Il Consiglio di amministrazione dello Stato (Sac), che ha nell’esercito birmano Tatmadaw il suo “guardiano”, ha approvato ieri in Myanmar la relazione del comandante in capo delle forze armate e primo ministro Min Aung Hlaing e il prolungamento del suo mandato per altri 6 mesi «in conformità con le disposizioni di emergenza della Costituzione per consentirgli di svolgere con successo le sue funzioni». In sostanza il prolungamento al 2023 dello Stato di emergenza, già esteso di un anno nell’agosto scorso – sei mesi dopo il golpe militare del febbraio 2021 – con la nomina del generale a premier. La decisione arriva dopo la dimostrazione di forza del regime che prima ha spostato l’ex capa de facto del governo Aung San Suu Kyi dagli «arresti domiciliari» a una prigione nella capitale, poi, la settimana scorsa, ha giustiziato quattro oppositori dopo oltre 30 anni di moratoria delle esecuzioni capitali. Ma l’estensione dello stato di emergenza più che una prova di forza sembra la dimostrazione dell’incapacità del regime di farsi davvero Stato.

MIN AUNG HLAING, nella riunione di ieri a Naypyidaw ha toccato molti punti, dal traffico di droga al Covid al sostegno per l’economia e ha in un certo senso minimizzato la guerra in corso nel Paese – di più o meno bassa intensità – che non riesce sconfiggere. Si è limitato a citare, nei 18 mesi dal 1° febbraio 2021, «14.907 attacchi terroristici, inclusi incendi dolosi, omicidi e attentati dinamitardi, con la morte di un totale di 3.483 civili, il ferimento di 3.065 persone e 41 dispersi». Nemmeno una parola sulle perdite militari. Il generalissimo è tornato a promettere un’ «elezione generale democratica multipartitica libera ed equa» ma «ci sono ancora questioni che devono essere affrontate per garantire che le elezioni possano svolgersi senza divari in tutto il Paese». Insomma, a data da destinarsi e stato di emergenza permettendo.

IL DISCORSO sullo stato della nazione e la richiesta della conferma (scontata) dei pieni poteri avviene alla vigilia di un importante summit dell’Asean – l’associazione regionale del Sudest asiatico, di cui anche il Myanmar fa parte, da cui Hlaing e qualunque birmano porti una divisa è stato ancora una volta escluso: un caso senza precedenti per un’organizzazione politico-economica dedita al mantra della non ingerenza ma che ora vede una pattuglia di paesi – soprattutto Malesia, Filippine, Singapore e Indonesia – far pressione sulla presidenza di turno cambogiana, sinora piuttosto debole e accondiscendente nei confronti della giunta birmana senza averne ottenuto nulla in cambio. Si avvicina l’appuntamento più importante della 55esima Riunione dei ministri degli Esteri Asean, iniziata ieri, dove non ci saranno solo i capi della diplomazia di nove dei 10 Stati membri ma a cui parteciperanno anche i pezzi grossi della diplomazia internazionale: al East Asia Summit e al Forum regionale Asean siederanno il segretario di Stato Usa Antony Blinken, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e l’omologo russo Sergei Lavrov.
Se la riunione sarà solo una brutta copia dell’ultima sessione del G20 a Bali di qualche settimana fa, la guerra in Ucraina metterà in ombra due dossier molto caldi sui tavoli asiatici: il caso Myanmar appunto e la questione Mar cinese meridionale, col contenzioso che riguarda isolette e atolli rivendicati dalla Cina e da diverse nazioni Asean .

SUL DOSSIER MARITTIMO il forum ha una sua importanza perché può gettare acqua sul fuoco dei rapporti tra Cina e Stati uniti. Quanto al dossier birmano, il nodo più spinoso per l’Asean (che deve anche decidere dell’ammissione di Timor Est), il vertice potrebbe aprire la porta a un processo difficile e in salita ma che non è da escludere: l’espulsione dall’Asean del Myanmar che gode comunque dell’appoggio più o meno diretto del generale Prayut in Thailandia, del cambogiano Hun Sen e dei silenziosi e acquiescenti Laos e Vietnam.

da il manifesto