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Moussa Diarra, un omicidio razziale Made in Italy

L’omicidio di Moussa Diarra è un omicidio razziale

di Mackda Ghebremariam Tesfaù da il manifesto

Era stato torturato nei Centri di detenzione libici: “Gli hanno fatto di tutto”, dirà il fratello Djemagan. Anzitutto va detto che l’omicidio di Moussa Diarra è un omicidio razziale, e sebbene il colpo del poliziotto sia stato quello fatale, non è stato né il primo né l’ultimo in quel fuoco incrociato che è il razzismo istituzionale in questo Paese. Il primo colpo che ha ferito Moussa è stato sparato dal Governo Italiano nel 2008, quando Berlusconi e Gheddafi firmarono il loro “trattato di amicizia”. Con gli accordi bilaterali, l’Italia si impegnava a formare la Guardia Costiera Libica e a fornire risorse per la costruzione di centri di detenzione, impedendo ai migranti, come Moussa, di accedere al diritto di asilo, un diritto inalienabile. Nei centri di detenzione libici, Moussa è stato trattenuto e torturato. Suo fratello Djemagan dirà: “Gli hanno fatto di tutto”.

Il secondo colpo che ha centrato Moussa è stato sparato dal Ministero dell’Interno con il decreto Salvini del 2018, che ha impedito la conversione della protezione umanitaria in permesso di soggiorno. Nonostante Moussa avesse ottenuto il riconoscimento del suo status di rifugiato, il decreto lo ha incastrato in una morsa legale che gli ha precluso la possibilità di stabilizzare la sua posizione. Dopo anni di attesa, confinato nel CAS Costagrande di Verona, tristemente noto per l’isolamento e le pessime condizioni di vita, Moussa ha visto svanire la sua opportunità di ricominciare. Questo ha ulteriormente peggiorato il suo stato psicologico, gettandolo in una disperazione comune a chi si ritrova con una vita sospesa, resa precaria e “illegale” dall’assenza di un pezzo di carta.

Il terzo colpo è arrivato dal Comune di Verona, che, nonostante le continue richieste di Paratod@s, realtà attivista impegnata nel sostenere l’occupazione del Ghibellin Fuggiasco, dove Moussa aveva trovato rifugio, non ha trovato una sistemazione per le cinquanta persone presenti nella struttura. Molte di queste, con documenti e contratti di lavoro, si trovavano nell’impossibilità di trovare un alloggio a causa delle gravi e sistematiche discriminazioni che colpiscono le persone immigrate nel mercato immobiliare privato, e spesso anche nell’edilizia popolare. Persino il sindaco di Verona, Damiano Tommasi, era al corrente della situazione: nei primi mesi del suo mandato aveva visitato il Ghibellin Fuggiasco, promettendo che il Comune avrebbe trovato una soluzione dignitosa per le persone rifugiate.

Il quarto colpo sì, l’ha sparato il poliziotto che ha scelto di rispondere al disagio psichico causato dalla marginalizzazione con una violenza omicida. Sebbene la dinamica dei fatti sia ancora poco chiara, possiamo affermare con certezza che, di fronte a una persona in stato confusionale da ore, la risposta adeguata avrebbe dovuto essere quella della cura e dell’intervento dei servizi medici, non certo un proiettile. Durante le due ore in cui si racconta che Moussa abbia vagato per la stazione, perché la polizia non ha allertato il 118? Il corpo nero di Moussa è apparso più minaccioso di quanto fosse realmente, come raccontano le storie di violenza poliziesca negli Stati Uniti? È possibile che il suo dolore fosse meno visibile nascosto sotto la sua pelle nera?

Sul cadavere di Moussa, il quinto colpo l’ha poi infierito la stampa, cercando di dipingerlo come un criminale, inquinando le acque con affermazioni come “esclusa matrice terroristica” o descrivendo la zona della stazione come un luogo insicuro, preda di malviventi e malintenzionati. È stato creato il mostro, evocando lo spettro di Kabobo, dei machete e delle violenze barbariche dei colonizzati, senza che venisse mai diffusa alcuna immagine della presunta arma impugnata.

E sul cadavere di Moussa ha infierito anche Matteo Salvini, pubblicando dichiarazioni agghiaccianti come: “Con tutto il rispetto, non ci mancherà. Grazie ai poliziotti per aver fatto il loro dovere”. Queste parole meritano di essere portate all’attenzione della Commissione parlamentare sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni d’odio. Infine, ciò che è gravissimo ma forse non sorprendente è l’umiliazione della memoria di Moussa, evidenziata da un comunicato stampa “congiunto” della Procura e della Questura, attualmente irrintracciabile ma di cui parlano le principali testate nazionali. Questa intesa sembra consolidare pratiche già osservate a Verona, dove, di fronte all’accusa di torture, inflitte dalla squadra mobile persone di origine non italiana, la Questura è stata messa a indagare su se stessa, in una totale confusione di interessi e funzioni.

La morte di Moussa Diarra si colloca in un clima di crescente repressione, in coincidenza con la possibile introduzione del decreto legge 1660, che intensifica la guerra contro la povertà e la marginalizzazione delle persone con background migratorio. Per chiedere giustizia e verità per Moussa, come stanno facendo i numerosi presidi spontanei alla Stazione di Verona Porta Nuova in questi giorni, è fondamentale pretendere un’indagine trasparente sul suo omicidio per mano della polizia. Ma è altrettanto importante riconoscere che, prima del colpo letale, la vita di Moussa è stata costantemente segnata dal razzismo strutturale e istituzionale di questo paese.

Radio Onda Rossa ha parlato con un compagno del Laboratorio Autogestito Paratod@s di Verona, per raccontare il caso di Moussa Diarra, immigrato maliano ucciso dalla polizia, per il quale si farà un concentramento alle ore 14 del sabato 26 ottobre, a Piazza Bra, per chiedere verità e giustizia. Ascolta o Scarica

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