La deposizione del perito assesta un colpo alla tesi dei pm, secondo cui Maysoon Majidi sarebbe una scafista. Dalla traduzione degli appunti sul cellulare viene fuori che il partito curdo Komala ha raccolto i fondi per far fuggire lei e il fratello
di Silvio Messinetti da il manifesto
«È importante esserci a ogni udienza perché è evidente che è in atto una inaudita persecuzione giudiziaria frutto di una macchinazione ai danni di una ragazza. È capitato a lei, poteva capitare a tutti. Cercano il capro espiatorio con cui provano a mostrare il pugno duro verso i migranti. Questa giovane militante politica oggi rischia l’espulsione in un paese a lei ostile. È la vittima sacrificale di un sistema. Noi siamo qui per bucare il muro del silenzio. E la società civile calabrese ha il merito di aver fatto diventare “il caso Maysoon” un caso nazionale e internazionale. Noi siamo straconvinti della sua innocenza e continueremo a lottare per una sentenza equa e un processo giusto». Filippo Sestito, presidente provinciale dell’Arci di Crotone, le udienze per Maysoon Majidi le ha fatte tutte. Anche quella di ieri.
Apparentemente interlocutoria alla vigilia. Ma probabilmente quella decisiva per l’esito del giudizio immediato che vede sul banco degli imputati la regista e attivista curdo-iraniana Maysoon Majidi, reclusa a Reggio Calabria da 9 mesi e sotto processo a Crotone con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Il destino di Maysoon fluttua intorno a chat whatsapp e telefoni satellitari, connessioni e hotspot. Un processo indiziario privo di prove roboanti che si regge sull’assunto (indimostrato) dell’accusa che Maysoon fosse una scafista e che, in quanto tale, non avesse consegnato il telefono come tutti gli altri naufraghi prima della partenza dalla Turchia. «Si vedeva già dal suo stile di vita che non era come gli altri» ha l’ardire di dichiarare uno dei finanzieri, testi a carico che la identificarono quella mattina del giorno di San Silvestro dello scorso anno. Poi ha preso la parola il perito informatico che ha analizzato il telefono dell’imputata.
E forse il processo gira in un senso a lei favorevole. Perché Fausto Colosimo, ingegnere di Catanzaro, dice intanto che il telefono, malgrado sia stato sempre acceso (e non ricaricato) durante la traversata, Maysoon non lo ha mai usato. E soprattutto, su richiesta del presidente del collegio, Edoardo D’Ambrosio, l’analista decripta, seduta stante, due messaggi dell’11 e del 20 dicembre, dunque prima dell’inizio del viaggio. Si tratta di due «chat a se stessa» ovvero di un paio di appunti che l’imputata avrebbe annotato come promemoria prima di salpare alla volta dell’Europa. La procura, stranamente, ne aveva prodotto e depositato agli atti soltanto una traduzione parziale. Per cui è stato necessario estrapolare e tradurre il resto della chat. E dal testo completo si evince quello che Maysoon va dicendo da quando è cominciata la sua odissea giudiziaria. Compresa la precedente udienza del 18 settembre.
Ovvero che lei è un membro del partito Komala e che i suoi compagni avevano raccolto una cospicua somma, frutto di sottoscrizioni, per permettere a lei e al fratello Jamal di fuggire dall’Iran. In effetti, il Partito Komala del Kurdistan iracheno, di ispirazione comunista, è una formazione storicamente perseguitata in Iran. Antimperialista, sostiene l’autodeterminazione dei curdi. I suoi militanti hanno preso parte alla guerriglia contro il governo iraniano, in particolare durante la ribellione curda del 1979 e la guerra Iran-Iraq. Hanno inoltre combattuto il Partito democratico del Kurdistan iraniano durante gli anni Ottanta e Novanta. Dopo un lungo cessate il fuoco, nel 2017 l’organizzazione ha dichiarato di aver ripreso il conflitto armato contro l’Iran.
Il Komala ha sede a Soulemanya. Proprio in quella città, emerge dalla chat, sarebbe avvenuta la raccolta fondi a favore dei Majidi. «Dopo quanto emerso oggi, dovrebbero scarcerarla immediatamente e darle l’asilo politico» ha esclamato all’uscita il deputato europeo Mimmo Lucano (The Left). Non prima di aver avuto un alterco proprio con la pm del processo, Rosaria Multari, che l’aveva rimbrottato perché fuori dall’aula parlava con il legale di Maysoon, Giancarlo Liberati. Un fuori programma che denota un certo nervosismo degli inquirenti. Perché nell’aula 3 delle udienze penali del Tribunale di Crotone il vento del processo Maysoon Majidi probabilmente da ieri è cambiato.
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