziamento delle Camere. Sciogliere il Parlamento come primo atto sarebbe una decisione molto pesante da prendere.

Eppure, l’equilibrio politico sembra congelato e appeso al filo di Draghi. Lo ritiene un esito così improbabile?

Certo, se l’impasse perdurasse lo scioglimento sarebbe l’unica soluzione. Ma arrivo a un paradosso: se si volesse tenere al loro posto Mattarella, Draghi e tutto il Parlamento basterebbe non eleggere nessun presidente. Visto che quello in carica, a causa del semestre bianco, non può sciogliere le Camere.

Un accordone trasversale per votare scheda banca a raffica finché Mattarella, al centesimo scrutinio, si arrende?

È una prospettiva ovviamente surreale. Ma questa elezione si svolgerà in circostanze straordinarie e senza precedenti. In cui si naviga a vista.

da Huffpost

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