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“Persichetti non si può recensire”

Ovvero, dell’alleanza fra la polizia della storia e il baronato accademico

di Marco Gabbas

Molti fra i lettori sapranno già i punti fondamentali dell’affare Persichetti che è salito all’onore delle cronache nel giugno 2021. Paolo Persichetti, nato a Roma nel 1962, entrò a far parte delle Brigate rosse nel 1986. Dopo una controversa storia giudiziaria e l’aver scontato circa 15 anni di carcere, Persichetti ha riacquistato la libertà nel 2014. Da allora, è diventato un ricercatore indipendente molto attivo nello studio e nella divulgazione della storia della lotta armata in Italia. In particolare, Persichetti conduce una costante attività informativa e divulgativa attraverso il suo blog Insorgenze.net, e ha al suo attivo diversi libri. In particolare, in Esilio e castigo (Napoli: La città del sole, 2005) racconta la sua estradizione dalla Francia avvenuta nel 2002. Ha anche collaborato con Valerio Evangelisti e altri autori vari per il libro Il caso Cesare Battisti: quello che i media non dicono, (Roma: DeriveApprodi, 2009). Più di recente, nel 2017, ha pubblicato assieme a Elisa Santalena e a Marco Clementi il primo, corposo volume di una monumentale storia delle Brigate rosse, intitolato: Brigate rosse. Dalle fabbriche alla «campagna di primavera». Vol. I (Roma: DeriveApprodi, 2017).

Nella sua lunga opera di storico indipendente e divulgatore, Persichetti ha sempre proposto una visione alternativa e per certi versi scomoda della lotta armata in Italia. Citando dalla quarta di copertina dell’ultimo libro menzionato: le Br nacquero in un periodo in cui «vecchie gerarchie e consolidate autorità» venivano travolte.

Da quella crisi scaturirono nuovi movimenti portatori di inedite forme di protagonismo, di rivendicazioni e di lotte. Furono anni in cui i dimenticati e i dannati trovarono voce. Un vento di libertà s’insinuò nei varchi aperti dalle lotte operaie, proiettando sulla scena nuovi soggetti usciti da una condizione di marginalità civile e politica. Gli umili e gli oppressi trovarono così occasioni di forza, dignità e rispetto. Le strategie di rottura guadagnarono terreno sulle posizioni contestatrici e riformiste. Fallite le esperienze dei gruppi politici extraparlamentari nati nel biennio 1968-’69, la lotta armata divenne, a metà degli anni Settanta, un’opzione che conquistò larghi settori di movimento. Le Brigate rosse furono, semplicemente, parte di quel processo.

Evidentemente, l’interpretazione di Persichetti e degli altri autori si discosta dalla convinzione comune che le Br e altre simili organizzazioni fossero piccoli gruppi terroristici (composti specialmente da giovani borghesi che giocavano alla rivoluzione) che poterono agire grazie alla funesta presenza di opposti estremismi. Oltre a ciò, Persichetti è stato sempre un duro critico delle numerose tesi dietrologiche e complottistiche sulle Br, secondo le quali sarebbero state un’organizzazione «fascista», eterodiretta dal KGB o dalla CIA, che i suoi membri si sarebbero allenati in Cecoslovacchia, che Aldo Moro sarebbe stato ucciso dietro commissione di suoi compagni di partito che avrebbero avuto interesse a eliminarlo. Come Persichetti e altri autori hanno recentemente notato (v. libro di Wu Ming 1 La Q di Qomplotto, Roma: Edizioni Alegre, 2020), le fantasie del complotto nascono spesso da dei traumi psicologici irrisolti. Nel caso specifico, sembra che ci sia un problema di massa ad ammettere che le Br sono esistite e che sì, sono state semplicemente quello che sono state. Un’altra questione scomoda sulla quale Persichetti ha spesso portato l’attenzione è quella delle torture inflitte ai membri delle Br e di altre simili organizzazioni da parte delle forze dell’ordine (v. Maria Rita Prette, a cura di, Le torture affiorate, Roma, Sensibili alle foglie, 2022). Paradossalmente, col passare degli anni e a reati prescritti sono stati proprio alcuni dei responsabili di queste torture ad ammettere candidamente di averle commesse. Eppure, si assiste a un generale disinteresse e rimozione di questo tema.

