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Oltre l’immaginario sulla Tunisa, verso Zarzis

Dopo mesi di lavoro a distanza eccomi “sul posto”, lessema da virgolettare data la valenza particolare che alla presenza fisica sui territori è data da alcuni e alcune! Sono partita pensando tante cose, pensando a come alcune stridano con altre, e a come altre non abbiano senso o ne abbiano troppi, ambigui e contraddittori. Sono partita pensando a come in fondo, nonostante tutto il dire, il fare, lo scrivere, poco si sia capito chi e cosa è Europezarzisafrique, da dove viene e dove vuole arrivare, quale sia il suo discorso e quali i paradigmi da cui si genera, quali le constatazioni e le riflessioni da cui prende le mosse. Sono partita pensando che la raccolta fondi che abbiamo lanciato, costituendo ad hoc anche un comitato benefico in favore della trasparenza e la tracciabilità, non abbia raccolto più di mille euro e qualcosa, e che questa cifra non è neanche minimamente bastevole ad avviare quanto avevamo ipotizzato. Ci eravamo ripetuti per mesi che nella peggiore delle ipotesi sarebbe partito un progetto su tre, quello sulla pesca dei granchi blu, il più immediato e redditizio. Avremmo dovuto avere due barche ma poi, non vedendo soldi arrivare, abbiamo cominciato a pensare di poterne avere solo una; non più un progetto su tre, ma un mezzo di un progetto su tre. E nonostante questo ingente ridimensionamento, ad oggi abbiamo fondi per un terzo di una barca su due, di un progetto su tre.

Nell sud della Tunisia, a dispetto dell’apparente fissità di zone desertiche, accadono molte cose. Ci sono i migranti fuggiti a piedi dalla Libia, portati qui da mezzi e ragioni non per tutti/e uguali, accomunati però dal fatto di non aver mai considerato la Tunisia come una meta. Può invece ben essere una tappa, e i migranti sub sahariani in nord Africa hanno una concezione del “viaggio” che non può che essere per tappe. Alcune durano pochi giorni, alcune settimane o mesi, alcune anni. Una tappa è una sosta, e una sosta di solito è un momento di “ricognizione”. Ci si ferma per provvedersi di quel che serve ad andare avanti; quasi sempre soldi, e strategie. Dunque ci si ferma per lavorare, e per guardare attentamente la scacchiera sì da comprendere quale dovrà o potrà essere la prossima mossa, possibilmente la migliore. L’obiettivo è l’Europa, sempre, per quanto io lo comprenda ma non sappia accettarlo. La “preminenza europea” che da Voltaire al primo dopoguerra ha dominato la storiografia, superata dalla successiva era atlantica e ormai riconosciuta a livello accademico come una “mistica dell’europeismo/eurocentrismo”, viene reiterata rispetto all’Africa anche e proprio grazie a questa corsa disperata e mortale che gli africani sono disposti a correre per raggiungerla, morendo per davvero verso un eldorado finto.

Questo mi fa spesso anche pensare che le posizioni tendenzialmente anticapitaliste assunte da chi rifiuta l’idea di una globalizzazione che è in primis globalizzazione dello sfruttamento, una globalizzazione che riconosce libertà di circolazione solo a merci e capitali e non ancora alle persone, probabilmente collimerebbero ben poco con quelle di chi non vede l’ora di avere accesso ai “nostri” sistemi di indebitamento, a quei beni e servizi che creano ben altre e rovinose schiavitù, meno esplicite forse, ma che pure producono dolore e si incidono indelebili sulle vite e i corpi delle persone. Così le posizioni anticapitaliste assunte da chi vorrebbe un’economia emancipata dai sistemi di discriminazione e aggressione, e che in parte accomunano la compagine di chi ha fatto propria la lotta dei migranti per il diritto alla libera circolazione, e per il disconoscimento di quel vecchio principio ottocentesco di matrice nazionalista dello “Stato come destino”, rischiano di stravolgere il significato e le intenzioni dell’agire dei migranti.

