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Padova: ennesima morte in carcere

Apprendiamo con sconcerto e profonda amarezza la notizia dell’ennesima morte avvenuta in carcere: sabato notte, un detenuto di origini egiziane della Casa di reclusione di Padova si sarebbe suicidato impiccandosi alla finestra della cella. La notizia è stata divulgata dal Sappe, che in un articolo pubblicato sul quotidiano “Il Mattino” afferma che “è stata una cosa imprevedibile” e che il gesto dell’uomo “è stato un fulmine a ciel sereno, perché non c’era stato alcun segnale di un suo disagio. I poliziotti penitenziari di servizio sono subito intervenuti, ma purtroppo non c’è stato nulla da fare”.

Secondo Donato Capece, segretario generale del Sappe, “Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici”.
(http://www.ilmattino.it/primopiano/cronaca/carceri_detenuto_padova-2043416.html)

Ci chiediamo allora quale sia questa prevenzione, dato che secondo i dati dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, sono 2575 le persone morte in carcere tra il 2000 e il 2016 per suicidio o “cause naturali”. L’intero sistema carcerario fallisce nel momento in cui un cittadino muore al suo interno. Siamo di fronte a una vera e propria ecatombe.

Riteniamo la questione meritevole di approfondimento: innanzitutto perché, già troppe volte, abbiamo visto come gli agenti di polizia, per fornire una spiegazione della morte di un detenuto o di una persona in stato di fermo, ricorrano a supposte patologie pregresse, atti di autolesionismo, suicidi.
Tanto per citarne alcuni: Gianni Tonelli, segretario del Sap, a proposito della morte di Stefano Cucchi aveva affermato che
“non c’è stato nessun pestaggio, può essersi sbattuto la testa sulle sbarre da solo”, riguardo il caso Aldrovandi, aveva invece affermato di aver “applaudito convintamente” gli agenti condannati per la morte del diciottenne, che a suo parere sarebbe morto “per
l’assunzione di eroina, ketamina e alcool accompagnata da uno stato di fortissima debilitazione”.  (http://bologna.repubblica.it/cronaca/2014/04/30/news/tonelli_sap_aldrovandi-84840415/?refresh_ce)O ancora ricordiamo il caso di Giuseppe Uva, morto dopo una notte di violenti pestaggi in caserma, e le spiegazioni fornite dagli agenti alle sorelle che chiedevano ragione delle vistose lesioni sul corpo del fratello defunto: “ci hanno detto che si picchiava, che batteva la testa contro i muri e picchiava contro i mobili”; in alcune deposizioni dei militari troviamo addirittura questo passaggio: “il collega frapponeva il suo stivale tra il pavimento e la testa di Uva, per evitare che questi si facesse più male urtando contro la superficie dura del pavimento”. (Luigi Manconi, Valentina Calderone (2013). “Quando hanno aperto la cella”. Lavis (TN): ilSaggiatore)

Bisogna dunque essere molto cauti nel parlare di suicidi in carcere. In più, nel caso di Padova, il detenuto che ha tragicamente perso la vita era straniero, e purtroppo abbiamo visto più volte come le morti di cittadini stranieri siano destinate inevitabilmente a cadere in un enorme buco nero, e ad essere dimenticate. Spesso le persone di diversa nazionalità che vengono incarcerate in Italia si trovano in una condizione di isolamento totale, perché non viene consentito loro di avvisare la famiglia, per la mancanza di interpreti e di personale adeguato, per la carenza o assenza di legami familiari e reti parentali che possano vigilare sulla loro condizione.

Lo “straniero” è sempre il capro espiatorio prediletto nel processo di individuazione del nemico pubblico, rafforzato dagli agenti di polizia e dalle loro sempre torbide dichiarazioni, colui che (insieme ad altre categorie sociali percepite negativamente dalla comunità, esempio quella del “tossicodipendente”) viene escluso dalla comunità mediante l’attribuzione di connotati negativi, e concepito come nemico, come una cosa giunta a turbare l’ordine costituito e quindi meritevole di essere eliminata. Per questo è necessario fare chiarezza sulle morti in carcere, quel grande buco nero dove troppo spesso chi ci entra non ne esce vivo.

Negli ultimi 20 anni – continua il sig. Capece – le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 18mila tentati suicidi ed impedito che quasi 133mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”.
Forse dimentica che le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria sono gli stessi che non si fanno scrupoli a picchiare, torturare, uccidere. Gli stessi che, ragionando secondo una logica da branco, si coprono a vicenda quando si tratta di commettere abusi, anche quando “ci scappa il morto”.
D’altronde ricordiamo il Sappe per aver querelato Ilaria Cucchi, e la figura del segretario Donato Capece per aver sostenuto che il corpo martoriato di Stefano Cucchi presentava esclusivamente “i classici segni del livor mortis”, e che la proposta di intitolare una strada di Roma a Cucchi era “una proposta demagogica e stumentale”.
( http://www.huffingtonpost.it/2014/11/03/sap-cucchi-caino-non-ha-piu-diritti-di-abele_n_6092020.html)

Segnaliamo inoltre che, stando al rapporto di Antigone, all’interno del carcere di Padova è stata rilevata una forte carenza di mediatori culturali legata al numero di nazionalità presenti, e che dall’insediamento della nuova Giunta guidata dal sindaco Bitonci sono state tagliate tutte le collaborazioni e i finanziamenti a progetti con l’amministrazione penitenziaria.

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