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Obblighi di salvataggio e stato di diritto

Si sono registrati diversi casi di abbandono in mare da parte degli Stati e delle autorità marittime competenti a svolgere attività di ricerca e salvataggio nelle acque del Mediterraneo centrale. In assenza di mezzi statali e con le navi delle ONG impegnate a raggiungere porti di destinazione molto lontani dai luoghi nei quali avevano effettuato i soccorsi, non si è riusciti ad intervenire in tempo per sottrarre alla morte per fame e per sete donne e bambini

di Fulvio Vassallo Paleologo

 

1. Nelle ultime settimane si sono registrati diversi casi di abbandono in mare da parte degli Stati e delle autorità marittime competenti a svolgere attività di ricerca e salvataggio nelle acque del Mediterraneo centrale. In assenza di mezzi statali e con le navi delle ONG impegnate a raggiungere porti di destinazione molto lontani dai luoghi nei quali avevano effettuato i soccorsi, non si è riusciti ad intervenire in tempo per sottrarre alla morte per fame e per sete donne e bambini. Abbiamo così avuto diversi casi di soccorsi affidati dalle autorità marittime italiane e maltesi a navi commerciali, dopo giorni e giorni di attesa, e a seguito di questi soccorsi si sono contate altre vittime innocenti, persone che si sarebbero forse salvate se i soccorsi fossero stati più tempestivi.

Secondo quanto comunicato dall’agenzia DIRE il 12 settembre scorso, “Ventotto persone sono sbarcate da una nave della Guardia Costiera italiana a Pozzallo. L’Unhcr denuncia che sei siriani sono tragicamente deceduti durante il viaggio disperato in mare per cercare sicurezza in Europa. Tra le vittime ci sarebbero due bambini di uno e due anni, un dodicenne e tre adulti, tra cui la nonna e la madre di bambini sopravvissuti. Si pensa che siano morti di fame e di sete. Molte delle persone sbarcate presentano anche condizioni estremamente gravi, tra cui ustioni.” Nel caso di questo soccorso, completato dalla Guardia costiera italiana,

La lunga attesa in mare, dopo le prime richieste di aiuto, ha anche aggravato la condizione dei sopravvissuti, persone che si erano messe in navigazione sulla rotta orientale, partendo dalla Turchia e dal Libano, dopo essere fuggite dalla Siria e dall’Afghanistan, dimenticato da tutti. Persone perdute in mare, vittime del cinismo e della indifferenza, come tante altre annegate o respinte, che, dopo gli abusi sofferti in Libia, erano riuscite ad imbarcarsi sulla rotta del Mediterraneo centrale, portandosi addosso ferite profonde e gravi ustioni sul corpi.

Se i maltesi arrivano in ritardo o non si muovono affatto, accettando soltanto qualche evacuazione medica (MEDEVAC), la Guardia costiera libica intercetta e deporta, non soccorre., al massimo recupera cadaveri. Secondo quanto comunicato da SOS Mediterraneé e dalla Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM), il 27 agosto scorso un’imbarcazione si è rovesciata al largo delle coste libiche, causando la morte di 21 persone, secondo quanto riferito dai sei sopravvissuti al naufragio, intercettati dalle autorità libiche. Due corpi sono stati recuperati e altri 19 risultano dispersi e presumibilmente morti. 

Ancora SOS Mediterraneé ha comunicato che “Tra il 25 e il 27 agosto, la Ocean Viking ha salvato 466 persone da dieci imbarcazioni in difficoltà. Due sono state trovate in acque internazionali al largo delle coste libiche, mentre le altre otto sono state trovate nella regione maltese di ricerca e soccorso. Quattro delle imbarcazioni in difficoltà, precarie e stracariche, sono state individuate con il binocolo dal ponte della Ocean Viking. Le segnalazioni di soccorso delle altre sei imbarcazioni sono state trasmesse da ONG civili come Alarm Phone, dagli aerei delle ONG Pilotes Volontaires e Sea-Watch, nonché dalle imbarcazioni a vela delle ONG Open Arms e Resqship.  Nessuno dei salvataggi è stato coordinato dalle autorità marittime. Tra i sopravvissuti ci sono diverse donne incinte e 81 minori, la maggior parte dei quali non accompagnati. A causa di un prolungato periodo di stallo prima della designazione di un luogo di sicurezza, tre donne incinte hanno dovuto essere evacuate d’urgenza con i loro parenti in due diverse operazioni, una tramite una motovedetta della Guardia Costiera italiana e la seconda tramite un elicottero della Guardia Costiera italiana“. In diversi casi, i naufraghi prima di essere trasbordati a bordo delle navi delle ONG o della Guardia costiera, in assenza di altri mezzi di soccorso, erano stati assistiti da navi commerciali in navigazioni sulle rotte del Mediterraneo. come si era verificato con i 26 siriani partiti il 30 agosto dalla Turchia , presi a bordo dal mercantile Arizona 10 giorni dopo e poi trasbordati sulla motovedetta della guardia costiera. italiana che li sbarcava a Pozzallo il 12 settembre. In questo caso le attività di soccorso si erano svolte in piena zona di ricerca e salvataggio (SAR) maltese.