Ma forse non si può discutere di critica ai sistemi di sviluppo con chi, da sempre tacciato di sottosviluppo, vede in ogni manifestazione nord-occidentale di “sistema sociale” solo l’idillio della capillarità dei servizi e del benessere diffuso, e lo traduce abbastanza impropriamente, o forse solo un po’ superficialmente, con: ricchezza. L’Europa come spazio geografico, pur con tutti i suoi lati oscuri, i suoi “sgambetti”, il suo egocentrismo altezzoso e snobista, è l’obbiettivo del corpo fisico dei migranti solo nella misura in cui immaginano che quella “ricchezza” sia di ciascuno, e una volta arrivati anche la loro. Quello snobismo per cui condanna a morte ma poi, se vuole, concede la grazia. Per cui non concede i visti, ma poi se vuole, invia soccorsi a chi per non averli ottenuti è partito e si è perso tra le dune di sabbia o tra le onde del mare. Quel ributtante esercizio di supremazia per cui si producono tragedie e le si osserva compiersi su territori mediatici e virtuali in cui alle vite è riconosciuto il solo valore di “pretestuoso argomento”; del pettegolezzo e del battibecco, della propaganda, dell’indottrinamento.

Sono partita dall’Italia con le orecchie piene delle fandonie di Salvini, che dalle bassezze del suo sproloquiare, attrae sul fondo, nella melmosa posa di detriti di dibattiti veri, anche chi lo contesta e pensa, sicuramente in buona fede, di voler solo rispondere a tono.

I migranti sono stati per anni in Italia una presenza a metà. Esistenze fantasmatiche, emarginate e marginalizzate, disconosciute. La negazione a norma di legge della legalizzazione del loro soggiorno li ha resi tutti/e personaggi pirandelliani, e di fatto, la maggioranza delle persone non li ha mai più di tanto considerati, né nel bene né nel male e anzi, al di là del bene e del male li ha sapientemente ignorati, contribuendo a quell’invisibilizzazione che è poi diventata, nelle interpretazioni, una scelta e una colpa: quella di esistere in maniera “carbonara”, sicuramente per finalità sovversive, magari per l’apocalittica sostituzione etnica! Ad oggi invece sono l’oggetto del contendere, non i soggetti mortalmente colpiti dagli errori delle politiche delle potenze economiche. Oggetto del contendimento nemmeno di una ragione, ma di una vittoria, e forse in prima istanza solo e miseramente elettorale.

I migranti sono il focus di Salvini, e anche le numerose e differenti parti di società civile in vario modo colpite dal suo repressivo autoritarismo, sono a ben guardare quelle che ai migranti hanno dato dall’amicizia e la solidarietà di principio, al supporto pratico ed effettivo. Che si tratti di ONG o centri sociali, professori o intellettuali, chiunque in qualunque forma si sia espresso in favore dei diritti di questa compagine di ultimi, ha guadagnato la sua antipatia. In maniera uguale e contraria, chi quell’antipatia la cercava, ha saputo dov’è che fosse garantito trovarla, e mezza Italia, quella dei numerosi astensionisti dal credo vario e quella dei voti sparpagliati a sinistra, col suo sguardo moderato ha visto nella causa dei migranti una radicale attestazione identitaria di antisalvinismo, antifascismo, antirazzismo, cosmopolitismo e progressismo. Ha sostenuto Carola e Mediterranea superando con le raccolte il milione di euro, contribuendo di fatto ad eleggere il mare ad unico e solo spazio di azione partecipata -o illusa d’esser tale- e riflessione accessibile.

Del resto, a quanto pare, non è possibile agire per i migranti in Italia se non facendo sì che possano continuare ad arrivare, e non è possibile agire sulla terra ferma della sponda sud del Mediterraneo senza incappare nel sospetto di star contribuendo alla pratiche di esternalizzazione che l’Europa persegue in maniera esplicita, ma che anche in maniera silente suggerisce e induce.

Così per esempio, tornando ad Europezarzisafrique, qualcuno/a, di fronte alla possibilità di azioni in Tunisia ci ha risposto che questo è proprio ciò che Salvini vuole: aiutarli a casa loro! Ora, al di là delle mie perplessità sulla volontà di Salvini di “aiutare”, a casa loro, o mia, o in ogni dove, una conclusione sentenziosa come quella di cui sopra mi sembra frettolosa e cieca. Era già successo con i trattati di Dublino, la cui modifica era stata un tempo la rivendicazione degli attivisti pro-migranti ed è divenuta poi arma salviniana di antieuropeismo e sovranismo. Poi è successo nuovamente con la chisura di alcuni CIE, rivendicata dal movimento antirazzista e realizzata invece da Salvini con tutt’altri obiettivi, sollevando una levata di scudi proprio da parte di una considerevole fetta di quel movimento. Ora la solidarietà e l’impegno politico di cittadini e cittadine europee oltre i confini della fortezza Europa, diventa quello di chi, “obbedendo” a Salvini, parte e li aiuta a casa loro! Come non sapessimo, prima di ogni altra cosa, che la Tunisia per un/una subsaharian* venut* dalla Libia non è affatto casa, e men che meno sua.

