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Di pestaggi pubblici e spazi mediatici

Nell’ultima settimana diverse città hanno reagito contro lo svolgersi di comizi elettorali da parte di partiti dichiaratamente neofascisti. Senza entrare nel merito, si tratta di partiti che, secondo la costituzione e le varie proposte di legge che ogni tanto si affacciano alle camere, dovrebbero essere messi al bando, poiché profondamente antidemocratici. C’è naturalmente di più: la presenza di fascisti dichiarati nelle strade e nelle piazze è intollerabile per l’arretramento dei diritti che essi propugnano, per l’idea stessa di ordine gerarchico che esprimono e per la violenza prevaricatrice che esercitano. Di fronte alla presenza di fascisti nel 2019, è giusto manifestare e tentare con ogni mezzo necessario di impedire queste pubbliche passerelle.

Così è successo, prima a Bologna e poi a Genova, ma anche a Firenze e Milano contro l’odio ed il razzismo espresso da Salvini, dove migliaia di corpi antifascisti in movimento sono scesi per le strade e per le piazze,  per evitare che scempi di questo tipo possano avvenire indisturbati. Per evitare che la libertà a tutti di esprimersi, oggi difesa in maniera tanto aitante da questori e dai tanti che strizzano – un giorno sì e l’altro pure – l’occhio al fascismo, si possa tradurre nell’impunità a propagandare discorsi di odio ed intolleranza.

Sono insiemi di corpi plurali e molto diversificati quelli scesi in strada, che vedono fianco a fianco attivisti dei centri sociali e dei collettivi studenteschi e universitari, partiti della sinistra extra-parlamentare e sindacalisti di base, ma anche un eccedenza pre-politica, costituita da un insieme di singolarità di varie età (giovanissimi, famiglie, anziani etc). Persone che probabilmente in una cabina elettorale non si esprimono neppure, ma sono semplicemente indignate e che agiscono e prendono il proprio spazio pubblico, stanche di subire la violenza di un discorso pubblico capace di dare attenzione solo alle avanzate delle destre.

Parliamo non solo di manifestare una presenza, sempre più invisibilizzata dalla narrativa mainstream così concentrata a tessere le lodi dell’avanzata dell’onnipresente ministro/premier ufficioso Matteo Salvini e del suo “popolo”, ma di una disponibilità a rompere coi propri corpi i dispositivi messi a difesa dei vari neofascisti dalle forze dell’ordine.

Questo è quello che è successo in varie città, migliaia di corpi sono scesi in piazza e centinaia hanno provato a rompere i cordoni e le barriere costruite a mo’ di fortezza dei reparti mobili, per cercare di occupare fisicamente gli spazi pubblici destinati alla passerella. È il rompere i confini prestabiliti, contro la cittadinanza aperta, contro la libertà di agire il dissenso, contro esecutori dell’ordine pubblico che, con la scusante della libertà di espressione, concedono sempre più spazi alle destre estreme, negandoli spesso e volentieri a chi vi si oppone.

La reazione delle forze dell’ordine è stata quella di reagire con pesanti cariche indiscriminate contro gli antifascisti, a tutela dei fascisti. Un film già visto anche a Padova lo scorso 29 marzo, quando gli agenti hanno caricato un pacifico corteo che si muoveva per impedire lo sfregio di un centro storico attraversato da qualche decina di nostalgici fascisti e anti-abortisti. Veri e propri pestaggi gratuiti e di gruppo, perpetrati da uomini corazzati contro chiunque si trovino davanti, nulla importa se sono ragazzine e ragazzini picchiati da uomini che potrebbero essere i loro padri. Anzi il punto è in parte  proprio questo: lo schiaffo educativo paternalistico, esercitato dal pater familias della patria, contro corpi che vanno disciplinati all’ordine, che devono smetterla di essere elemento di disturbo. Non violenza ma forza: seguendo George Sorel è necessario distinguere e differenziare per non confondere, chiamando violenza quella dei corpi spossessati che si muovono contro l’autoritarismo, tendendo alla distruzione dell’ordine sociale gerarchico, e forza quella perpetrata dagli agenti, espressione del comando della classe dominante che ha per oggetto l’imposizione dell’ordine.

Ma anche a Bologna e a Genova accade qualcosa di “anomalo”. La lucida azione degli agenti antisommossa, lodata in modo unificato dai vari partiti che siedono in parlamento, dalle opposizioni alle forze di governo, viene infangata da alcuni “episodi”. Se per Bologna l’episodio riguarda una signora che, da sola e disarmata, esprime il proprio sdegno verso la schiera di poliziotti posti a difesa di fascisti, che con tutta risposta viene brutalmente gettata a terra e poi rapita da questo schieramento di uomini in divisa, per Genova l’episodio ha la “fortuna” di rimanere al valore di cronaca per qualche giorno in più.