.I maltesi sostengono di non avere mezzi adeguati per andare ad operare nella loro porzione di zona Sar sovrapposta (overlapped) a quella italiana, 50-70 miglia a sud di Lampedusa. Non si può pensare di continuare a delegare alle navi commerciali di passaggio attività di ricerca e soccorso in acque internazionali, attività che costituiscono obblighi precisi per gli Stati costieri e richiedono interventi tempestivi e specializzati.

Come ha denunciato l’Unhcr, l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, questa inaccettabile perdita di vite umane, e il fatto che le persone abbiano trascorso diversi giorni alla deriva prima di essere soccorse, evidenziano ancora una volta “l’urgente necessità di ripristinare un meccanismo di ricerca e soccorso tempestivo ed efficiente guidato dagli Stati nel Mediterraneo.” Perché gli Stati non si possono sottrarre al coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali e hanno in proposito l’obbligo di coordinarsi tra loro per garantire la massima tempestività degli interventi SAR (di ricerca e salvataggio) al fine di evitare la perdita di vite umane in mare. La sistematica elusione dei doveri di coordinamento tra gli Stati per il soccorso nelle acque del Mediterraneo centrale, e gli accordi di cooperazione conclusi con il governo di Tripoli non solo dall’Italia, ma anche da Malta, hanno comportato la perdita di almeno 1500 vite umane lo scorso anno e oltre 1200 vite umane, tra morti e dispersi, sono il tributo pagato nel corso del 2022 alle politiche di esternalizzazione delle frontiere, praticate dagli Stati costieri e dall’Unione Europea. In diverse occasioni le autorità maltesi non hanno risposto a chiamate di soccorso provenienti da imbarcazioni che si trovavano nella loro area di responsabilità.

Come riferisce il giornale L’Avvenire, nei primi giorni di settembre, una bimba siriana di 4 anni è morta, dopo giorni in attesa dei soccorsi, sul barcone in zona SAR maltese. Era stata evacuata dall’imbarcazione con a bordo 60 migranti che da diversi giorni chiedeva soccorso dalla zona Sar di Malta, in cui si trovava. La bambina, ha spiegato Alarm Phone, era stata presa a bordo di un elicottero dal mercantile che aveva soccorso i migranti ma è spirata prima di arrivare in ospedale. Le rotte dal Mediterraneo orientale sono più lunghe di quelle dalla Libia, i mezzi utilizzati sono generalmente più grandi, ma il numero delle vittime continua ad aumentare, come si sta verificando anche sulle rotte dalla Libia e dalla Tunisia. Tutte queste rotte attraversano infatti una zona SAR, quella maltese, che non è presidiata con mezzi di soccorso adeguati rispetto all’estensione della zona di mare che vi corrisponde, ed i barconi carichi di migranti si trovano spesso abbandonati anche dalle centrali di coordinamento dei singoli Stati (MRCC), che al di fuori delle rispettive acque territoriali ( 12 miglia dalla costa) si rimbalzano la competenza degli eventi SAR o negano che ricorrano situazioni di distress, tali da imporre interventi immediati in acque internazionali a salvaguardia della vita umana.

Anche quest’anno decine di migliaia di persone sono state bloccate in acque internazionali della sedicente Guardia Costiera Libica, supportata dalle unità aeree di Frontex, agenzia dell’Unione Europea, e riportate in Libia dove sono state esposte ad altri abusi e ad altre estorsioni da parte dei trafficanti e da parte delle milizie che controllano i centri di detenzione in quel paese. Per questa ragione non si può sostenere che una maggiore collaborazione con i libici diminuirebbe il numero delle vittime, perché è incontrollabile il numero delle persone che, dopo essere state intercettate in mare, vengono riportate nei campi di detenzione in Libia dove perdono la vita o subiscono lesioni permanenti che ne compromettono le residue possibilità di vita. L’unica soluzione possibile oggi è l’apertura di canali legali di evacuazione dalla Libia, anche attraverso la concessione di visti di ingresso per motivi umanitari, e la chiusura dei centri di detenzione gestiti dalle milizie. Le morti in mare non sono tragedie, ma crimini, come ha recentemente affermato padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli,

