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Per non dimenticare i morti carbonizzati di Cizre

Per quanto tardivo, l’intervento della Cedh sui massacri di Cizre di dieci anni fa, rimette – almeno simbolicamente – il governo turco sul banco degli imputati

di Gianni Sartori

Meglio tardi che mai. In fondo son trascorsi “solo” dieci anni, mese più o meno.

Si parva licet – e scusate per l’autocitazione – ne avevo parlato in varie occasioni (v. per esempio https://csaarcadia.org/i-curdi-un-popolo-resistente/; v. anche https://www.labottegadelbarbieri.org/le-infamie-della-turchia-in-bakur-fra-il-2015-e-il-2017/ e infine https://www.panoramakurdo.it/2021/12/25/2015-2016-attacco-al-bakur-kurdistan-del-nord/).

Ora (per la precisione, il 25 maggio 2015) anche la CEDH (Corte Europea dei diritti dell’uomo) ha finalmente richiesto per via ufficiale al governo turco di fornire spiegazioni sui 137 (quelli accertati) civili curdi assassinati sotto terra (scantinati, rifugi…) nell’inverno 2015-2016 a Cizre (provincia di Şırnak). All’epoca la città curda era sotto l’occupazione dell’esercito turco e vi era stato istituito il copri-fuoco.

L’intervento della CEDH si basa su un dossier da cui risultano con evidenza sistematiche e gravi violazioni del diritto alla vita (garantito dall’articolo 2 della Convenzione dei diritti dell’uomo). Anche se il parallelo con quanto sta avvenendo a Gaza su scala industriale contro i palestinesi potrebbe apparire ingeneroso, va comunque sottolineato come anche Ankara “nel suo piccolo” abbia perpetrato reati ascrivibili alla pulizia etnica e al genocidio nei confronti dei curdi.

Infatti tra dicembre 2025 e febbraio 2016 la città di Cizre (oltre centomila abitanti) aveva subito un coprifuoco di ben 79 giorni e un’operazione militare a base di bombardamenti aerei che avevano raso al suolo interi quartieri. Con la preventiva sospensione di elettricità, acqua e comunicazioni.

Facendo precipitare la popolazione – stando alle dichiarazioni dell’Alto Commissariato ai diritti dell’uomo dell’ONU – in “condizioni apocalittiche”.

Tra gli eventi più spaventosi, il ritrovamento (7 febbraio 2016) di 137 cadaveri (bambini, giornalisti esponenti della società civile…) letteralmente carbonizzati in tre diversi rifugi sotterranei dove evidentemente tentavano di sfuggire ai bombardamenti e ai rastrellamenti. Stando alle testimonianze dei sopravvissuti, i soldati turchi avrebbero utilizzato carburante per bruciare sia persone in vita che cadaveri (oltre ai bombardamenti mirati, direttamente sui civili). Altre vittime, numerose, tra i feriti lasciati senza cure. E naturalmente molti corpi di persone decedute sotto le macerie non sono mai stati ritrovati.

Nel 2019 la CEDH non aveva accolto una prima denuncia (così come – ca va sans dire – la Corte costituzionale turca).

Tuttavia gli avvocati dei familiari delle vittime (tra cui Ramazan Demir) non si sono arresi e l’avevano riproposta a Strasburgo.

Ottenendo che la CEDH interpellasse direttamente Ankara per avere chiarimenti in merito alla responsabilità delle forze di sicurezza turche, alle misure intraprese per soccorrere i feriti (praticamente nulle nda), alla validità, imparzialità e indipendenza delle inchieste eventualmente condotte su richiesta delle famiglie (e regolarmente rifiutate nda) e alla possibilità che le operazioni di salvataggio siano stati intenzionalmente impedite.

Da parte sua la Turchia accusava le vittime di appartenenza al PKK, ma senza fornire prove.

Le aree dove erano avvenuti i massacri sono state in seguito completamente rase al suolo e sulle residue macerie la compagnia pubblica TOKI ha costruito nuovi immobili. Cancellando così ogni ulteriore prova.

 

 

 

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