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Messico, un «colpo pulito» alla testa. L’esecuzione dopo le torture

Il caso Narvarte. Nadia Vera e Rubén Espinosa avevano accusato il governatore di Veracruz. E cinque anni fa la scomparsa dei ragazzi di Ayotzinapa. Inchieste indipendenti hanno dimostrato le responsabilità delle autorità.

Mirtha Luz Pérez Robledo tiene nella mano sinistra l’immagine della figlia, l’attivista Nadia Vera. Osserva in silenzio lo smartphone, che stringe nella destra, dal quale esce la voce di Nadia mentre elenca con tono deciso i nomi di una serie di movimenti, messicani e mondiali, in lotta per i propri diritti. Mirtha prende parola: «La sua storia è sotto gli occhi di tutti grazie alla solidarietà delle molte persone che le hanno dato voce. A chi viola i diritti, agli assassini, dico: ci sono morti che non staranno mai in silenzio».

NADIA VERA, ANTROPOLOGA, artista e attivista 32enne originaria del Chiapas, è stata torturata e uccisa il 31 luglio del 2015 in un appartamento nella colonia Narvarte, a Città del Messico, insieme ad altre quattro persone: le coinquiline Mile Virginia Martín, modella colombiana di 32 anni, e Yesenia Quiroz, studentessa di 19 anni, Olivia Alejandra Negrete, 40 anni, che si occupava delle pulizie nell’abitazione, e il fotogiornalista Rubén Espinosa, 32 anni, ospite di Nadia.

Rubén e Nadia pochi mesi prima si erano trasferiti da Xalapa, capitale dello stato di Veracruz, per fuggire alle minacce e alle aggressioni del sistema criminale veracruzano e di quello repressivo che ha caratterizzato i sei anni, dal 2011 al 2016, del governo di Javier Duarte, segnato dalla morte di 17 giornalisti. Da quel 31 luglio di quattro anni fa, ci spiega Maria De Vecchi, coordinatrice del gruppo Diritto alla verità della ong Artículo 19, «Città del Messico ha smesso di essere percepita come un rifugio sicuro per giornalisti e attivisti, il luogo in cui autoesiliarsi nel disperato tentativo di salvarsi la vita».

A DISTANZA DI QUATTRO ANNI, tre persone sono in carcere ma gli inquirenti non hanno mai ricostruito la dinamica del pluriomicidio e, soprattutto, il movente. Lo scorso luglio il governo cittadino, guidato da dicembre 2018 dal premio Nobel per la Pace Claudia Sheinbaum, ha annunciato, dopo un incontro con i parenti delle vittime, un nuovo piano di indagini. Per David Peña, avvocato delle famiglie e difensore dei diritti umani, non basta aver – «forse» – punito gli assassini. Gli inquirenti e i media hanno prima parlato di un crimine per droga «perché Mile era colombiana». Poi per prostituzione perché Yesenia e Mile «erano delle belle ragazze».

Nessuna linea di indagine, invece, ha preso realmente in considerazione le minacce provenienti dal Veracruz. «Anche se questa è solo una delle possibili piste, chiediamo che non venga esclusa come invece accaduto fino a oggi».

IL 20 NOVEMBRE 2012 Nadia viene brutalmente portata via durante una manifestazione anti-Duarte da un gruppo di agenti vestiti con abiti civili. Rubén riuscì a immortalare il fermo. Quella foto, è la sensazione, ha salvato la vita di Nadia e sancito l’inizio della collaborazione tra il giornalista e l’attivista. Entrambi, poco prima di scappare a Città del Messico, indicarono pubblicamente il governatore come responsabile per la loro eventuale morte.

LE CINQUE VITTIME della Narvarte, ricostruisce Peña, «sono state finite con quello che si chiama “colpo pulito” in testa, modalità tipica del crimine organizzato. Le tre persone arrestate non hanno fornito un movente e non c’è una ricostruzione dei fatti univoca. È un caso irrisolto perché fare giustizia non è solo punire i colpevoli ma capire cosa è accaduto. Si chiama diritto alla verità».