La Tunisia è un luogo particolare, una specie di limes, geografico, culturale, storico, religioso. La Tunisia viene fuori da percorsi complessi di “indipendenza” e pesanti lasciti paradigmatici della dittatura da poco sconfitta dalla rivoluzione. La Tunisia è mulatta ma con tanti occhi azzurri e capelli afro. La Tunisia è bianca e nera, entroterra e costa, tradizione islamica e anelito di trasgressione. La Tunisia è terra di lande desertiche senza acqua corrente e elettricità in cui vivono gli ultimi, e verdissimi villaggi turistici per vacanzieri con unicorni gonfiabili a galleggiare in piscina. La Tunisia chiama i sub-sahariani “semplicemente” africani, esprimendo in questa denominazione diffusissima da pronunciare con sorprendente naturalezza, il loro essere o sentirsi altro, pur senza entrare nel merito. La coscienza collettiva del popolo tunisino si autodistingue come differente, una differenza a cui forse, per inutilità, non si dà un nome. Un nome che comunque non sarebbe “arabi”, perché la Tunisia è anche Touareg, Amazigh, e non sarebbe neanche “musulmani” giacché lo sono anche una cospicua percentuale di “africani”.

Ma al di là di questo, che sicuramente attiene all’antropologia sociale più che alla geopolitica o alla cosiddetta “crisi migratoria”, la questione contemporanea relativa alla Tunisia e di marcato interesse internazionale, è il poterla considerare o meno quel “porto sicuro” di cui siamo tutti/e nostro malgrado costretti a parlare.

Certo, prima di rispondere con un banale si o no, bisognerebbe ben comprendere cosa questa espressione indichi esattamente, da dove proviene, e a cosa è imprescindibilmente legata. Se dovessi essere io a dire cosa è o non è un “porto sicuro”, stando alle prescrizioni, intanto direi che un porto sicuro è l’approdo in cui il naufrago trova dignitosa “accoglienza”, direi quindi subito che sulla base della mia definizione semplice non dovrebbe esserlo considerata neanche l’Italia, ma che questo è un piano del discorso ben lontano dalle dinamiche oggettive e dalle indicazioni normative.

Di fatto, per legge, “porto sicuro” è l’approdo in un paese che ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra e attivato sistemi di protezione internazionale e asilo politico, al di là di cosa questi, entrando poi nello specifico, siano e producano. Dunque, stando alla legge, la Tunisia non può essere considerata “porto sicuro”, quantunque fosse straordinariamente accogliente.

Ovviamente, è da anni che l’Europa preme affinché la Tunisia si renda disponibile a una cosa di questo tipo, e lo ha fatto e lo fa ancora con ogni sorta di mezzi, dagli incentivi economici a quelli più sottilmente afferenti l’ingresso in una cerchia di “amici” e “amicalità” con ricadute ad amplissimo raggio, dai partenariati economici di tipo industriale e commerciale, alle alleanze politiche. A proposito di alleanze ad esempio, una delle prime cose venute fuori a Djerba parlando del più e del meno con qualcuno, è che poche settimane fa è salpato da queste apprezzatissime spiagge un carico di armi francesi dirette ad Haftar, con l’ovvio beneplacito del Presidente Essebsi o chi per lui, visto che da dopo l’ultimo ricovero, davvero sulle sue condizioni di salute fisica e mentale, sono sorti non pochi dubbi. E infatti, mentre scrivo, il 25 luglio alle 10:00 l’ufficio stampa della presidenza ne ha annunciato la morte. Un’altra è che da aprile 2019 sono stati ripristinati voli diretti per l’isola da ben cinque aeroporti italiani, da cui erano assenti ormai dal 2015, dall’attentato sulla spiaggia di Sousse.

