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Perché il processo a Julian Assange riguarda anche il nostro futuro

Nella cella di una delle più famigerate prigioni di massima sicurezza del Regno Unito, la Belmarsh prison di Londra, un uomo lotta contro alcune delle più potenti istituzioni della Terra, che da oltre un decennio lo vogliono distruggere. Le istituzioni includono il Pentagono, la Central Intelligence Agency (Cia), la National Security Agency (Nsa). Incarnano il cuore di quello che il generale Dwight D. Eisenhower, uno dei principali artefici della vittoria contro i nazisti in Europa, chiamava “il complesso militare-industriale” degli Stati Uniti e contro cui lo stesso Eisenhower, pur essendo un grande leader militare, aveva messo in guardia la sua nazione. La potenza e l’influenza di queste istituzioni si fanno sentire in ogni angolo del pianeta: decidono guerre, colpi di stato, assassini, influenzano elezioni e governi. In modo particolare quello italiano.

L’uomo detenuto a Belmarsh in compagnia di pericolosi terroristi e omicidi non è un criminale: è un giornalista. Si chiama Julian Assange. Ha fondato WikiLeaks, un’organizzazione che ha profondamente cambiato l’informazione, sfruttando le risorse della rete e violando in maniera sistematica il segreto di stato, quando questo viene usato non per proteggere la sicurezza e l’incolumità dei cittadini, ma per nascondere i crimini di stato, garantire l’impunità agli uomini delle istituzioni che li commettono e impedire all’opinione pubblica di scoprirli e chiederne conto. Assange e WikiLeaks hanno pubblicato centinaia di migliaia di documenti segreti del Pentagono, della Cia e della Nsa, che hanno fatto emergere massacri di civili, torture, scandali e pressioni politiche. Queste rivelazioni hanno innescato la furia delle autorità americane, ma in realtà nessun governo al mondo ama Assange e la sua creatura. Anche quelli finora meno colpiti dalle loro pubblicazioni li guardano comunque con sospetto, consapevoli che prima o poi il metodo WikiLeaks potrebbe attecchire anche nei loro paesi e far emergere i loro segreti. E non sono solo governi, eserciti e servizi d’intelligence a odiarli o comunque a considerarli nemici: il potere economico-finanziario, spesso a braccetto con diplomazie e 007, li teme altrettanto, perché gli affari più redditizi prosperano nella riservatezza.

È per questo che oggi la vita e la libertà di Julian Assange sono appese a un filo. Ha contro di sé un leviatano: l’intero complesso militare e d’intelligence degli Stati Uniti e una serie di governi, eserciti, servizi segreti di varie nazioni che non gli hanno perdonato le rivelazioni di WikiLeaks. L’unica protezione in cui può sperare è quella dell’opinione pubblica mondiale. Mentre scrivo è ancora rinchiuso, dall’11 aprile 2019, nella prigione di Belmarsh a Londra, nel mezzo di una pandemia. È possibile che a un certo punto venga rilasciato in attesa della decisione finale sulla sua estradizione, oppure no. Ma se le autorità americane riusciranno a vincere la battaglia legale che è in corso in Inghilterra, Assange verrà trasferito oltreoceano e chiuso per sempre, in isolamento, in una prigione di massima sicurezza, che potrebbe essere il carcere più estremo degli Stati Uniti: l’Adx Florence, in Colorado, dove si trovano criminali efferati come il signore del narcotraffico El Chapo.

Alla sua condanna seguirà poi, molto probabilmente, quella di altri giornalisti della sua organizzazione. Il caso va ben oltre la vita e la libertà del fondatore di WikiLeaks e dei suoi collaboratori: è la battaglia per un giornalismo che espone il livello più alto del potere, quello in cui si muovono diplomazie, eserciti e servizi segreti. Un livello che nelle nostre democrazie – soprattutto quelle europee – il cittadino comune spesso nemmeno percepisce come rilevante per la sua vita, perché raramente si mostra nei telegiornali e nei talk show. E perché il cittadino comune guarda al potere visibile: la politica che decide della sua pensione, della sua copertura sanitaria, della possibilità o meno di trovare un posto di lavoro. Eppure quel potere, schermato dal segreto di stato, decide eccome la sua vita. Decide, per esempio, se il suo paese passerà vent’anni a fare la guerra in Afghanistan mentre non ha le risorse per scuole e ospedali, come nel caso dell’Italia. O se un cittadino tedesco viene improvvisamente sequestrato, consegnato alla Cia, torturato e stuprato perché scambiato per un pericoloso terrorista, mentre era innocente. Oppure se un uomo possa sparire dalle vie di Milano, a mezzogiorno, proprio come nel Cile di Pinochet, rapito dalla Cia e dai servizi segreti italiani, con i responsabili che rimangono liberi come l’aria.