Purtroppo tanto la politica nazionale, al pari dell’opinione pubblica, quanto l’Unione Europea, ormai condizionata da paesi a guida sovranista e nazionalista, si dimostrano indifferenti rispetto a queste stragi di innocenti, stragi annunciate, di persone che fuggono da guerre, persecuzioni e miseria, e che cercano salvezza affidandosi a trafficanti, in mancanza di qualsiasi alternativa legale di attraversamento delle frontiere. Gli Stati europei si propongono piuttosto di intensificare gli accordi con i paesi terzi, come si vorrebbe fare con il governo di Tripoli per instaurare un vero e proprio “blocco navale”. L’Unione Europea continua a finanziare l’ agenzia Frontex, da tempo al centro di documentate denunce per la sua gestione opaca e talora violenta dei respingimenti nei confronti dei migranti che vengono intercettati in mare. Si deve ancora ricordare come siano proprio mezzi aerei di Frontex, dopo il ritiro di tutte le unità navali europee, a collaborare attivamente con la sedicente guardia costiera “libica” per segnalare le imbarcazioni in fuga dalla Libia e facilitare quindi, anche in acque internazionali, le attività di intercettazione e di respingimento “su delega” che le motovedette libiche, in gran parte fornite dall’Italia e oggi sotto controllo della Turchia, svolgono sulle rotte del Mediterraneo centrale.

2. Gli obblighi di ricerca e salvataggio non sono soltanto imposti dal diritto internazionale ma costituiscono anche precisi doveri a carico degli Stati in base alla normativa interna che questi si danno in materia di assistenza delle persone in pericolo in mare.

Ancora nella giornata di domenica 18 settembre “tra Siracusa e Catania c è rimasta in attesa dell’assegnazione di un porto di sbarco la nave Ong Humanity 1, con 398 persone a bordo, migranti stremati, salvati dal naufragio. a bordo della nave l’acqua dolce sta per esaurirsi.” Come comunicato dalla stessa ONG, “le persone soccorse difficilmente riescono a lavarsi, le malattie infettive si diffondono più facilmente. Molti stanno diventando più deboli e soffrono di dolore, mal di testa e insonnia. Anche altre forniture, come il latte in polvere per bambini, stanno finendo.” Si soffre la sete anche dopo il soccorso, quando si impedisce un rapido sbarco dei naufraghi a terra. Anche in questo caso le Convenzioni internazionali, recepite dal nostro ordinamento interno, impongono la immediata assegnazione di un porto sicuro di sbarco (POS).

Per effetto degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione Italiana tanto il legislatore interno quanto le autorità marittime sono tenute al rigoroso rispetto delle prescrizioni derivanti dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare, come la Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 UNCLOS definita come convenzione di Montego Bay, la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) e la Convenzione ricerca e salvataggio( Sar) di Amburgo del 1979 che è alla base del Piano Sar Nazionale secondo le regole guida del Manuale internazionale IAMSAR.

Nell’ applicazione delle norme cogenti derivanti da queste Convenzioni occorre anche considerare la Convenzione di Ginevra del 1951 a tutela dei rifugiati perché da questa Convenzione si ricava il fondamentale principio di non respingimento (articolo 33) secondo il quale nessuna persona può essere respinta verso un paese nel quale rischia la vita o la integrità fisica. Questa norma, se incrociata con le prescrizioni di diritto internazionale del mare, assume particolare rilievo quando si pensa che nel Mediterraneo centrale la maggior parte delle attività di respingimento, adesso delegate alla sedicente Guardia Costiera Libica e in parte promosse anche dalle autorità di Malta, che hanno stipulato appositi accordi con il governo di Tripoli, sono attività che hanno come target persone in fuga dalla Libia dove hanno subito abusi di ogni genere e dove questi abusi ritroveranno se saranno riportate indietro, magari con la collaborazione delle autorità italiane, maltesi o europee. Ma anche chi fugge dalla Tunisia ha diritto di essere soccorso in mare e non può essere costretto a pagare con la vita il tentativo di sopravvivenza ad una crisi economica devastante che attanaglia quel paese. Gli obblighi di soccorso in mare non vengono meno a seconda delle persone da salvare o degli accordi tra Stati.

3. Quando si parla di violazioni dello Stato di diritto ci si può riferire non soltanto a quelle violazioni che vengono perpetrate a livello interno, come per esempio la soppressione della libertà di informazione, l’abolizione della indipendenza della magistratura o la cancellazione dei diritti civili, come si è verificato in Ungheria paese rispetto al quale L’Unione Europea ha emesso recentemente una severa sentenza di condanna, con il voto contrario di Lega e Fratelli d’Italia. Ci si può riferire anche alla violazione dello Stato di diritto con riferimento alle violazioni sistematiche del diritto internazionale del mare e della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, quando vengono violati obblighi di salvataggio stabiliti per la salvaguardia della vita umana in mare, soprattutto quando l’inadempimento di questi obblighi discende della discrezionalità politica e magari finisce per diventare mezzo di propaganda elettorale E allora che si registra una violazione di quello che si intende stato di diritto, basato sul rispetto delle norme e sulla garanzia del principio di uguaglianza tra tutti gli esseri umani. Questo principio di uguaglianza viene violato, con riferimento al valore primario della vita umana, quando si omette o si ritarda l’invio di imbarcazioni di soccorso se le richieste di aiuto provengano da imbarcazioni cariche di migranti. che si trovano in acque internazionali. Omettendo o ritardando i soccorsi per precise scelte di governo impartite alle autorità marittime viene violato il diritto internazionale, il diritto interno e dunque il principio di uguaglianza e lo stato di diritto. Verso gli Stati che non rispettano gli obblighi di soccorso in mare, e verso la stessa agenzia europea Frontex, si dovrebbero promuovere le medesime azioni portate avanti a livello europeo contro l’Ungheria per violazione dello Stato di diritto. Vedremo se l’Unione Europea, di fronte all’avanzata dei nazionalismi, sarà capace di assumere qualche iniziativa nella direzione del rispetto degli obblighi di salvaguardia della vita umana in mare. I risultati di recenti scadenze elettorali, come in Svezia, non fanno bene sperare, a causa del diritto di veto ancora attribuito ai singoli Stati. Senza un superamento di questa regola decisionale l’Unione Europea si avvia al tracollo, e non solo sul terreno delle politiche migratorie. Ed è anche per questa ragione che suonano come comodi alibi i richiami all’Europa di certi politici italiani, che sollecitano aiuto in materia di respingimenti e accordi con i paesi terzi, ma che pure contestano l’eccessiva invadenza della politica europea sulle scelte nazionali. Come ha dichiarato Amnesty International poche settimane fa, “sui diritti umani non si torna indietro”.