Nella pubblica mattanza perpetuata da questi macellai, con inseguimenti, pestaggi di gruppo, spranghe di ferro usate come manganelli; durante la foga, appunto, un manipolo di agenti circonda aggredisce e picchia quello che si scoprirà essere un giornalista di Repubblica, Stefano Origone. La fortuna del giornalista è stata quella di essere riconosciuto come tale dal vice-questore e, dunque, cessa la violenza di gruppo; fortuna che invece non hanno avuto molti altri manifestanti, anche egualmente incolpevoli. Ora il giornalista ha 30 giorni di prognosi, ecchimosi e segni delle manganellate su tutto il corpo, un corpo brutalizzato in nome dell’ordine pubblico, esattamente come tanti altri, ma risparmiato alla fine.

Fin da subito e nei giorni successivi, Repubblica, come altre testate nazionali, hanno condannato il pestaggio del giornalista. Tuttavia, al solito, quella a essere messa in campo non è una analisi critica di quanto successo o di quale gestione dell’ordine pubblico abbiano in testa diversi questori, spalleggiati da un Ministro dell’Interno con in testa un decreto sicurezza bis liberticida e costruito ad hoc per osteggiare ogni forma di contestazione, quanto una immediata ossessione giustizialista. Quello che viene applicato è un diritto giurisdizionale e giustizialista, derivante dal privilegio di essere una persona con una funzione socialmente riconosciuta, che in quanto tale dovrebbe essere esonerata dal braccio violento della legge. Per tutti gli altri, giovani, anziani che siano, questo diritto non vale ed anzi. Lo stesso Origone, limitandosi al ringraziamento per il poliziotto buono e alla condanna per quegli agenti, esasperati dagli “antagonisti”, che hanno evidentemente esagerato, indirettamente giustifica la gestione dell’ordine pubblico. La risposta della procura è l’apertura di due fascicoli, uno contro i manifestanti (causa dell’eccesso di violenza) e uno per quegli agenti colpevoli di aver pestato il giornalista.

È fondamentale, infatti, isolare gli otto agenti del VI Reparto Mobile di Genova-Bolzaneto, colpevoli, magari scavando nel torbido (scoprendo aspetti privati, situazioni familiari disfunzionali o anomale, preoccupazioni di vario tipo, consumi di sostanze tipo cocaina che possano psicologicamente spiegare l’anomalia), attivando un preciso processo sociologico di stigmatizzazione e di costruzione politica del mostro. La funzione politica del mostro è l’irripetibilità: se l’evento è direttamente dipendente dalle caratteristiche degli otto, la colpa è solo loro ed il sistema è incolpevole. Attraverso questo processo, appunto, viene preservata la purezza della sottile linea blu messa a difesa e tutela contro l’anarchia che altrimenti dominerebbe la società. Tuttavia se da un lato è giusto perseguire i colpevoli, dall’altro è necessario perseguire tutti gli abusi che vengono perpetrati durante le gestioni di piazze e di contestazioni e interrogarsi sul perché ci siano.

Quello che totalmente manca agli articoli dei vari giornali è una critica che si guardi attorno, ovvero che osservi come l’abuso subito dal giornalista, si sia realizzato nella stessa forma e nello stesso momento su decine e decine di corpi, o meglio di persone, esattamente incolpevoli, che semplicemente manifestano il proprio diritto di opporsi ai neofascismi questa volta e, in altre occasione, il proprio diritto ad esistere e non essere invisibilizzati e prevaricati da poteri che si muovono sempre più verso la marginalizzazione e l’esclusione di insiemi sempre più ampi di società.

Ciò che manca è una critica che sottolinei come l’abuso (la tortura) sia sistemico al mantenimento dell’ordine sociale odierno, sia ovvero funzionale allo Stato-Nazione odierno, sempre più ridotto a mero esecutore dell’ordine liberista. Il pubblico uso della forza da parte degli agenti è necessario e legalizzato, ma appunto fuoriesce da ogni concezione di giustizia. Viene legalizzato dall’avanzamento di politiche a difesa e a tutela del diritto di tortura da parte delle Stato (l’assenza del reato di tortura ad esempio, ma anche l’introduzione del TASER in tutte le nostre città) contro le soggettività che abitano la città.

Ma, al di là di questo, è necessario comprendere come non si possa e non si debba mai ridurre l’abuso ad anomalia. È forse per questo utile riprendere l’esperimento di Stanford, realizzato da Philp Zimbardo nel 1971 e raccontato nel suo libro, titolato in modo evocativo Effetto Lucifero.

