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Omicidio Cucchi, il pm: «Processo condizionato da depistaggi»

L’accusa: «L’atteggiamento reticente e non collaborativo di alcuni testi è visibile»

Con una memoria dettagliata, il pm Giovanni Musarò è tornato ieri a chiedere alla III Corte d’Assise di Roma di acquisire agli atti del processo bis per la morte di Stefano Cucchi la consistente mole di prove documentali raccolte dalla procura sull’attività di depistaggio condotta a più riprese da alcuni esponenti dell’Arma, e rigettate dalla giuria nella scorsa udienza perché ritenute «superflue».

«L’obiettivo – ha spiegato il magistrato che di recente ha chiuso l’inchiesta integrativa sull’insabbiamento notificando l’atto ad otto militari tra i quali il generale Alessandro Casarsa – non è fare qui un processo sui depistaggi, quello è un altro procedimento. Ma ci sono circostanze rilevanti per questo processo perché la prova davanti a questa Corte è stata condizionata da quei depistaggi».

Trenta documenti, quelli presentati da Musarò, la cui cronologia, soprattutto, è «estremamente significativa». Come ad esempio nel caso portato in dibattimento: il documento diramato il 1° novembre 2009 dal generale Vittorio Tomasone su indicazioni, a suo dire, dell’allora colonnello Casarsa, nel quale si descriveva a quali conclusioni avrebbe dovuto arrivare e su cosa avrebbe dovuto lavorare il collegio peritale nominato solo successivamente per eseguire l’autopsia sul corpo di Cucchi.

La Corte invece ha valutato «superflui» quei documenti, considerando che le stesse prove si sarebbero potute produrre in dibattimento. Peccato che, come hanno fatto notare pubblica accusa e parti civili, l’occasione non potrà presentarsi durante questo processo perché alcuni testi fondamentali – come Casarsa o il maggiore Soligo – si sono avvalsi della facoltà di non rispondere in quanto indagati per il depistaggio. E «l’atteggiamento reticente e non collaborativo di alcuni testi è visibile», ha aggiunto Musarò.

Sul punto, la Corte deciderà nella prossima udienza dell’8 aprile, giorno in cui è prevista l’analisi del carabiniere Francesco Tedesco, uno dei cinque imputati e test chiave da quando ha ammesso davanti ai pm che a picchiare violentemente Stefano furono i suoi due colleghi, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, denunciando l’insabbiamento delle prove.

Un occultamento del quale si è avuta conferma anche ieri quando il capitano Carmelo Beringhelli ha ricostruito come nel 2015, durante un controllo disposto ad hoc, il capitano Tiziano Testarmata decise, malgrado le sue obiezioni, di non acquisire l’originale del registro dei fotosegnalamenti della caserma Casilina, dove Cucchi venne pestato e il suo nome sbianchettato. Beringhelli, comandante del nucleo operativo della compagnia Casilina, ha assicurato – contrariamente a quanto sostenne il generale Tomasone – che il fotosegnalamento va sempre fatto, e se l’arrestato si rifiuta va avvisato il magistrato di turno.

Per intanto, invece, ieri la giuria ha acquisito, su richiesta degli avvocati difensori dei carabinieri, la perizia medico-legale depositata il 7 marzo scorso nel primo processo ancora in corso ai cinque medici dell’ospedale Pertini, dove morì Stefano Cucchi. Secondo i periti, nominati dalla II Corte d’Assise d’Appello con il compito di analizzare la precedente perizia esperita nel corso del primo grado di giudizio, avendo a disposizione i soli atti del fascicolo processuale, la causa del decesso di Cucchi è «una morte cardiaca su base aritmica».

Dunque se non altro si ammette che non è morto perché epilettico, come sostenuto durante il processo. Ma, secondo la prof. Anna Aprile e il dott. Alois Saller che firmano la perizia, già prima del ricovero al Pertini, il giovane geometra romano «era in condizione proaritmica per la malnutrizione e per molteplici altri fattori di rischio aritmogeno». Nel documento si danno per scontate le «lesioni traumatiche» e il forte dolore che Cucchi ha provato senza il supporto di adeguati antidolorifici. E si ammette che «non è possibile fornire valutazioni precise sull’entità delle probabilità di salvezza legate ad una diversa cura messa in atto durante il ricovero».

C’è però una domanda che non è stata posta e alla quale nessuno ha risposto: se non fosse stato pestato fino a spezzargli la schiena, Stefano Cucchi sarebbe morto?

«Evidentemente no», sostiene Musarò che considera la richiesta di acquisizione «un clamoroso autogol per la difesa perché la perizia in questione è incentrata su quella disposta nel primo procedimento e che abbiamo dimostrato essere una perizia farlocca, costellata da errori incredibili». Inoltre se la difesa «avesse letto tutta la perizia scoprirebbe che il trauma subito, e ascrivibile ai carabinieri, è considerato una concausa della morte di Cucchi».

Eleonora Martini

da il manifesto

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