4. L’uso della discrezionalità politica nel controllo delle frontiere marittime e nell’attività di respingimento dei confronti di imbarcazioni che avevano svolto attività di ricerca e salvataggio, come nel caso Cap Anamur nel 2004, oppure nei confronti di imbarcazioni cariche di migranti che chiamavano soccorso mentre erano a rischio di affondare, come si è verificato negli anni più recenti, costituisce il perno costante delle diverse politiche migratorie dei governi che si sono succeduti nel tempo a partire dalla fine del secolo scorso. Soltanto nel 2014 si può registrare una pausa di queste politiche di “non intervento”, se non di respingimento collettivo, con l’operazione Mare Nostrum, seguita alle grandi stragi del 3 e del 11 ottobre del 2013, nelle quali centinaia di persone perdevano la vita per effetto di ritardi ingiustificabili negli interventi da parte delle autorità marittime degli Stati più direttamente coinvolti. Soltanto nel 2014 infatti, la Guardia costiera e la Marina militare italiana procedevano al soccorso delle persone rinvenute in pericolo di vita in acque internazionali a prescindere dalle condizioni di galleggiabilità dei mezzi sui quali si trovavano e della zona specifica nella quale avveniva il loro ritrovamento, senza distinzione tra la zona di ricerca e salvataggio (SAR) affidata a Malta e la zona di ricerca e salvataggio (SAR) affidata l’Italia, in un periodo nel quale ancora non esisteva una zona di ricerca e salvataggio (SAR) di competenza “libica”. Ammesso che di una Libia come Stato unitario si possa parlare ancora oggi. Con la fine dell’operazione Mare Nostrum riprendevano le stragi in mare, culminate nel naufragio del 18 aprile 2015, nel quale a sud di Lampedusa perdevano la vita oltre 1000 persone. Dopo quella strage, per un breve periodo, i mezzi di Frontex intensificarono le loro attività di ricerca e salvataggio e fino al mese di luglio di quell’anno il numero delle vittime calò bruscamente, per riprendere a salire quando gli Stati costieri e la stessa agenzia Frontex, per mutati indirizzi politici a livello europeo, ritiravano dal Mediterraneo centrale la maggior parte dei mezzi navali di soccorso.

Seguiva quindi una fase (2016-2017) nella quale le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali venivano sostanzialmente affidate ad un numero crescente di unità inviate dalle organizzazioni non governative, fase che terminava bruscamente nel luglio/agosto del 2017 con la simultanea adozione del cosiddetto Codice di condotta Minniti, che avrebbe dovuto regolamentare le attività di ricerca e salvataggio delle organizzazioni non governative, e per effetto dell’avvio di processi penali nei confronti di alcuni esponenti di queste stesse organizzazioni, accusati di svolgere attività di favoreggiamento dell’immigrazione illegale (caso IUVENTA). Anche se fino a quel momento tutte le loro attività si erano svolte nel quadro di una programmazione coordinata con le autorità marittime italiane, che dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum continuavano a cooperare con le Ong, avvalendosi persino di alcune unità navali di Frontex, contribuendo al salvataggi di decine di migliaia di persone.

La svolta più importante si registrava infatti nel 2017 con la firma di un Memorandum di intesa tra Italia e Libia , che restituiva nuova efficacia ad un precedente “Protocollo aggiuntivo tecnico operativo” stipulato nel 2007, dall’Italia con il governo di Tripoli ossia con Ghedafi. Già allora si prevedeva la cessione di unità navali per la sorveglianza da parte dei libici di una zona di ricerca e salvataggio a loro affidata e anche una attività di pattugliamento congiunto e di respingimento. In coordinamento con autorità italiane che avrebbero permesso ai libici nel 2009 e nel 2010 di riportare indietro migliaia di persone che erano riuscite a fuggire da quel paese per tentare di raggiungere l’Europa. Questo ruolo di coordinamento, da parte delle autorità italiane, della sedicente Guardia Costiera Libica risulta particolarmente evidente nel 2017 e nel 2018 ed è accertato anche da una importante decisione del giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Catania nel caso Open Arms del 2018.