Nel corso dell’esperimento sono stati selezionati 24 studenti universitari, fra 75 che risposero a un annuncio apparso su un quotidiano fra i più equilibrati, maturi e meno attratti da comportamenti devianti. Questi vennero suddivisi poi in due gruppi, agenti cautelari e detenuti; a differenziarli da un lato occhiali a specchio e divisa, dall’altro ampie tuniche, catene e un numero identificativo (il privilegio del nome era esclusivo per le guardie). Il risultato tragico fu che gli studenti hanno aderito troppo al ruolo, portando gli sperimentatori ad interrompere l’esperimento dopo soli 5 giorni: già al secondo giorno erano iniziati i primi episodi di violenza, vessatori e umilianti da parte del gruppo delle guardie sui “prigionieri” e la situazione era diventata ingestibile.

La conclusione per Zimbardo era ben chiara: le istituzioni e le organizzazioni hanno il potere di condizionare gli individui e di indurli ad adottare comportamenti violenti. Queste, infatti, hanno l’effetto di deindividualizzare, conseguenza dello stato eteronomico, ovvero dell’assenza di autonomia comportamentale, che coincide con la perdita di autoconsapevolezza e autocontrollo. Tutto questo porterebbe l’individuo a mettere in atto azioni con fortissime connotazioni negative (aggressività, crudeltà, e ingiustizia) dalle quali, in altre condizioni, lo stesso soggetto si asterrebbe, queste stesse azioni vengono indotte, premiate e valorizzate dalla stessa catena di comando, dallo spirito di gruppo e dall’addestramento ricevuto.

Le istituzioni in questione, ovvero i vari corpi delle forze dell’ordine, si fondano sulla violenza, sullo spirito di gruppo (cameratismo) e sull’omertà: tutto ciò favorisce la prevaricazione e l’abuso  sistemico. La violenza del gruppo è poi arbitrariamente e politicamente mossa contro i nemici dello Stato di turno, contro i quali ogni uso della forza pubblica è legittimato e difeso. Il problema, dunque, non sono gli otto agenti di Genova, o andando indietro nel tempo gli agenti della Diaz (è indicativo come torni sempre Bolzaneto in tutto ciò), anzi è salvifico ed assolutorio fingere che sia così: sono i processi di formazione e addestramento degli agenti ad uccidere e violentare i corpi, perché questa è la precisa funzione dell’insieme di istituzioni poliziesche dello Stato. Ad essere ridiscussa, insomma, non deve esser solo la condotta dei singoli, ma piuttosto le istituzioni stesse che permettono e legittimano tali condotte.

Ma se questa è la funzione delle istituzioni poliziesche, allora non sono da seguire le ossessioni giustizialiste del penalismo contro i singoli, ma da avviare un processo di radicale trasformazione e critica che porti ad emancipare la vita sociale dalla presenza di istituzioni prevaricatrici della vita stessa. È giusto pensare ad un abolizionismo radicale e completo, che riguardi e attraversi l’insieme di istituzioni che rispondono alla funzione repressiva dello Stato, a partire dal ri-modulamento della gestione della pubblica sicurezza, fino all’abbandono di strutture disfunzionali e criminogene come carceri e strutture di detenzione, per arrivare ad un superamento del diritto penale, oggi sempre più strumento atto a gerarchizzare e creare ordini economici di sfruttamento dei subalterni.

È da difendere e tutelare, quindi, il diritto al dissenso, alla ribellione contro uno Stato-Nazione prepotente che si avvale di precise istituzioni, che sistematicamente, attraverso l’uso monopolistico della forza, picchiano, violentano, invisibilizzano e screditano le azioni di contestazione.

Per questo non è sufficiente chiedere i numeri identificativi delle forze dell’ordine, l’introduzione del reato di tortura o la riforma delle regole di ingaggio; bisogna pretendere una trasformazione profonda dell’istituzione stessa, interrogandosi sul ruolo e sulla funzione, ripensandola radicalmente. Si tratta, dunque, di avviare anche processi culturali all’interno e all’esterno che, superando il cameratismo e il militarismo, così come il paternalismo di uno Stato padrone, sappia concepire una differente idea di gestione dell’ordine e della sicurezza pubblica, non repressiva e non arbitraria.

Insomma si tratta di abolire questo tipo di polizia e la sua funzione in seno allo Stato.

Paolo Giacon

da GlobalProject

Testi citati:

Philip G. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, Milano, 2008

George Sorel, Scritti politici. Riflessioni sulla violenza. Le illusioni del progresso. La decomposizione del marxismo, Utet, Torino, 2006

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