La «conquista del deserto», come è stata chiamata la campagna militare intrapresa dal governo argentino nella seconda metà dell’Ottocento per strappare la Patagonia ai mapuche, non è solo un lontano ricordo. Che quella conquista sia ancora in corso, infatti, lo ha mostrato nella maniera più chiara il violento sgombero ai danni della comunità mapuche Lafken Winkul Mapu a Villa Mascardi, nella provincia del Río Negro.

A realizzare l’operazione di sgombero sono stati oltre 250 agenti delle forze federali, che, nelle prime ore della mattina di martedì, sono entrati sparando nell’area occupata nel 2017 dalla comunità mapuche attraverso un’azione di «recupero territoriale». E hanno cominciato a colpire uomini, donne e bambini che capitavano a tiro, dando fuoco alle case e arrestando sette donne, le quali, accusate di incendio, attentato all’autorità e usupazione, rischiano ora di essere giudicate in base alla controversa Legge anti-terrorista.

Delle sette donne, quattro –  Luciana Jaramillo, Andrea Despo, Florencia Melo e Débora Vera – sono state trasferite, per ordine della giudice federale Silvina Domínguez e senza neppure informare i loro avvocati, nel carcere di  Ezeiza a Buenos Aires, a 1.600 km di distanza dalle loro famiglie; due (la machi Betiana Colhuan e María Celeste Guenumil) sono rimaste nel Río Negro, nella sede della polizia aeroportuale, con i neonati da allattare e una (Romina Rosas) è stata ricoverata per una gravidanza a rischio. «Tutto questo ci ricorda l’epoca del genocidio o quella della dittatura militare», ha denunciato Mara Bou dell’Asamblea Permanente por los Derechos Humanos (Apdh) di Bariloche.

Tutt’altra la versione fornita dal ministro della Sicurezza Aníbal Fernández, secondo il quale l’operazione è stata «positiva», condotta «con tutta la cura del caso e senza armi letali»: le famiglie sgomberate, ha detto, non hanno riportato «neppure un graffio». E dello stesso avviso è stata la governatrice rionegrina Arabela Carreras, la stessa che si è schierata a favore di Joe Lewis, il magnate inglese che non solo si è appropriato illegalmente della proprietà attorno allo splendido Lago Escondido, ma impedisce alla popolazione persino di visitarlo. La stessa governatrice che, di fronte alla sentenza che ha obbligato il miliardario a consentire l’accesso al lago, ha pensato bene, anticipando addirittura isuoi avvocati, di fare appello.

La versione di Fernández, tuttavia, non ha convinto la ministra per le Donne, il genere e la diversità Elizabeth Gómez Alcorta, la quale, dopo aver espresso preoccupazione per gli arresti delle sette donne, ha presentato giovedì le sue dimissioni.

Sullo sfondo, la crescente demonizzazione – particolarmente violenta nel Río Negro – del popolo mapuche, considerato dalle destre «una minaccia reale e concreta all’integrità territoriale» del paese, peraltro violata come niente fosse, e con il loro beneplacito, dai vari Lewis e Benetton.

In un clamoroso ribaltamento della storia, l’ex vicepresidente di Carlos Menem Carlos Ruckauf, per esempio, si è scagliato contro quello che ha definito come «un gruppo che per mezzo di una violenza crescente, disconoscendo l’autorità nazionale e provinciale, sta tentando, con una propria bandiera e un proprio inno, di espellere dalle loro case i legittimi proprietari». Proprio «come Putin con le repubbliche di Donetsk e Lugansk», anche i mapuche, ha detto, «prima occupano le terre, poi inventano referendum e infine le rubano». Perché per Ruckauf il recupero delle proprie terre questo è,  un «furto».

Contro l’inasprimento delle politiche repressive sono scese in campo, invece, le organizzazioni per i diritti umani – Abuelas de Plaza de Mayo, Madres Línea Fundadora, Hijos, la Apdh, il Centro de Estudios Legales y Sociales, per citarne solo alcune – le quali, in una dichiarazione congiunta, ricordano che «i diritti dei popoli originari sono consacrati nella Costituzione e devono essere rispettati».

E se il governo Macri e la sua ministra della Sicurezza Patricia Bullrich si erano resi responsabili di crimini – «che ancora attendono giustizia» – come la scomparsa e la morte di Santiago Maldonado nella zona di Cushamen o l’assassinio di Rafael Nahuel proprio a Villa Mascardi, «risulta preoccupante» che il governo di Alberto Fernández stia seguendo la stessa strada, denunciano le associazioni, che chiedono a gran voce la creazione di «un tavolo negoziale che includa tutti i settori».

A chiedere il dialogo è anche il coordinatore del Parlamento Mapuche-Tehuelche di Río Negro Orlando Carriqueo, il quale, pur evidenziando come «la violenza in questo territorio l’abbia sempre imposta lo stato», ha esortato i governi nazionale e provinciale all’avvio di un negoziato per il 12 ottobre, in coincidenza con la giornata del rispetto per la diversità culturale, in relazione non solo  alla situazione in Villa Mascardi, ma anche ad altri conflitti territoriali.

«Malgrado il genocidio e i cento anni di violenza istituzionale a cui ci hanno sottoposto», e in un momento in cui «veniamo discriminati e accusati di terrorismo», ha dichiarato Carriqueo, «siamo disposti a seguire il cammino del dialogo. Se lo stato non accetta vuol dire che vuole il conflitto».

da il manifesto