Altro punto di svolta nelle attività di ricerca e soccorso del Mediterraneo centrale è dato dalla istituzione nel 2018 di una zona di ricerca e salvataggio (SAR)libica come spazio di dissuasione dei soccorsi delle ONG, affidata quindi alle autorità di Tripoli che già allora, ma ancora oggi, non riescono a garantire l’intero controllo del territorio nazionale. I diversi governi provvisori che si sono succeduti a Tripoli negli ultimi anni hanno dimostrato gravi difficoltà a gestire la loro Marina Militare e la sedicente Guardia costiera “libica” il cui coordinamento è stato per lunghi anni affidato all’Italia attraverso la missione Nauras con base nel porto militare di Tripoli. Questo coordinamento oggi sembra saltato ed attualmente è affidato alle autorità turche che nel 2020 hanno istituito una loro base navale in Tripolitania nella cittadina portuale di Khoms. Sono queste le ragioni che dovrebbero impedire alle autorità marittime italiane di indicare la sedicente Guardia costiera libica come autorità competente per svolgere attività di soccorso in una zona Sar “libica” che si presenta come uno spazio nel quale si realizzano respingimenti su delega italiana, ed europea, ma che non garantisce tempestive attività di ricerca e salvataggio. La presenza della missione europea Eunavfor Med non garantisce efficaci interventi di soccorso, e la stessa considerazione si puo’ fare per la missione italiana Mare Sicuro, pure presente con diverse navi militari ai limiti di quella stessa area, per garantire la sicurezza delle attività di pesca, oggetto di una perenne contesa commerciale tra i diversi paesi del Mediterraneo.

5. Per effetto della discrezionalità politica e non certo nel rispetto delle norme di diritto internazionale, come è stato accertato anche dalla Corte di Cassazione nel caso Rackete, a partire dal 2018 venivano stabiliti dal ministro dell’interno divieti di ingresso nel mare territoriale, nel tentativo di respingere verso i porti di partenza o altri paesi ,magari quelli di bandiera delle navi soccorritrici, quelle imbarcazioni civili che in acque internazionali avevano preso a bordo persone in fuga dalla Libia o dalla Tunisia, salvando loro la vita.

A marzo del 2018 veniva sequestrata nel porto di Pozzallo la nave umanitaria Open Arms dopo un’attività di ricerca e salvataggio svolta esattamente come avvenuto negli anni precedenti , in coordinamento con le autorità italiane. Ma questa volta veniva ritenuto che il comandante e il capo missione a bordo della nave avessero svolto attività, di agevolazione dell’ingresso irregolare, addirittura con la costituzione di una vera e propria associazione per delinquere. Accuse infamanti che poi venivano smentite dagli organi giudicanti. Ma prima che arrivassero i provvedimenti di archiviazione si moltiplicavano i divieti di ingresso nelle acque territoriali italiane. Nel giugno del 2018 veniva impedito alla nave Aquarius di sbarcare in un porto italiano I naufraghi soccorsi nel Mediterraneo centrale, tanto che la nave, dal Canale di Sicilia doveva raggiungere un porto francese.
Dal 2018 al 2019 si scatenava un profluvio di direttive “ad navem” e di ordini di non entrare nelle acque italiane, impartiti alle ONG dal Ministero dell’interno, e quindi si assisteva all’avvio di numerosi procedimenti penali nei confronti di quanti avevano salvato vite umane in mare .In quello steso periodo si promulgava il Decreto legge sicurezza bis, nel mese di giugno del 2019 ,che rendeva ancora più restrittiva la normativa in materia di ingresso nelle acque territoriali e sbarco in un porto, rispetto alle persone soccorse dalle ONG. A seguito di questo decreto sicurezza e delle scelte unilaterali dell’allora ministro dell’interno che di fatto assumeva “pieni poteri”, contro il parere di altri ministri, negando l’ingresso in porto, nell’agosto del 2019, si innescava davanti alle coste di Lampedusa il caso Open Arms. La nave veniva tenuta alla fonda senza poter sbarcare i naufraghi che aveva a bordo, fino a quando non interveniva la Procura di Agrigento, malgrado una decisione del Tribunale amministrativo del Lazio che rimuoveva il divieto di ingresso nelle acque territoriali. Oggi costituisce motivo di grande preoccupazione la reiterata volontà del candidato Salvini che in campagna elettorale si ripropone di riattivare quel decreto sicurezza che a suo avviso avrebbe permesso nel 2018 e nel 2019 “la chiusura dei porti”. Anche se la concreta efficacia di quel provvedimento fu sostanzialmente intaccata, con una serrata riconduzione ai principi dello Stato di diritto, da una serie di importanti decisioni dei giudici di merito e della Corte di Cassazione, a partire dalla sentenza del febbraio 2020 proprio sul caso Carola Rackete Sea Watch, fino alla più recente sentenza della Corte di Cassazione sul caso Vos Thalassa.