Nella prospettiva uguale e contraria inoltre, tornando alle pressioni sui sistemi di smistamento/accoglienza, da una parte si è incentivato l’avallo tunisino con importanti “contentini”, dall’altra, come da “bastone e carota”, si è non poco insistito sul redarguire, o meglio ancora sul fare in modo che a redarguire fossero non i vertici politici, ma la società civile, dagli attivisti agli opinionisti, questa giovane democrazia tunisina per non aver ancora maturato sufficiente coscienza di quanto il rispetto dei diritti umani faccia la differenza tra l’essere paese “civile” o incivile. E così, prossimo o no a quella “civiltà” europea preminente di cui magari la Tunisia non potrà comunque far parte, ma dalla cui emulazione potrà trarre vantaggio. Poco importa se i diritti dei migranti africani, l’Europa e molti europei non vogliono né rispettarli né tenerli in minima considerazione.

Eppure la Tunisia, ed è questo il vero colpo di scena, rifiuta. E mentre le piovono addosso accuse multiple, io resto quasi commossa dalla tenacia con cui questa piccola e caparbia Tunisia non si lascia comprare, almeno su questo, e da come così facendo, impedisca all’Europa di farla franca con una solita e ininfluente elargizione di “tangenti”. È grazie alla Tunisia se l’Europa non riesce ad esternalizzare il controllo delle frontiere e non può esimersi dal misurarsi giorno dopo giorno con i suoi fallimenti e paradossi, con le sue vittime, con i suoi personaggi eroici che infrangono leggi ma salvano vite, con i suoi cimiteri di cadaveri non identificati, con la sua selva di minori non accompagnati “non più reperibili”, per non dire scomparsi!

Personalmente quindi, e anche per quanto riguarda Europezarzisafrique, vorrei invitare tutti/e a riflettere sul fatto che quello che semmai Salvini vuole, in perfetto accordo con quella stessa Europa contro cui per il trionfo del sovranismo impreca, è l’esternalizzazione: una Tunisia “amica” che faccia da filtro, che selezioni tramite gli operatori UNHCR le persone che in fin dei conti non disdegniamo di acquisire, e che si incagli al nostro posto nel tentativo di liberarsi di tutti gli e le altre. Una Tunisia a cui “rifilare quella stessa fregatura” che con i Trattati di Dublino, l’Europa ha rifilato all’Italia. O magari mi sbaglio e non lo vuole affatto. Gli basta esigere che non si sbarchi, anche a costo di tornare a vedere i corpi annegati tornare a riemergere a Lampedusa piuttosto che a Zarzis.

Ma a prescindere da ciò che Salvini vuole -perché per altro andrebbe anche considerato che questo stabilire le proprie priorità e modalità politiche in funzione pro o contro Salvini è uno degli elementi che innesca e foraggia l’accrescimento della sua egemonia- se il sistema di accoglienza fosse stato genuino ed efficace, avrebbe forse avuto senso aspettarsi da parte della Tunisia un’emulazione, e forse io stessa mi sarei schierata con coloro che ad oggi la chiedono; ma da italiana, consapevole di come funziona e in cosa trascende, davvero non posso spendere parole buone per il sistema SPRAR, ne tanto meno per tutto quell’apparato di centri di “infantilizzazione, invisibilizzazione, contenimento e smaltimento” di tutte le persone migranti che ad accedervi non hanno diritto. Un apparato che dello SPRAR non è che l’altra faccia della medaglia, squisitamente complementare.

Ricordo e condivido l’aneddoto di quando Farouk si è recato a chiedere l’autorizzazione per la manifestazione del 4 agosto alla frontiera. Un funzionario che conosceva gli ha chiesto come mai facesse queste cose con gli europei che stanno cercando di “incastrare” la Tunisia a farsi carico dei migranti in fuga dalla Libia quando la Libia, invece, è stata resa quel che è dalla Francia! Farouk ci rimase molto male, evidentemente non ci aveva mai letti come quelli che sotto sotto, remavano contro la Tunisia e i tunisini o peggio, avevano pretese da avanzare alla Tunisia e i tunisini. Se non ricordo male era marzo, e quella sera ne parlammo a lungo.