Incontriamo Patricia Espinosa nella colonia Escandón. L’appuntamento è davanti al murales che raffigura le cinque vittime. «Lungo questa strada, da piccolo, mio fratello Rubén andava in bicicletta».

Quest’opera è un «gesto d’amore da parte delle cinque famiglie ma anche un chiaro messaggio al governo: non dimenticheremo. Quando incontriamo qualcuno del quartiere qui davanti ci dice: grazie per continuare a ricordare questo caso».

Daniele Nalbone, Ylenia Sina

da il manifesto

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Messico, i 43 studenti spariti e la scoperta della violenza di stato

24 degli arrestati sono già liberi. Cinque anni fa la scomparsa dei ragazzi di Ayotzinapa. Inchieste indipendenti hanno dimostrato le responsabilità delle autorità

«Fu lo Stato» è ciò che resta, 1.826 giorni dopo il 26 settembre del 2014, dei fatti di Iguala, stato del Guerrero, quando furono uccise 6 persone e 43 studenti della Scuola Normale Rurale Isidro Burgos di Ayotzinapa sparirono nel nulla.

Ad oggi la determinazione degli studenti sopravvissuti e dei genitori dei morti e degli scomparsi non ha portato alla verità, non ha portato ancora alla luce che fine hanno abbiano i 43, ma ha cambiato per sempre la percezione della violenza politica in Messico.

foto Efe

PER IL DOCENTE UNIVERSITARIO e giornalista Oswaldo Zavala «per la prima volta si è rifiutato il discorso ufficiale sulla sicurezza nazionale secondo il quale i principali responsabili della violenza fossero i trafficanti di droga. Da allora la società ha potuto esaminare la violenza di stato perpetrata dalle forze armate. Nessun altro crimine ha ricevuto tanta attenzione e nessun altro crimine ha consolidato il reclamo collettivo contro i governi assassini di Calderon e Peña Nieto». Per, John Gibler, autore del libro Storia orale di una infamia: gli attacchi contro i normalisti di Ayotzinapa, i fatti di Iguala «risuonano, simultaneamente, nella società come atrocità dolorosissima e come simbolo della macchinazione della violenza e impunità esercitata attraverso la fusione tra l’industria illecita della droga e gli apparati di sicurezza dello stato».

La «verità storica» dettata dalla Procura Generale della Repubblica il 27 gennaio 2015 sostiene che gli studenti furono attaccati dalla polizia municipale di Iguala, per conto del gruppo del narco traffico «Guerrero Unidos», e poi portati nella vicina discarica di Cocula e quindi bruciati.

TUTTE LE INDAGINI indipendenti, però, negano scientificamente e storicamente tale ricostruzione. L’ultima è stata presentata il 28 novembre del 2018 dalla Commissione Nazionale dei diritti umani del Messico e si può riassumere con le parole del suo presidente Luis Raul Gonzales Perez: «a Iguala diverse autorità, a livello federale come locale e municipale, sapevano che l’indagine era stata modificata e contaminata, però nessuno ha fatto nulla per evitare il disastro che si è presentato come verità storica». Per poi aggiungere che «diverse autorità hanno violentato il diritto alla verità delle vittime e della società, in molte occasioni».

«Oggi sappiamo che tutte le strutture dello stato messicano dalla Presidenza della Repubblica fino alla Procura Generale e la Segreteria della Difesa collaborarono nell’invenzione di uno scenario falso e torturarono decine di arrestati affinché producessero un discorso falso. L’operazione di copertura da parte dello stato era, ed è, una parte integrante dell’atrocità della sparizione forzata» ricorda Gibler.

foto Efe

VENTIQUATTRO TRA I CARCERATI per il crimine del 26 settembre sono stati liberati ad inizio settembre. Secondo Zavala «il caso ha rappresentato lo spazio dove si sono confrontati potere, gruppi politici, militanti, attivisti e ovviamente le famiglie direttamente interessate. Si è così scoperto che i 43 furono attaccati da forze statali: polizia municipale e federale, così come soldati dell’esercito messicano».