Malgrado queste importanti decisioni della giurisprudenza si deve rilevare come il secondo governo Conte e poi il governo Dnaghi non abbiano mai modificato sostanzialmente il decreto sicurezza bis Salvini del 2019, e quindi abbiano lasciato intatta quella sfera di discrezionalità politica che permette al Ministro dell’Interno di vietare l’ingresso nelle acque territoriali e quindi l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro, Se prendiamo in considerazione tutti i provvedimenti adottati dal Ministro dell’Interno Lamorgese a partire dal suo insediamento e poi dal Decreto interministeriale del 7 Aprile 2020 per l’emergenza Covid, con il ricorso alle navi quarantena, vediamo come il rispetto della normativa internazionale relativamente all’individuazione di un porto di sbarco sicuro da garantire nel tempo più rapido possibile, almeno in base alle convenzioni internazionali, sia rimasta sostanzialmente rimessa alla volontà del Ministro dell’Interno. Nei confronti del titolare del Viminale l’ultimo governo Draghi ha addirittura accentuato i poteri di decisione a scapito di altri ministeri come il Ministero delle Infrastrutture,ed il Ministero della difesa, che in passato avevano pure un ruolo importante nella assegnazione di un porto di sbarco sicuro alle navi che avessero svolto attività di ricerca e salvataggio in alto mare. Sul piano del coordinamento con le autorità maltesi non si è fatto un solo passo avanti e le tragedie di queste ultime settimane confermano un reciproco scarico di responsabilità che mette a rischio centinaia di vite.

6. Sui ritardi nella assegnazione di un porto di sbarco sicuro, che si riscontra ancora nei giorni in cui scriviamo, oltre a contestabili ragioni di opportunità politica é anche pesato lo sfascio del sistema di prima accoglienza, destrutturato dal primo decreto sicurezza Salvini del 2018 con la crisi, in particolare, dei cosiddetti centri hotspot. Si sono cosi aggravati i ritardi nel trasferimento successivo nei centri di seconda accoglienza delle persone sbarcate, tra cui una percentuale sempre più alta é costituita oggi da minori stranieri non accompagnati. Persone vulnerabili, come le vittime di tratta, che avrebbero bisogno di tutte quelle norme di protezione previste dalla legge Zampa n.47 del 2017, e ancora rimaste, nella maggior parte dei casi, esclusivamente sulla carta.

Sempre negli ultimi anni si è dovuto assistere a una intensificazione del procedure di respingimento con accompagnamento forzato in frontiera soprattutto nei confronti di persone provenienti dalla Tunisia, con prassi di polizia che sono apparse in violazione delle norme di diritto internazionale già affermate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la fondamentale sentenza sul caso Khlaifia. Una sentenza nella quale vengono affermati principi che ancora oggi vengono disattesi a Lampedusa e nei principali centri hotspot in cui vengono condotte le persone soccorse in mare o che riescono ad arrivare “in autonomia”, in misura sempre maggiore, a Lampedusa o su altre coste italiane.

Mentre si moltiplicano le testimonianze delle torture e degli abusi orribili ai quali vengono sottoposti I migranti in fuga dalla Libia, si mantengono gli accordi bilaterali e i supporti alle autorità di terra e di mare alle Milizie e dalla sedicente Guardia Costiera in Libia, come è confermato purtroppo dal più recente voto del Parlamento italiano sulle missioni Italiane all’estero. Voto con il quale si è rifinanziata la missione militare italiana in Libia con l’unica variazione nell’attività di formazione della sedicente Guardia Costiera libica,, attività che ormai viene svolta quasi esclusivamente dalle autorità militari turche presenti nel porto di Khoms e in altri porti della Tripolitania.

