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Omicidio Tenni: Chiesta l’archiviazione per il carabiniere che sparò

Chiesta l’archiviazione per il carabiniere che il 9 aprile 2021 ha sparato, uccidendo il 44enne Matteo Tenni a Pilcante frazione di Ala in provincia di Trento.

“Coglione fermati” “Non si ferma sto bastardo” “Matto, sei un matto” “Schiantati, schiantati” “Dovevo sparargli prima

Condite di bestemmie ed altre imprecazioni, sono le parole urlate da uno dei due carabinieri in auto all’inseguimento di Matteo Tenni, registrate dalla bodycam, riportate nei fascicoli dell’inchiesta della procura e rese pubbliche da alcuni giornali. Era il 9 aprile, MatteoTenni non si era fermato ad un posto di blocco. Intercettato una prima volta era riuscito ripartire sempre inseguito, fino al cortile di casa. Qui si era scagliato contro l’auto dei militi brandendo una accetta.

Il carabiniere urlante spara, un unico colpo: Matteo Tenni muore dissanguato in pochissimi minuti sotto gli occhi della madre terrorizzata.

A distanza di sei mesi la Procura ha chiuso le indagini chiedendo l’archiviazione: fatale incidente, nessuna responsabilità di alcuno, nessun reato.

La cosa non stupisce affatto, da sempre quando lo Stato deve giudicare i suoi sottoposti, grandi o piccoli siano, la magistratura è capace di incredibili acrobazie di ogni genere per confezionare nuove verità e sentenziare come giustizia una palese ingiustizia.

Genova 2001. Il carabiniere spara in aria, è il sasso che devia il proiettile che uccide Carlo Giuliani.

Napoli 2014. È il malaugurato inciampo del carabiniere che fa sì che dalla sua pistola parta la pallottola che colpisce alla schiena Davide Bifolco, morto a soli 17 anni.

Genova 2018. Come subito urlato dal ministro degli interni ancora prima di qualsiasi indagine, sei pallottole conficcate nel corpo di Jefferson Tomalà sono corretta, legittima risposta dello Stato ad un ragazzo in stato di alterazione psichica, barricato nella sua stanza con un piccolo coltello in mano e già accecato dallo spray al peperoncino. Anche lui ucciso sotto gli occhi della madre che, disperata, aveva invocato ben altro aiuto.

Ma tornando ai fatti di Ala, Il carabiniere ha sì sparato verso terra (con buona pace di tutti i film che abbiamo.visto dove il classico colpo di avvertimento è sempre in aria), ma per la più imprevedibile e sciagurata avversità il proiettile non solo è rimbalzato, ma Matteo Tenni.con un intempestivo movimento gli è andato incontro. Queste le acrobatiche conclusioni della procura che ha ritenuto influente qualsiasi altro fattore.

Ininfluente lo stato di agitazione e rabbia del carabiniere, dimostrato inequivocabilmente dalle registrazioni, che mette in dubbio la sua capacità di controllo.

Ininfluente quel “dovevo sparargli prima”, prima dell’accetta quindi?

Ininfluente la testimonianza della mamma.

Ininfluente il tessuto sociale dove tutto è avvenuto. Un piccolo paese dove tutti conoscono tutti e tutti conoscevano Matteo Tenni e i suoi grandi problemi, comprese le forze dell’ordine, ma nessuno lo temeva ed escludeva. Altri scatti d’ira c’erano stati, ma anche chi con intelligenza ed umanità li aveva risolti in ben altro modo.

Ma c’è dell’altro. È ripartito su molti giornali il vecchio ritornello che le vittime sarebbero due: Matteo Tenni, disteso in una pozza di sangue, ma anche il carabiniere che deve portarsi per tutta la vita il pensiero di aver ucciso un uomo, o meglio di essere stato costretto, questo gli certifica la procura sollevandolo dal suo presunto, tremendo peso.

Una equiparazione indegna, la sola cosa vera che le vittime sono effettivamente due, ma la seconda è la madre..Una madre che non potrà mai cancellare quelle terrificanti immagini, gli ultimi minuti di vita di suo figlio.

