Un Paese incattivito. Cupo, anziano, diffidente, senza speranza. Non è la Francia dei Gilet jaune, che molto sta facendo parlare di sé in questi giorni. E’ l’Italia di oggi, raccontata alla luce delle sue frustrazioni nell’ultimo Rapporto del Censis.
L’Italia che il 4 marzo aveva affidato la cura della sua rabbia sociale ai partiti populisti, oggi uniti in matrimonio nel governo giallo-verde, che adesso non nasconde un certo disincanto per come stanno andando le cose, a cominciare dall’andamento dell’economia (pesa lo shock per l’arretramento del Pil dopo 14 trimestri di crescita).
Complice lo «sfiorire della ripresa», monta la convinzione che gli anni a venire non saranno affatto quelli del miglioramento delle condizioni materiali di vita della stragrande maggioranza della popolazione, di quelli che maggiormente hanno pagato il prezzo della crisi nell’ultimo decennio.
Non c’è un crollo del consenso verso i partiti di governo, non ancora, ma l’idea che «anche questa volta» le aspettative su un cambio radicale di marcia del Paese possano andare deluse è già presente in una fetta larga dell’elettorato. Nessuna rivalutazione di «quello che c’era prima», beninteso. La rabbia, che nel frattempo è diventata «cattiveria», si sta tramutando in «sovranismo psichico», nella ricerca di un «sovrano autoritario» al quale affidare le sorti del Paese.
Per decenni, in Europa, le nuove generazioni hanno vissuto nella certezza che la loro vita sarebbe stata migliore di quella dei propri padri. Ora non è più così. In Italia più che altrove. Nel nostro Paese, secondo le rilevazioni del Censis, solo il 23% dei cittadini dichiara di aver migliorato la propria condizione socio-economica rispetto ai genitori, contro una media Ue del 30%.
Quasi nessuno, poi, tra le persone con un basso titolo di studio o a basso reddito pensa che il futuro possa riservare alla propria esistenza materiale qualcosa di meglio.
Un salto indietro di un secolo, almeno. L’ascensore sociale si è di nuovo bloccato, è andato in frantumi il patto sociale su cui si è retta l’Italia per oltre un sessantennio. Cala la fiducia nella politica, cresce il risentimento verso le istituzioni europee (solo il 43% degli italiani pensa che l’appartenenza alla Ue abbia fatto bene all’Italia, a fronte di una media europea del 68%), gli immigrati fanno sempre più paura (sono un problema per il 63% degli italiani).
Il dominio del capitale è entrato in una fase nuova. Se ieri i nostri problemi derivavano dal fatto che avevamo vissuto «al di sopra delle nostre possibilità», oggi la causa dei nostri mali andrebbe ricercata nella concorrenza e nell’invadenza di chi sta sotto di noi. Per il 58% degli italiani gli immigrati sottrarrebbero posti di lavoro ai connazionali e minaccerebbero la tenuta di ciò che resta del welfare state.
Coperta corta, risorse scarse, ognuno a casa propria. Il problema non è l’iniqua distribuzione della ricchezza ma la sottrazione di risorse da parte di chi entra in casa nostra «senza averne diritto».
Eppure, se in Italia i salari sono aumentati soltanto dell’1,4% dal 2007 al 2017, mentre in Francia e in Germania l’aumento è stato nello stesso periodo, rispettivamente, del 13,6 e del 20,4%, una domanda bisognerebbe porsela sullo stato delle nostre relazioni industriali, su come le stesse si siano via via modificate in questi anni.
Il Rapporto del Censis dice anche che il potere d’acquisto delle famiglie italiane è sceso del 6,3% rispetto al 2008 (in termini reali) e che negli ultimi tre anni si è allargata la forbice nei consumi tra i diversi gruppi sociali (-1,8% le famiglie operaie, +6,6% quelle degli imprenditori). Il problema è di coperta corta o di distribuzione della ricchezza?
A maggior ragione se si tiene conto di un altro squilibrio: quello tra nord e sud del Paese. Dopo la crisi, c’è stata una parte dell’Italia che ha recuperato quasi tutto il terreno perduto ed un altra che è andata ancora più indietro, che rischia spopolamento e desertificazione economica.
Squilibri sociali, squilibri territoriali. Un quadro allarmante, su cui pesa molto la condizione lavorativa dei giovani. Precarietà, sottoccupazione, part-time involontario. In dieci anni, da 236 giovani laureati occupati ogni 100 anziani si sarebbe scesi a 99. Eppure, proprio i giovani avrebbero più fiducia nel progetto di integrazione europea: il 58% dei 15-34enni e il 60% dei 15-24enni.
Luigi Pandolfi
da il manifesto
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Una società che si chiude a riccio
C’è una caratteristica dei rapporti annuali del Censis che ricorrono e che ne fanno un appuntamento attorno al quale tirare le fila, ogni dicembre che si rispetti, dello sviluppo sociale, culturale e politico italiano. E’ il ragionare, da parte di questo autorevole e potente istituto di ricerca sociale, attorno a tonalità emotive dominanti. E’ stato così con la spinta all’edonismo che ha trasformato metà dello stivale – i dorati anni Ottanta -; è stato così con la prefigurazione di un individualismo di massa e radicale, ma che affondava salde radici nel solidarismo “dal basso”. Poi è stata volta del “capitalismo molecolare”, dell’umano divenuto imprenditore di se stesso. Giù, giù fino alla società marmellata, alla crisi, al disincanto, alla paura, al rancore, al risentimento.
