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Populismo penale e populismo politico: il diritto penale no-limits (1 parte)

Intervista a Cesare Antetomaso (Giuristi democratici)

Pubblichiamo la prima parte di una lunga intervista fatta da Serena De Bettin all’avvocato Cesare Antetomaso, membro dell’esecutivo nazionale dei Giuristi Democratici, che ruota attorno al tema del populismo penale. Questo si configura come fenomeno pericoloso, ma non certo nuovo nel nostro Paese e si connota per l’ostentazione di politiche che, in termini garantisti, si possono serenamente definire illecite.

La lunga tradizione di asservimento dello strumento penale al populismo politico, individua le sue ragioni in una crescente relazione tra il “momento populista”, la retorica securitaria e il consenso elettorale. Il “colpevolismo” dell’opinione pubblica, lo stesso populismo e “il diritto penale del nemico” sono i tre pilastri fondamentali che reggono tutto questo.

Appare chiaro, dunque, che una certa politica ha la necessità, per autoalimentarsi, di individuare il nemico pubblico e costruirvi intorno una narrazione tossica e alterata della realtà. Questo nemico pubblico è rappresentato dai movimenti sociali, dal migrante e da altri soggetti che vengono indicati come espressione diretta di marginalità: è anche per questo che esiste un piano parallelo che tende, sul piano normativo, a costruire il binomio tra immigrazione e sicurezza.

Tale introduzione ci conduce a chiederle di spiegarci, nello specifico, cosa sia il populismo penale e quale rapporto di interconnessione abbia con il populismo politico.

Tra i due fenomeni sussiste una stretta consequenzialità. È infatti evidente che un certo populismo politico si aumenta del populismo penale o, per meglio dire, di quello che abbiamo anche chiamato pan-penalismo, ovverosia la stigmatizzazione di tutte le condotte sociali che vengono viste come devianti rispetto all’ordine precostituito e dunque passibili di una pena (detentiva o pecuniaria che sia), che costituisca precedente penale per il soggetto che la compie.

È vero che questa è una tendenza che in Italia si è riproposta, ma è anche vero che da questo punto di vista abbiamo vissuto stagioni diverse, per cui mi permetto di dire che nella stagione dei grandi movimenti, in cui i partiti di massa erano diffusi capillarmente sul territorio, questo tipo di pensiero ha incontrato profonde resistenze. Per flash: le rivolte carcerarie degli anni ’70 portarono all’emanazione della legge Gozzini. Gli stessi movimenti, insieme al ruolo positivo dei partiti di massa, portarono a identificare l’idea di sicurezza non più con la carcerizzazione progressiva della società (che, purtroppo, è oggi un’idea che ispira anche “alti magistrati” del nostro Paese e che è una visione davvero inquietante), ma con la sicurezza dei diritti garantiti dalla Costituzione, per cui fondamentalmente la sicurezza era la sicurezza del lavoro sul posto del lavoro. Gli assessorati alla sicurezza, se andiamo a vedere nei nostri comuni degli anni ’70 e ’80, erano assessorati alla sicurezza sul lavoro, non altro.

Questo tipo di impostazione ha fatto sì che si cercasse di soddisfare i diritti fondamentali stabiliti dalla Carta costituzionale: l’orizzonte era quello di adempiere finalmente al dettato costituzionale con le politiche messe in campo. Questa analisi portava a vedere come nelle carceri la gran parte dei soggetti detenuti fosse proletaria o sottoproletaria, e fece capire che bisognasse intervenire a monte, attuando delle politiche del lavoro e delle politiche sociali di tipo diverso.

Adesso qualcuno potrebbe dire che questo discorso è sganciato dal tema, ma secondo me non lo è affatto, perché è a questo ragionamento che consegue la capacità di far avvertire alla maggioranza della popolazione italiana che quello che la Carta costituzionale prevede non è la certezza della pena, ma la certezza del recupero. E se noi dobbiamo tendere al recupero all’interno dei luoghi di reclusione, dobbiamo aprirli alla società esterna, mostrando che la società esterna soddisfa prioritariamente quei bisogni che non inducono o, meglio, dovrebbero cercare di dissuadere il più possibile il soggetto più vulnerabile e debole dal diventare “deviante”.

Abbiamo vissuto parecchi anni in cui si individuava unicamente questa soluzione palingenetica, ovvero la punizione dei comportamenti devianti senza intervenire sulle cause degli stessi, con un ragionamento assolutamente illogico che avveniva a valle.

Tutto sommato, senza dire che abbiamo avuto una legislazione favolosa, è bene però ricordare che la prima depenalizzazione in Italia si attua nel 1981 e, per quanto evidentemente limitata, essa indica un orizzonte ben preciso, che successivamente studiosi autorevoli come Luigi Ferrajoli e magistrati molto avveduti come Palombarini identificano con il diritto penale minimo.

E dunque vediamo che dalla metà degli anni ’70, negli anni ’80 e ’90, mentre da una parte vi è certamente il fenomeno emergenziale, dall’altro vi sono una giurisprudenza e una dottrina che si orientano privilegiando il momento del recupero e della tutela delle garanzie come il momento fondamentale del diritto penale, allineato anche al diritto convenzionale.