La Libia, al pari di molti altri paesi di transito del nord-africa, non è, anche per la Corte di Cassazione, un “paese terzo sicuro” e dunque non può essere considerata un paese con il quale concludere accordi di collaborazione nelle attività di intercettazione di migranti in mare, perché di questo si tratta quando si vanno a guardare i risvolti operativi del Memorandum di Intesa, firmato nel 2017 da Gentiloni e Minniti, è il precedente Protocollo di cooperazione firmato da Amato, ministro dell’interno del governo Prodi,nell dicembre del 2007. Un anno prima che Berlusconi e Ghedafi concludessero il Trattato di amicizia tra Italia e Libia che poi finanziò quel primo protocollo operativo e permise a Maroni di ordinare i respingimenti collettivi alla motovedetta Bovienzo della Guardia di Finanza,nel maggio del 2009, respingimenti collettivi poi condannati con una sentenza inappellabile da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Le Convenzioni internazionali di diritto del mare e la normativa interna, nel caso dell’Italia il piano Sar Nazionale approvato nel 2020 precisano gli obblighi di soccorso a carico degli Stati. Ma nella stessa direzione andava già il piano Sar nazionale del 1996 che, come previsto dal Diritto internazionale, imponeva una immediata attività di coordinamento tra gli stati che ricevono chiamate di soccorso in modo che non venisse messa a rischio la vita umana in mare. Le attività di ricerca e salvataggio non possono essere degradate ad attività di controllo dell’immigrazione irregolare e gli eventi nelle quali le persone si trovano in difficoltà e rischiano di annegare non possono essere qualificati da parte delle autorità marittime come “eventi migratori”, da affrontare con le misure di contrasto dell’immigrazione clandestina, ma vanno classificati immediatamente come eventi di ricerca e salvataggio (SAR), tali da imporre un avvio immediato delle attività di soccorso in modo da evitare la perdita di vite umane in mare. La prima autorità richiesta di un soccorso non può limitarsi a trasferire ad un altro Stato il coordinamento delle attività SAR se non è garantito che comunque vengano messe in atto nel più breve tempo possibile tutte le attività richieste per la salvaguardia della vita umana in mare. Una questione di grande rilievo che è al centro del processo penale “Libra” davanti al Tribunale di Roma.

Qualunque conflitto di competenza tra autorità maltesi italiane, in ipotesi anche libiche, non può assolutamente pregiudicare l’immediatezza dei soccorsi che vanno avviati dallo Stato che per primo ha notizie della presenza di imbarcazioni in pericolo di affondare nelle acque del Mediterraneo centrale, anche al di fuori delle proprie acque territoriali. Le Convenzioni internazionali e il Manuale IAMSAR fissano bene i fattori di rischio che vanno considerati per stabilire se un imbarcazione richiede un immediato intervento di soccorso. Occorre considerare le modalità di carico, la quantità di persone a bordo, le condizioni fatiscenti, l’assenza di mezzi di salvataggio e di efficaci sistemi di comunicazione. Tutte le imbarcazioni che si trovano in mare nelle acque tra la Libia Tunisia e l’Italia sono cariche di decine e decine di migranti, vanno qualificate come imbarcazioni a immediato rischio di affondamento e come tali vanno immediatamente soccorse ovunque si trovino.

Quando non sono intervenute direttive politiche che hanno imposto situazioni di stand by ritardando gli interventi di soccorso, dopo il nuovo Piano SAR nazionale del 2020 si deve registrare una ripresa delle attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali da parte di mezzi della Guardia costiera italiana, ma il dispiegamento delle unità di soccorso più grandi in acque territoriali ha imposto il coinvolgimento di unità commerciali, meno adatte a prestare un intervento che garantisse il trasbordo immediato dei naufraghi, mentre le autorità maltesi hanno dimostrato di non avere mezzi e volontà politica di garantire quegli interventi di soccorso che sarebbero loro imposti in virtù della enorme zona SAR che le Convenzioni internazionali riconosce a La Valletta. Una zona SAR, riconosciuta in altra epoca storica, che va oggi ridimensionata, a meno che non si organizzi in modo permanente una missione internazionale di soccorso in quelle acque internazionali.

7. Gli eventi di soccorso nelle acque del Mediterraneo centrale non possono continuare a essere trattati come “eventi di immigrazione irregolare”. Le persone che rischiano la vita in mare non possono essere genericamente definite come “clandestini”. Va privilegiata la tutela della vita umana in mare anche di fronte al rischio d respingimento collettivo. La Libia non è un paese terzo sicuro mentre gli accordi bilaterali tra gli Stati devono tenere conto del rispetto dei diritti umani, dell’obbligo di sbarco in un porto sicuro, e dell’obbligo di coordinamento nelle attività di ricerca e soccorso (SAR) imposto dalle Convenzioni internazionali Per effetto di questi principi di diritto internazionale, sovraordinato al diritto interno per il sistema gerarchico delle norme richiamato dagli articoli 10,11 e 117 della Costituzione., vanno sospesi gli accordi conclusi nel tempo e da ultimo ripresi nel Memorandum di Intesa tra Italia e Libia nel 2017, che andrà in scadenza a novembre di quest’anno. Un Memorandum che non deve essere ulteriormente prorogato tacitamente, come è avvenuto negli anni passati, con governi di segno diverso. Eppure, ancora a luglio, il Parlamento uscente ha votato a larga maggioranza il rifinanziamento della missione militare italiana in Libia, creando le premesse per un rinnovo tacito del Memorandum nel prossimo mese di novembre. Gli atti parlamentari smentiscono chi ha dichiarato di avere votato contro gli accordi con la Libia, mentre invece si è limitato a votare in dissenso alla Camera su una soltanto delle schede allegate alla delibera di rifinanziamento della missione in Libia, già approvata in Commissione.

