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Marzo 2020: nel carcere di Modena fu rivolta? O cosa?

«Rivolta» a Modena: un falso storico. Vocabolario di denigrazione e vocabolario di criminalizzazione

di Vito Totire –  portavoce della «Rete europea per l’ecologia sociale»

Un emerito direttore del DAP propose una riforma semantica: accogliemmo con favore la proposta pur nella consapevolezza che i cambiamenti non devono essere solo linguistici ma anche sostanziali. “Pensionato” quel direttore (tale Santi Consolo, molto stimato da tanti politicamente moderati ma decisi fautori della necessità che l’esercizio penale risponda al dettato costituzionale) la riforma linguistica pare oggi accantonata.

Santi Consolo proponeva di escludere dal vocabolario parole come “scopino”, “spesino” “domandina”: sostanzialmente si proponeva di superare un vocabolario veicolo di infantilizzazione della persona ristretta. Certo qualche metamorfosi linguistica era gattopardesca “stanza di pernottamento” al posto di “cella”. In ogni modo la proposta non è andata avanti ma ha fatto discutere perché le parole sono importanti nella comunicazione. Ronald Laing per esempio denunciò che il linguaggio usato per descrivere i “pazienti psichiatrici” poteva essere considerato un «vocabolario di denigrazione». Quella sua denuncia ci rimanda all’oggi e fa pensare a un analogo linguaggio – di e per la criminalizzazione – usato nei confronti delle persone private della libertà.

Marzo 2020: per i “fatti” di Modena è stato usato da subito il termine «rivolta», poi adottato da quasi tutti. Ma quella parola non dà affatto l’idea di quello che è veramente successo. Si potrebbe allora cercare di interloquire con gli storici ponendo un quesito: ci sono eventi storici e storicamente definiti «rivolte» che presentino analogie con i fatti di Modena? Esiste cioè un solo evento storico in cui i morti , effetto di una cosiddetta rivolta, sono stati 10 tra i rivoltosi e zero tra gli aggrediti? Se pensiamo a Spartaco, ai ciompi, alle jacqueries, a Masaniello, ai fasci siciliani…nessuna analogia. Certamente è vero che i morti dalla parte dei rivoltosi sono stati di più, contando anche la repressione successiva ai “fatti”; tuttavia 10 a 0 mai!

Allora la dinamica di Modena – a partire dalle versioni ufficiali – assomiglia più a certi drammatici eventi di «suicidio di gruppo» (rari e drammatici esempi che hanno riguardato cosiddette “sette religiose”). Secondo la ricostruzione ufficiale i nove morti di Modena sono per overdose (vi fu un altro decesso nel carcere di Ascoli, su cui avremmo da fare alcune osservazioni ma “giungere all’orecchio della magistratura” pare difficile). Dunque, stando alla versione ufficiale si sarebbe trattato di una condotta autolesionista di gruppo, che con una «rivolta» evidentemente e comunque non c’entra. Ammesso che si sia trattato di nove o dieci casi di overdose e non, almeno, per qualcuno, di un’altra causa di decesso. Gli organi inquirenti si dicono certi che non sia esistita nessuna causa diversa dal metadone ma si può escludere che altre testimonianze possano evocare ulteriori cause e/o concause? Si vedrà.

Accantonata l’assurda ipotesi della «rivolta», prendiamo in esame la condotta autolesionista di gruppo. Ci sono studi di etologia animale su questo tema ma, anche per la difficoltà di estrapolare da una specie all’altra, accantoniamo (per oggi) la questione). In verità anche l’ipotesi di «condotta autolesionista di gruppo» non è soddisfacente. Quando un uomo si abbandona ai “paradisi artificiali” e li ricerca fortemente, la sua condotta non è sempre lineare; in moltissimi casi di overdose non è chiaro il confine tra la volontà di cercare lo “sballo” e la percezione chiara del rischio per la vita. In molti casi l’overdose è involontaria; la persona cerca una sensazione forte di benessere ma poi si trova all’altro mondo. Dunque l’unico elemento certo nei comportamenti delle persone nel carcere di Modena è che queste persone muovevano da un malessere profondissimo, da una situazione di gravissimo distress certamente superiore a quello che può vivere un’altra popolazione che utilizzassimo come “gruppo di controllo”.

I dati sanitari che riguardano la popolazione carcerata italiana sono molto preoccupanti: fumatori 76%, uso di farmaci (in primis psicofarmaci) enormemente più alto della popolazione esterna (vedi riferimenti 1, 2). L’ultimo report di «Antigone» sul carcere di Modena conferma la situazione a proposito degli psicofarmaci. Allora per le persone ristrette nel carcere di Modena l’evento Covid deve essersi riverberato in maniera molto più cruenta di quanto non abbia fatto all’esterno. Dunque non di rivolta si trattò ma di reazioni comportamentali a una gravissima e cronicizzata condizione di distress psicosociale già in essere prima della pandemia e centuplicato da questa.

