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L’uso appropriato del nemico

Sulle orme di Carl Schmitt. Cos’è una democrazia liberale? Nella storia recente, caratterizzata da quella che è stata definita «crisi», questo tipo di regime si è pronunciato sulla denuncia degli estremi e ha utilizzato la paura per ricorrere a diverse modalità di stato di emergenza. Questa inclinazione autoritaria è congiunturale o intrinseca a un liberalismo al contempo politico ed economico?

di Evelyne Pieiller

Il concetto di «democrazia liberale», seppur banale, è contrassegnato da una certa vaghezza. Certo, sono ben chiari la sua opposizione a quanto un tempo si definiva «democrazia popolare», ormai mal vista, e il suo schieramento contro l’«illiberalismo», ma poi?

Certo, viene spontaneamente associata al liberismo economico, ma poi? Emmanuel Macron, che recentemente ha voluto rimarcare di fronte ai suoi pari l’affetto che le porta, ne ha fornito una notevole definizione: la democrazia liberale sarebbe «quella che, profondamente, in tutte le sue componenti, preserva le libertà individuali e civiche di noi cittadini[1]». La frase sorvola sulla dimensione economica ma è sottinteso che il diritto alla concorrenza libera e non falsata rientra tra le libertà individuali – «in tutte le sue componenti».

Il seguito, altrettanto vibrante, ha una nota inquietante: «Come possiamo mantenere un equilibrio tra libertà e responsabilità?». Il rapporto non è affatto scontato, ma Macron ha iniziato a delucidarlo in occasione degli auguri ai francesi (31 dicembre 2021) quando, a partire dall’esempio della vaccinazione, affermava: «Essere un cittadino libero coincide sempre con l’essere un cittadino responsabile per sé e per gli altri. I doveri vengono prima dei diritti».

La democrazia liberale può quindi «preservare le libertà individuali e civiche» solo se i cittadini condividono la definizione di «responsabilità» proposta dallo Stato. Su questa linea, poco tempo dopo, conclude: «Un irresponsabile non è più cittadino[2]».

Macron lavora senza posa a esplicitare questo dovere relativo al diritto alla cittadinanza. Prima del secondo turno delle elezioni presidenziali, in una lunga intervista (France culture, 18 aprile 2022), fa il punto sulla propria concezione globale della politica verso cui tende. Nel corso di questo intervento scandito dall’insistenza sulle tensioni e sulle contraddizioni presenti nella società e sul conseguente rischio di una sua frattura, precisa la sua visione di irresponsabilità. Commentando le manifestazioni dei «gilet gialli», condanna inequivocabilmente ogni «tipo di violenza liberata, anche nel dibattito pubblico». Al contrario di quanto potremmo essere indotti a credere, la sua condanna non si riferisce alla repressione poliziesca ma ai manifestanti.

Perché «la domanda è come si arriva a creare adesione, rispetto, considerazione tra cittadini che possono pensare in maniera molto diversa». La «violenza liberata» è un elemento di discordia. Quindi, bisogna «riconsiderare la nostra democrazia nell’ottica del rapporto con la radicalità, come io chiamo questa volontà di purezza. Perché alla fine, viviamo tutti insieme. (…) Sono necessari dei compromessi».

Naturalmente, «viviamo tutti insieme», tuttavia il compromesso sembra a dir poco asimmetrico, poiché è compiuto dal solo cittadino: o si «de-radicalizza», qualunque sia il radicalismo in questione, o, se respinge ogni invito al compromesso, diventa potenzialmente portatore di violenza, in altri termini… «irresponsabile».

Affinché la democrazia protettrice possa continuare ad assicurare le libertà, è fondamentale che sia escluso dalla comunità l’irresponsabile il cui radicalismo rappresenta un pericolo

per quest’ultima, ma come conciliare, in concreto, questa esclusione con lo Stato di diritto? «Nel post-Covid, (…) si porta avanti la ridefinizione del nostro contratto sociale, con doveri anteposti ai diritti, dal rispetto per l’autorità alle prestazioni sociali[3]», ripete il portavoce del governo, Gabriel Attal, a complemento delle vigorose parole del presidente. Resta tuttavia aperta la questione di capire come anteporre i doveri ai diritti. Jean-Jacques Rousseau, se così possiamo dire, autore originale del Contratto sociale, offriva all’epoca una risposta semplice e diretta: «Il più forte non è mai tanto forte da essere sempre il padrone, se non trasforma la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere».