Alla fine, ciò che di importante e definitivo ci dicemmo, è che noi facciamo quel che facciamo proprio perché abbiamo smesso di aspettare inermi che istituzioni e governi rimedino alle conseguenze degli errori commessi, soprattutto se come spesso accade, il rimedio, per eccesso di paradosso, è sopportabile ancor meno del male stesso. Come il balletto a suon di codici e codicilli intorno ai soccorsi in mare per rimediare all’aver impedito viaggi regolari e sicuri, soccorsi che poi spesso sono stati osteggiati, sub appaltati, omessi, ottenendo col rimedio lo stesso effetto del male che curavano: la morte.

E mentre in Italia e in Europa si discute costantemente e in maniera ormai ridicola, di volta in volta, dello sbarco di 10, 20, 50 persone, a fronte delle migliaia coinvolte, in Tunisia le zone limitrofe al confine, prevalentemente desertiche e con qualche importante centro urbano, si popolano di “africani” in fuga dalla Libia, più o meno tutt* privi di mezzi, ma più o meno intenzionati a proseguire il viaggio. Alcuni lo hanno interrotto, e si sono imbarcati con OIM su un volo di ritorno verso il paese di nascita, casa.

Gli altri e le altre si “arrabattano”, alcun* riescono a lavoricchiare considerando che è ben diffusa la pratica del lavoro a giornata, in nero, senza contratti o diritti; basta mettersi sul ciglio della strada dove passano i furgoncini che “caricano” i lavoranti. Spessissimo quel che si guadagna viene faticosamente messo da parte fino a raggiungere l’importo necessario a salire su una barchetta pronta a salpare verso Agrigento o Lampedusa. Ieri, sempre parlando del più e del meno con qualcuno, ho saputo di una in partenza e potrò solo aspettare di saperla arrivata, libera o intercettata. In quel caso seguiranno rimpatri direttissimi per i tunisini, e terribili trafile burocratiche per tutti gli altri provenienti da paesi con i quali non si hanno accordi di rimpatrio. Attenderanno in qualche malsano hot spot le audizioni e i responsi. Partiranno su quella barca molti “africani”, a dimostrazione che chi viene a piedi in Tunisia non ha scelto di non prendere il mare, ma solo di prenderlo da un versante migliore, con altre “tariffe”, altre “barche” (che per quanto mal fatte, come quelle “made in Kerkanna” che non tornano indietro e quindi usa e getta, non sono mai precarie quanto un gommone, soprattutto se davvero, come mi hanno detto, è stato gonfiato con i gas di scarico di un’automobile, dalla marmitta, sgasando!), altre opportunità di guadagnare il necessario per pagare il posto.

Del resto, sempre parlando del più e del meno con le persone incontrate, un uomo tunisino mi ha detto di essere partito clandestinamente verso l’Europa dal Marocco. “Si perché dal Marocco è più facile, di mare non fai più di un’ora, mica come da qui!”. Poi comunque è stato rimpatriato dalla Spagna, ma spero abbiate colto il punto. Come Monder, sempre tunisino, che andò a partire dalla Libia sperando all’arrivo di potersi spacciare per profugo, e invece è finito sequestrato dalle milizie. È tornato a casa grazie al fratello che ha pagato il riscatto.

Evitando però di divagare, quanto detto finora vuol fare da cornice e contesto al fatto che a Zarzis e non solo, molti/e migranti hanno bisogno di riuscire ad esistere, per il tempo necessario a questa tappa che forse con un po’ di fortuna sarà l’ultima prima della meta, come persone capaci di sostentarsi, di mantenere la libertà dei mezzi e dei fini, di preservare l’autodeterminazione nel vortice di scelte multiple preconfezionate urlate a gran voce da istituzioni, organizzazioni, gruppi e persone in preda alla presunzione di avere in tasca le soluzioni.

Poi di fatto, al di là di come ci piacerebbe che fosse, l’indipendenza e la libertà in questo mondo hanno un prezzo, e a determinarono concorre intanto l’ammontare di ciò di cui hai materialmente bisogno. Mangiare, bere, avere un tetto o almeno un riparo, disporre di un telefono per ascoltare ogni tanto una voce amica, o tranquillizzare una persona cara.

