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Myanmar tra rivolte e repressione

Tra guerriglie indipendentiste a base etnica, comunità di monaci nonviolenti e repressione militare, la ex Birmania non trova pace

di Gianni Sartori

Risale ormai a parecchi anni fa quanto scrivevo, (vedi: “Quello che resta dell’autodeterminazione dei Popoli”) puntando il dito contro le strumentalizzazioni operate

dall’indipendentismo “a geometria variabile”, sul “caso limite dei Karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia, che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei”. Togliendo pure il condizionale.

Ma nel frattempo le cose si sono ulteriormente complicate, anche in senso positivo talvolta. Infatti dopo il golpe del febbraio 2021 numerose milizie a base etnica (soprattutto quelle Karen e Kachin), indipendentiste, autonomiste o semplicemente in opposizione alla giunta militare, si sono alleate.

Non solo tra loro, ma anche con le Forze di difesa del popolo (People Defence Forces), il braccio armato del Governo di unità nazionale in esilio. Significativo che ne facciano parte soprattutto giovani militanti Bamar, l’etnia principale (buddista e tendenzialmente filogovernativa) delle zone centrali del Myanmar.

Altra situazione in rapido movimento, quella della comunità monastica buddista (“sangha”).

Una componente storicamente importante nella storia di Myanmar, ma che dal 2021 starebbe perdendo ruolo e rilevanza a livello politico, sia nei confronti della giunta militare che dell’opposizione democratica.

Questa la convinzione espressa dalla ong Crisis Group nel recente documento “A Silent Sangha? Buddhist Monks in Post-coup Myanmar”. Diversamente dal passato (vedi le manifestazioni per la democrazia del 1988 e del 2007) quando il ruolo della “sangha” nel contrasto alle varie giunte militari era stata di primo piano.

Oggi invece l’opposizione democratica guidata dal Governo di Unità Nazionale (NUG) è prevalentemente laica, secolare, interconfessionale. Anche per non incrinare la sopracitata alleanza con le organizzazioni delle minoranze etniche Karen e Kachin in maggioranza cristiane. Fermo restando che quello interno birmano non è mai stato un conflitto prevalentemente di natura religiosa. Per lo meno non tra buddisti e cristiani. Non bisogna infatti scordare le operazioni di pulizia etnica (ideate e organizzate principalmente da Min Aung Hlaing) del 2017 contro la minoranza di religione musulmana dei rohinya.

Altre differenze con il passato. Se Aung San Suu Kyi (deposta con il colpo di Stato del febbraio 2021) proponeva e sosteneva una resistenza nonviolenta, gandiana, l’attuale opposizione democratica ha scelto la lotta armata, allineandosi alle preesistenti guerriglie a base etnica. E questo ovviamente contrasta con le pratiche tradizionali nonviolente dei monaci. Monaci che al loro stesso interno starebbero conoscendo contrasti e contenziosi. Soprattutto tra chi appoggia la giunta e chi la contrasta. Al momento sembrerebbe che la maggioranza intenda adottare un “profilo basso” non volendo o potendo appoggiare pubblicamente né l’opposizione armata né i militari.

Con l’eccezione di qualche monaco estremista, fortemente impregnato di nazionalismo come un certo Wirathu e il più noto Michael Kyaw Mying che potrebbero alimentare ulteriori divisioni in seno alla sangha.

Un recente episodio andrebbe letto anche come una conseguenza della perdita di prestigio da parte della comunità monacale.

Secondo la Karenni Nationalities Defence Force (Kndf, una milizia etnica antigovernativa) l’11 marzo almeno tre monaci sono stati uccisi, insieme ad un’altra trentina di persone, dai militari nel villaggio di Nan Nein (nello stato meridionale Shan). Il villaggio sorge lungo un’autostrada che unisce lo Stato Shan allo Stato Kayah e costituisce un’infrastruttura fondamentale per i rifornimenti delle milizie.

Dopo che l’aviazione aveva bombardato il villaggio, i soldati si sono scagliati contro la popolazione civile che si era rifugiata nel monastero.

Stando a quanto dichiarato dal portavoce della Kndf, i militari avrebbero allineato le persone rastrellate davanti al monastero e poi le avrebbero fucilate insieme a tre monaci. Altre vittime sono state poi ritrovate nei dintorni del villaggio. Un segnale che ormai i militari non si fermano nemmeno di fronte ai monasteri e ai monaci.

Il territorio dove è avvenuto il massacro è abitato oltre che dalle etnie Shan e Karen, anche da quella Pa-o, alleata dell’esercito birmano.

Sempre da fonti locali legate all’opposizione, lo stato occidentale Chin sarebbe stato bombardato quasi quotidianamente dall’inizio del 2023.

Si calcola che gli sfollati a causa del conflitto in corso (pudicamente definito “a bassa intensità”) siano circa un milione e mezzo. Inoltre otto milioni di bambini non possono frequentare la scuola e oltre 15 milioni di persone rischiano la fame.

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