Ma possiamo definire «liberale» questo proposito? Il giurista tedesco Carl Schmitt (1888-1985) permette di misurare le implicazioni e la logica di questa contraddizione. Ha una reputazione disastrosa, commisurata ai suoi impegni: dopo aver rivestito un ruolo importante sotto la repubblica di Weimar, aderisce al partito nazista. Nel 1934 pubblica un articolo intitolato «Il Fuhrer protegge il diritto», volto a motivare giuridicamente l’eliminazione dei capi delle sezioni d’assalto (Sa) nella «Notte dei lunghi coltelli». Durante un convegno di giuristi nel 1936, chiede che la legge tedesca sia liberata da ogni traccia di «spirito giudaico»…

Ora, questo rinomato costituzionalista, ultraconservatore cattolico, fervente antisemita, ha proposto negli anni 1930 una serie di analisi sui limiti del pensiero liberale che hanno attirato l’attenzione di molti tra politici, giuristi, filosofi, di ogni campo: da René Capitant a Raymond Aron, da Alain de Benoist a Walter Benjamin, da Friedrich Hayek a Chantal Mouffe o Giorgio Agamben, per citare alcuni esempi…

A destra, si elogia la sua dimostrazione della necessità di uno Stato forte. A sinistra, si celebra la sua demistificazione dell’ordine liberale, che veniva ritenuto naturale e ragionevole, come «violenza continuativa», ben illustrata dal filosofo Jean-Claude Monod. Con foga sarcastica, Schmitt critica quello che ritiene essere un grande inganno, il parlamentarismo e la proliferazione di partiti cui conduce: secondo lui, la valorizzazione dell’individualismo porta a una richiesta di estensione dei diritti da parte di diversi gruppi di pressione, con una politicizzazione della società e una spoliticizzazione dello Stato. Se non c’è una verità comune, può esistere solo un consenso e, in mancanza del consenso, una crisi permanente. Quest’ultima «deriva dalle conseguenze della democrazia di massa moderna, e la ragione ultima è l’opposizione tra un individualismo liberale sorretto da un pathos morale e un sentimento democratico dello Stato dominato da ideali essenzialmente politici[4]». Ma che fare quando non si raggiunge spontaneamente il consenso, il compromesso razionale nato dal dibattito? E che interesse ha lo Stato al suo effettivo raggiungimento?

Che fare, dunque, quando il liberalismo si prefigge l’obiettivo di «distruggere la politica, terreno di violenza e di spirito di conquista, grazie allo Stato di diritto»? Lo Stato allora non può far altro che designare il nemico.

«Il nemico», per Schmitt, è l’angolo cieco del liberalismo, poiché il suo fondamento è un’etica della discussione basata sulla convinzione che la ragione sia comune a tutti, escludendo l’antagonismo, figlio del malinteso o dell’incomprensione: ora, pretendere di dissolvere o sospendere, grazie al funzionamento democratico, i conflitti e le divergenze di interesse, nel senso ampio del termine, non può che condurre in breve tempo al suicidio, come dimostra, per Schmitt, la fine della repubblica di Weimar.

Non solo «ogni antagonismo religioso, morale, economico o altro si trasforma in antagonismo politico appena è abbastanza forte da provocare un’effettiva suddivisione degli uomini in amici e nemici», ma questo gruppo «si crea nella prospettiva di una prova di forza[5]» . In altri termini, che si riconosca il primato al dibattito, al compromesso o all’espressione della diversità delle opinioni, la politica è legata al conflitto, si sviluppa, in un modo o in un altro, è capace di agire e di decidere solo definendo il nemico. «Parole come Stato, repubblica, società, classe ; e anche : sovranità, Stato neutrale o Stato totale, sono inintelligibili se non individuiamo chi, concretamente, deve essere colpito, combattuto, contestato e respinto sulla base di queste parole[6]». Il nemico della democrazia liberale non potrà essere altri che il nemico dei valori liberali. L’estremista. L’avversario del bene comune. Il difensore del radicalismo, agli occhi di Macron e dei suoi omologhi.

Si emana lo «stato d’eccezione»

Quando si teme per la sorte del bene comune, il potere annuncia l’apertura di una «crisi». La situazione identificata come crisi permette di designare il nemico e di predisporre quel che ne causerà la sconfitta. Ma, come scriveva a Schmitt Raymond Aron, che lo apprezzava tanto da affermare che non potesse essere stato un nazista e da pubblicare uno dei suoi più importanti libri, «dobbiamo concepire il nemico come problema politico per comprenderlo meglio come problema morale». Esattamente. Per restare nell’impresa fondamentale di depoliticizzazione della politica nel cuore del liberalismo, «queste crisi tenderanno a essere sistematicamente interpretate come un conflitto di valori[7]», così da evitare, per esempio, di parlare di antagonismi di classe e da legittimare le strade scelte per la loro soluzione.