Su questo potere segreto il cittadino comune non ha alcun controllo, perché non ha accesso alle informazioni riservate su come opera. Per la prima volta nella storia, però, WikiLeaks ha aperto un profondo squarcio in questo potere segreto, permettendo a miliardi di persone nel mondo di accedere sistematicamente e senza restrizioni a enormi archivi di documenti classificati che rivelano come agiscono i nostri governi quando, al riparo dagli sguardi dei cittadini e dei media, preparano guerre o commettono atrocità. È esclusivamente a causa di questo lavoro che Julian Assange rischia di finire sepolto per sempre in una prigione.

Eppure, se esiste un giornalismo che merita di essere praticato, è proprio quello che rivela gli abusi del livello più alto del potere. E non esiste libertà di stampa se i giornalisti non sono liberi di scoprire e denunciare la criminalità di stato senza finire ammazzati o passare la vita in galera. Nei regimi non è possibile farlo senza andare incontro a gravissime conseguenze. Nelle società non autoritarie, invece, deve essere possibile. Per questo motivo il processo al fondatore di WikiLeaks deciderà il futuro del giornalismo nelle nostre democrazie e, in una certa misura, anche nelle dittature, perché queste ultime si sentiranno ancora più legittimate a reprimere la libertà d’informazione se l'”occidente libero” metterà in galera per sempre un giornalista che ha rivelato l’uccisione di migliaia di civili innocenti, denunciato torture e gravissime violazioni dei diritti umani.

Julian Assange e la sua organizzazione hanno fatto irruzione nella mia vita professionale oltre dieci anni fa. Da allora l’intrigo e la disruption che hanno iniettato nel mio giornalismo non sono cessati. Dal 2009 a oggi abbiamo lavorato insieme, loro per WikiLeaks, io per il mio giornale – L’Espresso e la Repubblica prima, oggi il Fatto Quotidiano -, alla pubblicazione di milioni di documenti classificati. Ho viaggiato per il mondo con i segreti della Cia e della Nsa. Assange e i suoi giornalisti mi hanno insegnato a usare la crittografia per proteggere le mie fonti. Stavo con lui a Berlino quando i suoi computer sparirono nel nulla.

Ero nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra quando lui, il suo staff, la sua compagna e il loro bambino, i suoi avvocati e visitatori venivano filmati e registrati di nascosto, e il mio telefono veniva segretamente aperto in due. In questi anni sono stata, in alcune occasioni, seguita platealmente a scopo intimidatorio, ho subìto una rapina a Roma, dove documenti molto importanti sono spariti nel nulla. Eppure nessuno mi ha mai chiuso in una prigione o anche solo interrogato o minacciato. Mai ho dovuto pagare il prezzo altissimo che sta pagando Assange: dopo aver pubblicato i documenti segreti del governo americano nel 2010, lui non ha più conosciuto la libertà.

Quello che ho visto dal 2010 a oggi, il trattamento che ha subìto, il grave decadimento della sua salute, la campagna di stampa contro la sua persona, la persecuzione giudiziaria dei giornalisti di WikiLeaks e delle loro fonti – prima fra tutte una di grande coraggio morale, Chelsea Manning – mi hanno messo addosso una profonda inquietudine. Un’inquietudine che è andata di pari passo con quella che si è fatta strada in me a mano a mano che scoprivo la criminalità e la crudeltà di stato rivelate dai file segreti di WikiLeaks. Il mio libro Il potere segreto.

Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks è un viaggio in quei documenti e nella storia di Julian Assange e della sua organizzazione attraverso quello che ho vissuto e scoperto in oltre dieci anni di lavoro. Proprio perché non ho pagato il prezzo altissimo che ha pagato Assange, mi sento in dovere di raccontarlo e denunciarlo, per contribuire a salvare lui, i giornalisti di WikiLeaks, la libertà del giornalismo di far luce negli angoli più oscuri del potere e il diritto dell’opinione pubblica di scoprire quegli angoli.

Stefania Maurizi

da il Domani

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