Al di là di ogni facile soluzione da propagandare nell’attesa che però a realizzarla siano UNHCR o OIM, piuttosto che il parlamento europeo o il governo tunisino, quel che personalmente penso è che come dalla notte dei tempi, i bisogni primari non soltanto vanno espletati prima dei secondari, ma è l’espletamento stesso dei primi ad innescare il manifestarsi dei secondi e quindi, sulla base di questa verità piccola ma conclamata, penso che nessun migrante può lucidamente autodeterminare il proprio domani finché è invischiato, giorno dopo giorno, nel sopravvivere al proprio giorno.

Dunque i progetti economici che Europezarzisafrique sta cercando di avviare, non vanno certo nella direzione di indurre le persone migranti in arrivo dalla Libia ad “accasarsi” in Tunisia come forse piacerebbe a Salvini o a chiunque non li vuole in Europa, ma nella direzione di aiutarli ad avere modo e mezzi per riflettere su come giocare al meglio le proprie carte, su come organizzare il proprio domani.

Magari, se davvero riuscissimo ad avviare almeno mezzo progetto su tre, con questa unica barca per la pesca dei granchi blu, le tre persone che ci lavorerebbero e avrebbero uno stipendio, potrebbero decidere di utilizzarlo per pagarsi una traversata verso la Sicilia, oppure di mandare a casa i soldi per riacquistare la mucca venduta per pagare il riscatto alle milizie libiche, o magari per affittare un appartamentino e tornare ad avere un posto da chiamare casa, dove togliersi le scarpe a fine giornata e sonnecchiare sul divano.

Il punto è proprio che abbiamo consapevolmente scelto, come azione di interposizione, resistenza e contrasto alle politiche che si impongono sulle persone deprivandole del diritto alla libertà di autodeterminare il proprio avvenire -se non entro il confine dello stato nazione di nascita (e destino)- di immaginare prospettive di libertà di scelta, e di contribuire a realizzarle contribuendo a generarne i mezzi. E non ad elargirli trovandoci poi costretti a selezionare “a chi”, come l’Unhcr per i ricollocamenti.

Non crediamo che le persone che lavoreranno nei progetti, sempre se riusciremo ad avviarli, vorranno restare a fare per sempre “il pescatore di granchi blu”, “la ceramista”, o “il raccoglitore di plastica” malamente gettata in strada, a Zarzis. Ci sembra più credibile che ci salutino non appena avranno i soldi per fare ciò che hanno in mente, qualunque cosa essa sia!

Certo è parziale, parliamo di tre persone a fronte di una moltitudine, ma bisognerà pur cominciare!

Del resto, la nostra è la proposta di un’azione dal basso, un’azione autonoma rispetto ai disegni di chi è “potente” o “influente” o “benestante”. Ma è una proposta che può partire con poco e fare molto. Può creare una piccola oasi di autogestione collettiva e orizzontale nella tragica invisibilizzazione e militarizzazione dei territori di frontiera. Può essere replicabile in altri luoghi e per altre attività. Può funzionare!

Se queste oasi poi fossero molte, potrebbero davvero costituirsi come alternativa all’indigenza e all’abbandono, all’inedia e all’insalubrità dei centri come quello di Medenine, allo sfruttamento sul lavoro offerto da chi però discrimina e si approfitta delle vulnerabilità.

E proprio per non voler anche noi, seppur con le migliori intenzioni, reiterare la prassi del lavoro nero a giornata, in cui fatichi e scompari con i tuoi 20 o 30 dinari senza mai ricevere, in una sola volta, una cifra “importante” che ti consenta di fare scelte significative, abbiamo costituito in Tunisia un’associazione per poter pagare “stipendi” a titolo di rimborso, e in Italia un comitato per ricevere donazioni con cui sostenere l’avvio dei progetti.

In questi giorni spesi tra Djerba e Zarzis abbiamo ricevuto con altre donazioni alcune centinaia di euro, e trovato una barca di seconda mano ad un prezzo che forse, a questo punto possiamo permetterci. Dagli ultimi conti fatti, sembrerebbero mancare ormai soltanto i soldi per le nasse, che sicuramente raccoglieremo autotassandoci.

Possiamo cominciare con il nostro agoniato ½ di un progetto su tre, e magari con un vostro contributo pari all’equivalente di un aperitivo, possiamo andare avanti, verso l’intero, e oltre.

Monica Scafati, 24 luglio 2019

https://europezarzisafrique.org/agire-alla-frontiera-dinanzi-alla-condizione-dei-migranti-in-libia/

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