Sappiamo che con il suo avvocato ha presentato ricorso contro l’archiviazione. Non crediamo.alla giustizia di Stato, dubitiamo si possa arrivare ad altro verdetto, ma questo non significa affatto che non siamo concretamente vicini a lei in ogni sua iniziativa. La sua battaglia per la verità, anche se non sarà di un tribunale, è importantissima. L’unico modo per aiutarla a convivere con quei terrificanti, incancellabili flashback, ma perché succeda dev’essere la battaglia di tutti noi, la verità di una madre deve diventare la verità di tutti noi.

Possono archiviare, non silenziare.

Ma essere parte della battaglia di questa madre implica essere ben consci che quanto è successo ad Ala è l’ennesimo delitto di una politica di potere e controllo che ha sì i suoi esecutori materiali, ma è forte per quanto e come viene alimentata.

Alimentata da demenziali ideologie, da retoriche populiste di sola facile, truce propaganda elettorale,

da ossessive campagne di falsi allarmismi, vero terrorismo mediatico.

Carlo il terrorista, Davide il ladro, Jefferson lo straniero, Matteo il pazzo.

Sono le terribili etichette incollate sulla pelle delle quattro vittime da giornalai e mestieranti della politica. Etichette grazie alle quali buona parte dell’opinione pubblica assolve e si autoassolve..Come se i quattro giovani morti fossero, in quanto “non conformi”, quattro nemici in meno di una guerra non dichiarata, ma intrinseca ad un modello di società sempre più pregno di odio razziale e di odio classista.

Atroce già il solo doverlo scrivere.

E cosi un tizio qualsiasi può proclamarsi sceriffo, girare armato ed uccidere un uomo reo di essere un emarginato che turba la tranquilla movida rurale di un piccolo borgo. (Voghera lo scorso luglio).

Chissà quali rimbalzi ed inciampi a fine inchiesta.

E così un altro tizio (Ercolano pochi giorni fa), si sente in diritto e dovere di sparare ed uccidere due ragazzi credendoli ladri, con la consapevolezza che se ci ha visto bene è dalla parte del giusto, dalla parte della legge. Prima ancora della pistola è questa sua consapevolezza la vera arma del delitto. Una consapevolezza suggeritagli e inculcatagli, non è certo lui il solo colpevole.

“Sicurtà” è parola di moda in questi tempi, ma ha assunto significato ben diverso a quanto riportato dal dizionario.

Oggi significa false paure indotte, guerra tra poveri, maniacale controllo della vita di ognuno (guardie e guardiani, telecamere droni … e greenpass), diffidenza, delazione, significa gentrificazione: quartieri trasformati in lussuosi fortini ed altri in miseri ghetti

Significa emarginazione ed esclusione.

Significa morte.

Significa essere sull’orlo di un precipizio.

Che per ora ci cadano solo i più deboli, i cosiddetti diversi o i terribilmente sfortunati come i due studenti campani, è solo questione di tempo.

Il precipizio non fa alcuna distinzione.

Ribellarsi non è giusto, è vitale

Stefanocircolo cabana

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Nessuno ha cercato di salvare Matteo Tenni

Pilcante è una frazione di Ala, in provincia di Trento, che si trova a 150 metri sul livello del mare e conta circa 554 abitanti. Tutti si conoscono tra loro. Come le località che sorgono alla destra dell’Adige – si legge su una guida trentina – Pilcante “gode del primo sole sin dal mattino presto”.

In una casa lungo la stradale che porta al paese, vivevano un uomo di 44 anni, Matteo Tenni, e sua madre di 80, Annamaria Cavagna. Matteo era molto conosciuto in paese: “A volte capitava che entrasse in redazione per raccontarci le sue vicissitudini, condivideva con noi preoccupazioni e paranoie e poi correva via”, così si legge in alcuni giornali locali. A vent’anni aveva avuto le prime crisi: poi, progressivamente, la malattia mentale lo aveva reso irrequieto e chiuso in se stesso.