LA NOTTE DEL 26 SETTEMBRE 2014 è, drammaticamente, solo uno dei tanti fatti atroci che hanno segnato gli ultimi 13 anni di storia del Messico, marchiati dalla mal chiamata «Guerra al Narcotraffico» che ad oggi ha generato quasi 200mila morti e 40mila desaparecidos oltre alla retorica complice secondo cui ogni violenza è solo responsabilità dei trafficanti di droga. A differenza degli altri casi, però, l’estensione dell’attacco e la tipologia del gruppo colpito ha scoperchiato il vaso e rotto la norma.

Le scuole Normali Rurali nascono negli anni ’20 per garantire le rivendicazioni della rivoluzione anche nelle aree rurali, e sono presto diventate un presidio di radicalità politica.

Dopo la mattanza di Piazza Tlatelonco, il 2 ottobre ’68, circa la metà delle Scuole Rurali furono chiuse. La particolare natura del gruppo ha generato l’immediata risposta e le denuncia pubblica delle compromissioni e responsabilità delle diverse parti dello stato.

È NATO COSÌ UN MOVIMENTO che per mesi ha riempito le piazze messicane sostenendo che per trovare i desaparecidos e combattere l’orrore di tale violenza si sarebbe dovuto smantellare l’apparato burocratico dello Stato che permette, protegge, copre, e amministra le sparizioni. Il governo di Pena Nieto entrò in una crisi politica irreversibile che obbligo l’ex presidente a spendere tutte le sue energie nel tentativo di contenere, senza riuscirci, la condanna nazionale. Anche a questo si deve la sconfitta elettorale del Pri alle presidenziali del 2018.

Zavala osserva che «Lopez Obrador ha volontà politica di portare avanti le indagini». Il nuovo presidente ha creato una commissione d’inchiesta parlamentare in dicembre, e ha forzato la Fiscalia Generale, la scorsa settimana, ad incontrare i genitori e riaprire il caso, ma per ora non ci sono reali passi in avanti nella ricerca della verità che trasformerebbe, davvero, il paese.

Andrea Cegna

da il manifesto

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Il 26 settembre del 2014, cinque anni fa, venivano fatti sparire decine di studenti della scuola Normale Rurale Isidro Burgos di Ayotzinapa, nello stato del Guerrero in Messico. 

La “verità storica” dettata il 27 gennaio del 2015 dalla Procura Generale della Repubblica dice che i 43 furono uccisi e poi bruciati nella discarica di Cocula, vicino ad Iguala, la città dove centinaia di “normalisti” furono attaccati da polizia municipale, federale e statale, per poi veder gettate tutte le loro ceneri in un fiume. Questa presunta verità è stata prima rifiutata dai genitori e dagli altri studenti e poi sbugiardata da inchieste indipendenti.

I 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa sono diventati, loro malgrado, il simbolo della violenza di stato in Messico.

Cinque anni dopo non si sa ancora che fine abbiano fatto i 43. Ma si conoscono le responsabilità dello stato nello sviamento delle indagini, come detto con forza dalla Commissione Nazionale dei Diritti Umani. La narrazione politica, che, per anni, ha cercato di attribuire tutte le responsabilità della violenza ai trafficanti di droga, si è fermata a Iguala e con il grido “Fue El Estado” (è stato lo stato) è stata imposta una nuova chiave di lettura sul tema della “guerra alla droga”, iniziata nel 2006 e che, ad oggi, è costata 200mila morti e 40mila desaparecidos.

Con diverse voci torniamo a parlare del caso e come questo abbiamo cambiato la storia recente del Messico Ascolta o scarica

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