Sembra che la magistratura intenda perseguire (qualcuno dei superstiti?). Non possiamo sapere se gli organi giudiziari facciano affidamento su un background formativo esaustivo (studi di psicologia sociale , Zimbardo, Milgram ecc) al fine di decidere “in scienza e coscienza”ed. Viamo però cosa dice il dottor Stefano Petrella, medico del carcere di Modena, che peraltro dichiara di essere stato salvato da un detenuto:

«Tralascio le considerazioni sociologiche sulle condizioni di vita dell’ambiente carcerario e sulle paure che il coronavirus ha suscitato negli animi, forse proprio la paura di fare la morte del topo in gabbia, le restrizioni dovute alle necessarie indicazioni di prevenzione sanitaria per rischio di epidemia all’interno degli istituti e la straordinaria strumentalizzazione sempre presente per il desiderio di uscire dal carcere hanno innestato la miccia della rivolta non solo a Modena.

Il dottor Petrella forse poteva dire di più (minus scripsit quam voluit?) ma non lascia molto spazio all’idea dei “cattivi” che “hanno sfasciato tutto”. Parla, attenuando le gravi responsabilità istituzionali, di «restrizioni dovute alle necessarie indicazioni di prevenzione sanitaria» ma il profilo della popolazione detenuta, particolarmrnte fragile, doveva indurre al massimo impegno nella comunicazione e nel dialogo. Se tuttora (vedi il report di «Antigone») gli educatori del carcere sono tre, ci chiediamo come sia stata gestita la comunicazione nella fase di emergenza (mediatori culturali, psicologi?).

La dinamica dell’asserita «rivolta» equivale alla situazione di una comunità sottoposta a emarginazione, costrittività e solitudine, che viene indotta – dalla risonanza della pandemia interna al carcere – in comportamenti ad altissimo rischio: un contesto in cui un gruppo di persone con ideazione depressiva o psicotica è lasciato nella condizione di accedere ad armi da fuoco o a “nodi scorsoi” già confezionati e pronti per l’uso.

Apprendiamo dal «primo rapporto semestrale del 2021 sulle carceri di Modena» che le condotte autolesioniste si sono fortemente ridotte da quando le lamette per la barba vengono consegnate e poi ritirate dopo l’uso. Bene inteso: non sollecitiamo una politica di prevenzione fondata su forme estreme di custodialismo ma ci chiediamo quali fossero le scorte di metadone conservate in carcere nel momento dell’asserita «rivolta»: se l’assalto agli armadietti (anche questo “asserito” : vale a dire qui non si vuole accreditare la versione ufficiale ma momentaneamente adottarla per approfondire) avesse trovato gli armadietti senza metadone ? Non c’era sentore di reazioni comportamentali da distress? Non si ravvisa una condotta istituzionale di omessa custodia? Se fosse passato il quesito referendario sulle “droghe” magari tra un anno la popolazione ristretta potrebbe avere avuto facoltà di coltivare cannabis (selezionate a favore della compente chimica “rilassante”) negli orti del carcere ma la Corte costituzionale ha deciso che i cittadini italiani non possono decidere sul tema; a proposito di regimi autocratici …

In conclusione: a Modena non c’è stata nessuna rivolta; si è trattato di reazioni comportamentali di una popolazione fragile e già esasperata prima del covid che potrebbe aver cercato di sfogare il proprio profondo la malessere nell’uso di dosi eccessive di sostanze stupefacenti rese disponibili dalla mancanza di capacità di prevenzione da parte di chi avrebbe dovuto comprendere quanto le condizioni le rendevano tremendamente appetibili.

Questa chiave di lettura prescinde da altre eventuali informazioni che, sui fatti, dovessero giungere ma di cui oggi non disponiamo.

Respinta l’ipotesi della «rivolta» c’è ben altro che non quadra. Da informazioni relative alla persona trasferita ad Ascoli, e poi lì deceduta, risulterebbe un “non prevedibile” decesso per overdose di metadone; non prevedibile perché il carcerato avrebbe dichiarato di aver assunto solo una piccola dose di tranquillanti minori. Fin qui le informazioni circolate. Certamente sorprende una medicina che, da fiscale che era, diventa rispettosa della soggettività del paziente fino a valorizzala platealmente: quando mai la “medicina fiscale” (di cui la “medicina penitenziaria” è il nucleo d’acciaio) ha valorizzato la soggettività nella raccolta dell’anamnesi piuttosto che l’analisi coatta delle urine raccolte con la supervisione del “grande fratello” sia per le persone detenute che per incensurati lavoratori macchinisti ferroviari oppure operai conduttori di muletti ?

Una società senza carcere è possibile. E dopo i fatti di Modena è sempre più necessaria.

In programma:

Osservazioni al primo rapporto semestrale sulle carceri di Modena e provincia

RIFERIMENTI:

  1. Comunicazione al congresso Aie (associazione italiana di epidemiologia): Zenesini ed altri, atti pag 292
  2. Comunicazione al congresso Aie: Cavallo e altri, atti p. 305

 

da La Bottega del Barbieri

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