Questo anno è la volta del “sovranismo pischico”, espressione indicata dal Censis per indicare quel misto di solitudine, abbandono da parte della Politica, paura, di incistamento del rancore come sentimento dominante delle relazioni sociali. Non coincide con il “ritorno al nazionale” che sembra scandire i rapporti tra Italia e Europa o il complesso sistema di relazioni interstatale che si è soliti chiamare globalizzazione. Il “sovranismo psichico” ne condivide però un aspetto, la perdita di un orizzonte che scandisca una direzione di marcia verso il futuro. Siamo cioè imgabbiati in un eterno presente.
Il quadro che emerge dal Censis non è quindi scandito da chiari e scuri, ma da una tonalità decisamente cupa che impedisce immaginare un futuro diverso dalla eterna ripetizione di un presente di miseria – psichica, in primo luogo: i livelli di reddito diminuiscono significativamente ma la famiglia e le reti sociali di prossimità continuano a supplire il lento, inarrestabile ritiro dello Stato nazionale dalla scena pubblica.
Il “sovranismo pischico” coincide però anche con altro aspetto che non dovrebbe far dormire sonni tranquilli ai tecnocrati di Bruxelles, né ai nostrani “sovranisti nazionali”. La solitudine, il rancore, la paura fanno sì che economia locali, piccole “eccellenze produttive” non solo seguono sentieri di nido di ragni in solitudine per consolidarsi ed espandersi. L’internazionalizzazione made in Italy non si ferma certo per una situazione descritta come avvio di una lunga stagnazione, guardando a Oriente, ovviamente, ma anche in altre direzioni, come verso il continente africano, la Russia, l’America Latina, ma all’interno di incontri, contaminazioni con economia ben poco legali. Il rancore, scava feroce nelle anime dei capitalisti molecolari o degli imprenditori di se stessi. La ricchezza è sempre il miraggio da tradurre in realtà, perché la sicurezza – parola quasi sussurrata – è l’ambito trofeo in termini di denari, capitale, relazionalità sociali ricche. In questa dituazione, la stagnazione, la paralisi è sono prospettive fin troppo reali. Nel mondo del “sovranismo psichico”, la parte del leone la fa anche la ricerca di fama e successo, proiettando i singoli a diventar influencer, cioè ad esercitare un potere di condizionamento e di indirizzo ai comportamenti collettivi.
L’innovazione rimane sempre l’oggetto del desiderio anche nella società del rancore. La mobilitazione, più o meno totale, per raggiungere questo obiettivo continua a macerare e bruciare vite. Fnora, tuttavia, è un orizzonte che non vede un autore (partito, moivmento, imprese). Non sono certo i grillini, espressione di un liberismo regressivo, anche se si manifestano tensioni, conflitti tra chi (la Casaleggio Associati e il suo entourage) vorrebbe inboccare questa strada, aprendo una serie e profonde relazioni con i big della Rete e chi, come la costellazione di deputati e di culture imprenditoriali legate alla gestione di folks politics di piccolo cabotaggio come quelle rappresentate da Luigi di Maio.
Nella triste performance di Grillo sul transumanesimo emerge l’opzione per rompere la gabbia della gestione routinaria del governo in mome di una tecnoutopia (una distopia, in realtà) talmente confusa e respingente, che ha la smorfia e la vuotezza della maschiera indobbasata da quello che è stato considerato un divertente guitto.
Non ci sono state molte reazioni da parte del sistema politico italiano al rapporto Censis. Oppure poche parole di circostanza sulle difficoltà del momento storico. Il governo è troppo distratto da una manovra divenuta ormai disordinata sommatoria di provvedimenti che sfuggono a un disegno rigoroso e organico di intervento pubblico. I partiti di opposizione – dal Pd a Forza Italia, quest’ultima spesso oggetto polemico dei rapporti del Censis quando a Palazzo Chigi sedeva Silvio Berlusconi – si leccano ferite di sconfitte politiche più o meno recenti e provano a non restare né sommerse né salvate dal ridicolo dell’insipienza progettuale e politica.
Va detto che il Censis, con il suo indiscusso maître à penser Giuseppe De Rita, è abituato anche all’indifferenza. Ai tempi brevi, alla contingenza politica spesso privilegia la lunga durata dei fenomeni indagati. E questo del “sovranismo psichico” c’è il rischio che sia appunto uno dei fenomeni di lunga durata, che indica non solo smarrimento della società italiana, ma un fenomeno di chiusura a riccio di una realtà indicata, solo a fino a dieci anni fa, come un esempio indiscutibile di dinamismo e di capacità innovativa del capitalismo globale.
Benedetto Vecchi
da il manifesto
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