Il 9 aprile del 2021, Tenni, in macchina, non si fermò a un posto di blocco e proseguì verso casa, inseguito dai carabinieri. “In quei giorni Matteo era particolarmente agitato – racconterà la madre – aveva fatto a botte ed era stato al Pronto Soccorso. Chiamai anche il maresciallo, chiedevo che fosse ricoverato, ma non ho avuto alcun aiuto”.

I militari superano in auto il cancello della casa e raggiungono Tenni in garage e, a quel punto – secondo la ricostruzione degli inquirenti – l’uomo sarebbe uscito con un’accetta in mano aggredendo la pattuglia. Fuori dalla macchina, uno dei due carabinieri avrebbe impugnato l’arma e fatto fuoco, colpendo Tenni alla gamba e provocando una lacerazione dell’arteria femorale e, subito dopo, la morte.

La madre, Annamaria, era in casa, affacciata al balcone. “Se chiudo gli occhi vedo tutto. La pistola che si alza e mio figlio che cade a terra, come un sacco”. Così dirà a Donatello Baldo, il cronista che più si è occupato della vicenda. La donna, unica testimone, ha sempre affermato che il figlio si è avventato con l’accetta contro la macchina vuota e non contro i carabinieri, che erano già fuori dal veicolo.

La Procura della Repubblica aveva aperto un’indagine per omicidio preterintenzionale a carico del carabiniere che aveva sparato, ma, in questi giorni, la PM di Rovereto ha presentato la richiesta di archiviazione: il proiettile esploso dal militare era indirizzato verso il basso e avrebbe colpito l’uomo a seguito di un suo movimento. Quindi, sostengono gli inquirenti, è stato un incidente.

Nel fascicolo che riassume la dinamica della morte di Tenni ci sono le trascrizioni delle registrazioni delle bodycam attivate dai carabinieri durante l’inseguimento: “Dovevo sparargli, dovevo sparagli prima”, dice uno dei due all’altro;  “Matteo sei un matto. Schiantati, schiantati” e ancora: “Cazzone fermati”. In altre parole, un’animosità particolare e una inspiegabile aggressività nei confronti di una persona del quale tutti, carabinieri compresi, conoscevano la fragilità psichica.

La madre non crede all’incidente e vorrebbe un processo e un dibattimento per accertare la verità dei fatti. Ha il rimorso di non aver potuto soccorrere il figlio: lei, infermiera, forse sarebbe riuscita a fermare l’emorragia che invece venne tamponata solo con una cintura. “Tutte le mattine si alzava e mi dava il buongiorno con una carezza sulle spalle. Poi qualche volta si arrabbiava e mi diceva che non capivo niente. Ci volevamo bene”.

Purtroppo i casi di persone con disabilità psichica che subiscono un trattamento brutale, incapace di cogliere lo stato di disagio e la sofferenza, sono tutt’altro che rari. Certamente, Matteo Tenni ha avuto una reazione eccessiva e scomposta all’ingiunzione dei carabinieri. Ma chi pretende di far rispettare la legge adottando mezzi sproporzionati e partendo dal presupposto che il paziente psichiatrico sia potenzialmente un criminale, non amministra giustizia, bensì, crea disumanità. E produce isolamento, abbandono e, infine, morte. Salvare Matteo Tenni dalla sua malattia e da se stesso era, probabilmente, impresa assai ardua, ma risulta evidente che quell’impresa non è stata nemmeno tentata. La madre sperava in un ricovero e non è arrivato. Così come è totalmente mancato quel prendersi cura di cui parla Giorgio Villa, psichiatra e antropologo, nel suo “In Comunità. Malattia mentale e cura” (Gli Asini, 2021).

Villa scrive di biografie e storie di vita, di grandi sconfitte e modesti successi, di atroci delitti e faticosi percorsi di emancipazione, tutto all’interno di una relazione di comunità che permette la presa in carico e la pratica della cura. E, all’inizio e alla fine, in cima a tutto, e in fondo al buio, la consapevolezza della comune fragilità e quel riconoscersi nel volto dell’altro e nel suo dolore, che è, a ben vedere, fondamento di ogni terapia e di ogni politica degne di questo nome.

Luigi Manconi

da Repubblica.it

 

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