Le autorità italiane e maltesi devono organizzare un servizio di ricerca e salvataggio operativo anche nelle acque che sono state inquadrate nella cosiddetta zona di ricerca e salvataggio “libica”, una zona di ricerca e salvataggio in cui la vita in mare è d altissimo rischio, non solo per le condizioni terribili che incontrano le persone intercettate in mare, se riportate in Libia,, ma anche per la cronica mancanza in un adeguato sistema su base nazionale di salvataggio, che le autorità libiche non avevano in passato, quando erano coordinate dalla missione italiana Nauras, e non hanno neppure oggi , malgrado il ruolo di coordinamento sia passato ai militari libici, ma non si capisce più con quale catena di comando, dopo l’intervento militare a mare di unità della Marina turca.

8. A livello europeo occorre ritornare alla piena applicazione del Regolamento n. 656 del 2014, che privilegiava gli obblighi di salvaguardia della vita umana in mare e il principio di non respingimento, rispetto alle prassi operative caratteristiche dell’agenzia FRONTEX, sempre più destinate al contrasto dell’immigrazione irregolare. Dopo le dimissioni del suo Direttore Fabrice Legeri,che hanno evitato un procedimento a suo carico, occorre individuare un nuovo ruolo per l’Agenzia Frontex che sia sia orientato alla prevalente salvaguardia della vita umana in mare rispetto alla collaborazione con autorità di paesi terzi che non rispettino i diritti umani e verso i quali ancora oggi possono essere deportate le persone intercettate o avvistate in acque internazionali, proprio con l’aiuto degli aerei e dei droni di Frontex. Bisogna piuttosto avviare piani immediati di evacuazione dei migranti vulnerabili intrappolati in Libia, con una equa distribuzione tra diversi paesi europei.

Sul piano nazionale, di fronte al prevedibile inasprimento del regime normativo e delle prassi operative in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare e di sorveglianza delle frontiere marittime, occorre salvaguardare l’attività di ricerca e salvataggio delle organizzazioni non governative, contrastando il possibile ritorno di qualsiasi tentativo di criminalizzazione, ma evitando anche che queste assumano un ruolo di supplenza rispetto agli interventi delle autorità statali. La comunicazione su questi temi deve andare oltre un generico umanitarismo e deve denunciare inadempienze e ritardi degli Stati, non solo dell’Unione Europea, e delle autorità preposte ai soccorsi, che possono costare altre vite umane.

Gli interventi di ricerca e salvataggio vanno fortemente rafforzati con modalità analoghe a quelle già messe in atto nel 2014 con l’operazione Mare Nostrum, quindi con una collaborazione tra Marina, Guardia Costiera e Guardia di Finanza, anche in acque internazionali, al di fuori delle nostre acque territoriali, e anche in quelle aree più vaste ricadenti nella zona Sar maltese. Vanno garantiti tempestivi interventi di soccorso in quella zona di acque internazionali nelle quali è evidente che le autorità di La Valletta e quelle di Tripoli, non soltanto non hanno numericamente i mezzi, ma non hanno neanche la volontà politica e la capacità tecnica di far arrivare in tempo utile unità di soccorso a seguito di chiamate di persone che rischiano di perdere la vita in mare.

Se tutto questo non si verificherà e se si ripeteranno le violazioni del diritto internazionale rispetto agli obblighi di coordinamento e di soccorso in mare, sarà necessario riproporre azioni legali presso Le Corti internazionali competenti, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e la Corte europea dei diritti dell’uomo, quanto eventualmente, se ne ricordano i presupposti, davanti ai giudici penali in Italia o in altri paesi, per fare accertare tutte le responsabilità personali e politiche delle violazioni, che si continuano a perpetrare a danno della salvaguardia della vita umana nel Mediterraneo. Non si può permettere che la discrezionalità delle scelte politiche, magari per rendere conto ai propri elettorati dopo una campagna basata su slogan elettorali ad effetto, possa comportare la violazione di obblighi imperativi stabiliti dalle Convenzioni internazionali, da normative europee e da norme di diritto interno, che impongono di salvaguardare la vita umana in mare, nel rispetto del principio di non respingimento, anche a scapito della difesa dei confini o della lotta all’immigrazione illegale, e sanzionano l’abbandono in mare, l’omissione di soccorso, i respingimenti collettivi o il rinvio verso paesi che non garantiscono un effettivo rispetto dei diritti umani. Perché delle tante vite umane che si perdono nelle acque del Mediterraneo e nei centri di detenzione in Libia, prima o poi, qualcuno dovrà risponderne. Troppo facile attribuire tutte le colpe dei naufragi ai trafficanti o agli scafisti, quando sono le politiche migratorie degli Stati e le attività di contrasto dell’immigrazione “clandestina”, inclusi gli accordi bilaterali con gli Stati terzi, e le prassi di polizia marittima che ne derivano, che determinano tutte le condizioni, come il ritiro dei mezzi di soccorso dalle acque internazionali, ed il mantenimento di estese zone SAR nelle quali non si riesce a praticare un soccorso tempestivo, che producono un aumento esponenziale delle vittime.

da ADIF

 

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