P. T. aveva 24 anni ed è morto il 29 settembre nel carcere di Secondigliano. Era ancora imputato, veniva da un carcere del centro-nord e a Napoli era solo in transito per sostenere il processo. Ha avuto un malore ed è stato accompagnato al Cardarelli, dove in poche ore è stato dimesso e ricondotto in cella. La mattina dopo era deceduto. Inutile la corsa all’ospedale. Sulla vicenda sono state aperte due inchieste, una dalla magistratura e una interna. Ma che si tratti di malasanità o di violenza dietro le sbarre, P.T. non doveva morire in cella. Sabato su questo giornale un ex-detenuto del carcere di Poggioreale ha denunciato pubblicamente le violenze subite in carcere: «Ci picchiavano a mani nude o con i manganelli, nei sotterranei del reparto Dx. Le guardie carcerarie sono come belve». A questo grido di allarme non è seguito nulla ma come ci spiega Dario Stefano Dell’Aquila, responsabile partenopeo di Antigone, «la magistratura può aprire un’inchiesta su singoli casi, ma il problema è la mancanza di denunce da parte dei detenuti». Le voci della violenza negli istituti di pena, e in particolare a Secondigliano e Poggioreale, arrivano continuamente sul tavolo dell’associazione, ma portare sul banco degli imputati le guardie penitenziarie è altra cosa: «C’è un codice – dice Dell’Aquila – per cui chi prende le botte alla fine se le tiene, è una cosa normale. Anche Cucchi quando è stato portato all’ospedale ha detto di essere caduto dalle scale». Un po’ pesa la paura, un po’ la rassegnazione perché come dice Ascanio Celestini «la divisa non si processa». Basta ricordare la grossa inchiesta che nel ’97 portò sul banco degli imputati una ventina di agenti, tra cui anche l’allora capo della guardie carcerarie Giardinetto, con testimonianze attendibili da parte di 10 detenuti e che si risolse con un nulla di fatto. «E c’è da dire – spiega ancora il responsabile di Antigone – che quel processo era sistemico. La verità è che il cambiamento deve avvenire attraverso riforme legislative». Un’occasione potrebbe venire dal passaggio dei medici, previsto a gennaio, dalle dipendenze della direzione carceraria a quelle dell’Asl di competenza. I medici dovrebbero accertare le condizioni di arrivo del detenuto così da preservarne l’incolumità fisica.Anche per il procuratore generale Giandomenico Lepore c’è una diffidenza dei detenuti a denunciare, soprattutto quando sono ancora in cella: «Tutte le segnalazione che ci arrivano – dice – vengono valutate con attenzione, quindi seguono la sorte di tutte le denunce. Per la maggior parte si tratta di lamentele sui trattamenti ricevuti dal giudice di sorveglianza, ma non mancano quelle sui maltrattamenti fisici». Per il procuratore insomma non ci sarebbe un’emergenza. E’ pur vero, però, che ci vorrebbe più trasparenza, soprattutto nella prime fasi di immatricolazione, quando un detenuto viene lasciato solo nelle celle di sicurezza dove può accadergli di tutto. L’isolamento resta ancora una delle prime ragioni di suicidio o di morte «accidentale».
Francesca Pilla da il manifesto
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i detenuti di poggioreale e di tante altre carceri italiane non denunciano le violenze subite da parte degli agenti penitenziari perchè sono letteralmente terrorizati. Sentono la farsa della democrazia. Capiscono che sono in un regime dittatoriale, e per questo tacciono.Uno stato veramente democratico non dovrebbe aspettare chissà quale denuncia. Sanno perfettamente che Stefano Cucchi non è solo un caso estremo ed isolato. Gaetano Di Vaio