Da quanto appena detto, pare evidente che Persichetti è un ricercatore e divulgatore scomodo, sia per il suo passato, sia per le tesi contro corrente che cerca di divulgare. Persichetti si è infatti trovato a dover pagare il prezzo di questa sua scomodità e autonomia di pensiero nel giugno 2021, quando è stato accusato di fare parte di una organizzazione terroristica sovversiva e gli è stato sequestrato un archivio digitale accumulato in anni e anni di paziente lavoro. Il nome, i programmi, le dichiarazioni e le azioni concrete di questa presunta organizzazione terroristica non sono mai stati espressi. Il sequestro e la denuncia contro Persichetti appaiono illegittime proprio secondo le leggi vigenti. Ma, evidentemente, i crismi della legalità sono superflui quando si tratta di perseguitare e tappare la bocca a un ricercatore scomodo.

È interessante che questa disavventura capitata a Persichetti nel 2021 sia stata preceduta da un episodio minore che mi ha visto coinvolto. Nel 2018, mentre svolgevo delle ricerche sulla sinistra extra-parlamentare per conto di una università italiana, mi capitò di leggere il volume di Santalena, Persichetti e Clementi. Dato che l’avevo trovato ottimo o ben fatto, scrissi una recensione che proposi a una rivista accademica di storia contemporanea, per la quale avevo già scritto altre recensioni, senza mai avere problemi. La mia recensione venne formalmente accettata per la pubblicazione. Solo, mi si disse, non mi si potevano dare garanzie sui tempi, a causa del grande numero di testi da pubblicare e delle rare uscite della rivista. Ciononostante, dopo due anni di attesa ritenni opportuno chiedere numi sullo stato della mia recensione. Il responsabile che avevo contattato mi scrisse candidamente che la mia recensione non sarebbe stata pubblicata, dato che c’era un veto censorio nei confronti degli autori da parte di un pezzo grosso della rivista. Contemporaneamente, avevo scritto anche al suddetto pezzo grosso, il quale mi aveva però rifilato una spiegazione diversa: la mia recensione non poteva essere pubblicata, dato che il tema del libro non era adatto alla rivista. Balla colossale: se così fosse stato, il mio testo sarebbe stato respinto subito, come solitamente avviene. Si tratta di un sotterfugio molto diffuso nel cosiddetto mondo accademico: quando si vuole censurare o rifiutare qualcosa, ma non si ha il coraggio di farlo sul merito, si tirano fuori delle scuse formali. Io risposi al pezzo grosso allegando la verità fuggita dal seno dell’altra persona. Messo alle strette, il Nostro fu costretto ad ammettere che la mia recensione non sarebbe stata pubblicata perché c’era un suo personale veto censorio nei confronti di Persichetti e Clementi, definiti dei pericolosi «fanatici» a cui bisognava tappare la bocca. Nessuna menzione fu fatta di Elisa Santalena, pure autrice del libro assieme agli altri due, non si capisce bene se perché è una donna, o perché viene ultima in ordine alfabetico. L’arroganza e il fanatismo censorio di questo baronetto accademico furono senz’altro molto istruttivi, dato che mi aprirono gli occhi sull’altisonante ipocrisia del mondo accademico. Seguendo un paradigma seguito già altre volte, mi rivolsi allora a una prestigiosa rivista statunitense, Terrorism and Political Violence. Da notare che si tratta di una rivista assolutamente “rispettabile” che si occupa di studi di sicurezza, ben lontana quindi da qualunque velleità rivoluzionaria. Fui accolto a braccia aperte e la mia recensione, in inglese, fu pubblicata in tempi rapidissimi.[1] Anzi, con tante grazie perché avevo proposto un libro in italiano, quanto di solito la rivista riceveva solo recensioni di libri in inglese.

La riflessione che voglio fare collega questa piccola censura accademica alla persecuzione poliziesco-giudiziaria subita da Persichetti, che l’ha raccontata in dettaglio nel suo ultimo libro, La polizia della storia (Roma, DeriveApprodi, 2022). Specificando i veri motivi che hanno spinto la Giustizia a sequestrare il suo archivio e a inventarsi una inesistente associazione terroristica, Persichetti sostiene che in Italia è ormai attiva una vera e propria polizia della storia, che si arroga il diritto di accusare di un vero e proprio «reato di ricerca». Questi «storici con l’uniforme» o «nuovi sbirri del passato» (p. 30) sono pronti a denunciare chiunque si azzardi a proporre narrazioni che divergono dalla vulgata comune. Anche se molto probabilmente dopo lunghi strascichi giudiziari l’assurda accusa contro Persichetti cadrà, avrà comunque sortito il suo effetto: intimidire una persona, farle perdere anni di vita e di lavoro (nonché le risorse finanziare necessarie per difendersi), esporla al pubblico ludibrio distorcendo la realtà e presentandola per quello che non è. Come scrive Persichetti nel suo ultimo libro, «la sola idea che le periferie dell’epoca potessero appostarsi sotto i Palazzi della politica e dell’economia suscita ancora negli esemplari odierni del ceto politico quegli stessi brividi che l’aristocrazia versagliese provò di fronte ai sanculotti che mettevano a ferro e fuoco l’ancien régime» (p. 205). Insomma, sembra quasi il terrore per degli avvenimenti passati si trasformi in terrore per qualcosa che potrebbe avvenire. È questa l’impressione che si ha leggendo una relazione sulla sicurezza nazionale presentata nel 2019 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e citata da Persichetti (p. 29).[2] A p. 99 di questa relazione si legge che il «Comparto intelligence» ha svolto negli ultimi anni una «attività di costante monitoraggio informativo» che ha scoperto quanto segue:

il proseguire dell’impegno divulgativo, specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili”, volto a tramandare la memoria degli “anni di piombo” e dell’esperienza delle organizzazioni combattenti. La propaganda si è in particolare rivolta, in un’ottica di proselitismo, a un uditorio giovanile, con un occhio di riguardo alla composita area dell’antagonismo di sinistra, sulle cui sensibilità risulta tarata una lettura trasversale, in chiave rivoluzionaria, dell’“antifascismo”, dell’“anti-imperialismo”, dell’“antimilitarismo” nonché delle questioni correlate al disagio sociale, dall’emergenza abitativa a quella migratoria, passando per le criticità del mondo del lavoro.

Dato che il documento è scritto con un linguaggio criptico e convoluto tipico di un certo stile poliziesco, non possiamo fare altro che cercare di interpretarlo, naturalmente rischiando di sbagliare. Questo «impegno divulgativo» e queste testimonianze di «militanti storici», quindi, farebbero parte di una vera e propria attività di «propaganda» rivolta a un «uditorio giovanile». Pare che lo scopo di questa propaganda sia quello di convincere questi giovani ad adottare strategie rivoluzionarie per affrontare le questioni del «disagio sociale», dell’«emergenza abitativa» e di quella migratoria, nonché le «criticità del mondo del lavoro». Non si dice niente di più preciso, ma tant’è.

Insomma, sembra che attorno ad autori scomodi come Santalena, Clementi e Persichetti sia necessario stringere un cordone censorio-sanitario per impedire loro di parlare. Questo cordone agisce su un duplice fronte: all’ostilità neanche tanto velata e alle vere e proprie censure dell’Accademia con la A maiuscola si sommano le azioni giudiziarie e di polizia. Questa duplice ed efficace azione non può che sortire un certo effetto. Ci si sarebbe aspettati da parte dell’Accademia ufficiale qualche protesta per la violazione della libertà di espressione subita da Persichetti, soprattutto da quelle associazioni che si occupano di storia contemporanea. Non risulta nulla di tutto ciò. Eppure, le stesse associazioni non esitano a difendere i propri colleghi quando vengono condannati, in via definitiva e sulla base di prove schiaccianti, per aver assunto come insegnante di storia una persona amica che non aveva i titoli (la persona in questione può essere messa legalmente a insegnare storia in una università italiana anche se ha una laurea in architettura anzi che in storia, come dimostra il paradossale caso di Giambattista Scirè).[3] In un caso del genere, cioè quando i propri privilegi baronali sono messi sotto attacco da elementi esterni, non si esita a rivendicare il «potere della scienza» (infusa?), cioè il diritto di poter assumere arbitrariamente chiunque senza dover giustificare la propria decisione, in barba alla Costituzione che pretende concorsi pubblici e trasparenti, basati sul merito e non sull’appartenenza a questa o quella cricca accademica (v. Giambattista Scirè, Mala università, Milano: Chiarelettere, 2021, p. 17). Evidentemente, il «potere della scienza» non va usato per difendere la pecora nera Persichetti. Che dire della radicalizzazione rivoluzionaria prospettata dai nostri apparati di sicurezza? È un’ipotesi plausibile? Non abbiamo la sfera di cristallo, ma certamente è importante tenere alta la guardia perché, quando la polizia della storia inizia a censurare, si sa dove inizia ma non dove finisce.

da Carmilla

Note:

[1] https://www.tandfonline.com/eprint/NX6ZXEJETV7IC8JEFFMD/full?target=10.1080/09546553.2021.1864972

[2] https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/wp-content/uploads/2020/03/RELAZIONE-ANNUALE-2019-4.pdf

[3] http://www.giambattistascire.it/denuncia.html

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