Detto questo, il fenomeno veramente allarmante è che, oggi più che in passato, il populismo penale,  espressione diretta del populismo politico, si alimenta di norme-manifesto, cioè di norme e previsioni punitive che nella maggior parte dei casi non troveranno mai effettiva attuazione. Sono  anche dette norme-manganello, perché sono l’esibizione della forza muscolare dello Stato che però poi non conduce a nulla. Si pensi ad esempio a multe di svariate centinaia di euro comminate nei confronti di soggetti non abbienti: verranno irrogate, costeranno allo Stato per lo svolgimento e la celebrazione di processi inutili, aggraveranno i ruoli della giustizia penale già di per sé così elefantiaca e non produrranno nulla. Fondamentalmente, sono norme che finiscono anche per ripercuotersi a danno delle vittime dei reati, che vedono anche i loro diritti pretermessi (o comunque molto pregiudicati) rispetto all’aspettativa che possono avere da una pronuncia penale.

Cosa è successo in Italia a partire dall’entrata in vigore del cd. Decreto Minniti e, successivamente, dei “decreti sicurezza” a firma Salvini?

Come ha detto il Professor Vittorio Manes, a fronte di una strada che era stata indicata chiaramente e che era quella da seguire, quella del diritto penale minimo, si è proceduto verso un diritto penale no limits, che assolve la duplice funzione di procacciamento dei consensi elettorali e di gestione dei conflitti sociali. Qui viene a compimento un disegno che parte dall’inizio degli anni ’10 di questo secolo e che, dopo le due manifestazioni romane di Uniti contro la crisi del 2010 (14 dicembre 2010 ndr) e cosiddetta degli Indignados del 2011 (15 ottobre 2011 ndr), ha visto dei processi e delle condanne che hanno suonato come un campanello d’allarme e che però, allo stesso tempo, hanno ispirato una legislazione successiva.

Non a caso, è anche il momento dal quale per lunghi anni vi è stata assenza di conflittualità sociale diffusa e anche prima di allora, nelle manifestazioni di massa – essenza  vera della democrazia e della partecipazione alla via politica e sociale del paese-, un’assenza oserei dire anche di presa di coscienza da parte della popolazione, perché effettivamente l’entità delle pene inflitte, l’indugiare molto sul concorso esterno in forma psicologica ai reati che riguardavano l’ordine pubblico, l’inquadramento del reato di devastazione e saccheggio (che nasce ed è destinato a regolare delle fattispecie che nulla hanno a che vedere con i disordini di piazza – tanto è vero che non fu mai contestato neanche negli anni dell’emergenza e del contrasto più forte alle lotte sociali, che degenerarono in fatti di violenza-): questo coacervo di interventi e arresti giurisprudenziali ha fatto sì che si cominciasse a identificare con i movimenti sociali e con il migrante i fenomeni la cui unica regolazione consisteva nella sanzione penale.

Entrano in gioco quelli che efficacemente qualcuno ha definito “decreti Minniti-Orlando-Salvini”, identificando in questo una linea di continuità innegabile per chiunque si appresti ad analizzare con un minimo di raziocinio quel complesso normativo, tra cui vi è ad esempio il Daspo, che come sappiamo viene da lontano: lo stesso acronimo identifica le attività sportive (e qui il mea culpa va un po’ generalizzato perché, quando fu destinato agli scontri fra ultras di fede calcistica differente, vi è stata una sottovalutazione degli interessi che vi sottostavano e non si è capito che le curve degli stadi sono state il laboratorio sociale nel quale vedere fino a che punto le garanzie ordinamentali potevano essere forzate per anticipare ed uscire dal giudizio penale).

Qui arriviamo al decreto Minniti-Orlando e parliamo del lato sicurezza, con il quale di fatto verifichiamo il tentativo non solo di penalizzare una condizione sociale, ma assistiamo allo snaturamento dello strumento con il quale questo fine viene perseguito. Christian Raimo credo abbia parlato efficacemente da questo punto di vista della morbida apocalisse del decoro: ecco che in nome del decoro noi abbiamo l’inserimento di fattispecie con le quali il conflitto e la marginalità sociale sono spostate fuori da un luogo che riteniamo di privilegiare, un po’ come quando si costruirono i primi outlet: un sociologo lì definì “finte città” all’interno delle quali le persone sono felici di camminare perché non si trovavano il povero o il mendicante, cioè il portato di una realtà ben diversa da quello che si vuole rappresentare.

Ovviamente con i decreti e poi con le cd. leggi Salvini, la situazione si aggrava. All’interno dei divieti di avvicinamento, ad esempio, sono ricompresi anche gli ospedali e l’intento sembra evidente: è quello di tenere tossicodipendenti e sex workers lontani dagli occhi di chi si approssima ad un pronto soccorso. Lo stesso dicasi per le fiere ed altri luoghi di questo tipo. In realtà anche lì si privano di diritti via via sempre più fondamentali, in scala crescente, alzando l’asticella, e si privano di diritti fondamentali un numero sempre maggiore di soggetti che fanno parte della nostra società e che meriterebbero altro tipo di intervento. Ovviamente non c’è solo il daspo, abbiamo visto la reintroduzione di fattispecie depenalizzate con il primo governo Prodi, come per esempio il reato di blocco di strada ordinaria che, laddove attuato in concorso (è un reato che ben di rado, oserei dire mai, si compie isolatamente), prevede pene detentive da 6 a 12 anni. Questo è il quadro curioso nel quale l’ultimo ministro dell’interno espresse solidarietà nei confronti dei pastori sardi che oggi andranno a processo esattamente con questo capo di imputazione. Si è creato un cortocircuito che però allarma solo determinate categorie di persone.

da GlobalProject

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