La «crisi» sopraggiunge, dunque, per preservare questi valori, per decretare la neutralizzazione del nemico, uscendo dal contesto liberale attraverso l’emanazione dello «stato d’eccezione».

Per Schmitt, si tratta di un «contributo straordinario dovuto al possesso legale del potere legale[8]», che permette di trasformare ogni opposizione in violazione del diritto…

Questa via d’uscita legale dallo Stato di diritto ha avuto un discreto successo, in forme e ambiti diversi, ma essenzialmente sotto lo stendardo di una protezione contro il pericolo comune –per fermarsi agli eventi più recenti del terrorismo e della pandemia.

In Francia, lo stato d’emergenza è una variazione sullo stato d’eccezione[9]. È stato istituito dalla legge del 3 aprile 1955 e modificato diverse volte, in particolare nel 1960 e dalla legge del 20 novembre 2015. Può essere dichiarato per decreto dal consiglio dei ministri su tutto o parte del territorio, sia in caso di pericolo imminente per gravi attacchi contro l’ordine pubblico sia in caso di calamità pubblica (catastrofe naturale). Da una durata iniziale di dodici giorni, può essere esteso attraverso il voto di una legge in Parlamento. Permette di rafforzare i poteri delle autorità civili e di limitare alcune libertà pubbliche o individuali. Dal 1955 al 2015 è stato applicato sei volte per motivi politici (in particolare gli attentati durante la guerra d’Algeria, le «violenze urbane» del 2005 e dopo gli attentati terroristici).

La pandemia, invece, ha implicato uno stato di emergenza sanitaria, regime giuridico speciale, istituito dalla legge del 23 marzo 2020, e temporaneamente inserito nel codice della sanità pubblica. Questo regime di eccezione, sanitario e non più di sicurezza, ha avuto un clamoroso successo : oltre cento paesi hanno adottato una propria versione. Quando lo Stato di diritto implica che lo Stato sia sottoposto al diritto, quando l’azione pubblica è vincolata al rispetto della separazione dei poteri e all’esigenza di garantire i diritti individuali, la democrazia liberale si sta forse ricredendo, in nome della protezione della società? Niente affatto, stando a Bernard Cazeneuve, allora ministro dell’interno, poiché «lo stato d’emergenza, non è uno stato d’eccezione. È costitutivo dello Stato di diritto[10]».

Siamo verosimilmente di fronte a un caso esemplare di pensiero complesso. Sembrerebbe che l’analisi critica di Schmitt l’antiliberale, l’avversario del parlamentarismo, ma promotore di un’economia libera da ogni vincolo, abbia notevole pertinenza. Per l’organizzazione liberale, in questa «nuova tappa della modernità, fondata sull’esistenza di un consenso», sembra proprio che «ogni resistenza al consenso sia ritenuta arcaica e nociva»[11]. Ildissenso è il nemico e lo stato d’eccezione appare come una teoria del politico appropriata alla sua struttura.

Buoni democratici da un lato, pericolosi antidemocratici dall’altro – che non meritano più il nome di cittadini. La fase di «crisi» della sicurezza o sanitaria, presto forse ecologica, economica, ecc., permette di imporre uno Stato autoritario negli ambiti prescelti, e di screditare i fermenti di divisione. Compresi quelli che rientrano nel campo della lotta sociale. Il tutto in nome del Bene, maschera deliberatamente spoliticizzata dell’ordine.

Il «fascino illiberale», secondo il pensiero macroniano espresso negli auguri alla stampa (3 gennaio 2018), per diffondersi, sfrutta «le debolezze della democrazia, la sua estrema apertura, la sua incapacità di definire le gerarchie, di riconoscere infine una forma di autorità». Difficile dirlo meglio, a meno di non essere Schmitt.

Non è sicuro che l’unico estremo ai suoi occhi auspicabile, il sorprendente «estremo centro[12]», ossia il blocco borghese, incaricato di opporsi agli altri «estremi» con un vigore proporzionale al pericolo che rappresentano, sia il nemico dell’illiberalismo. Nel 1932, Schmitt non sostiene ancora Hitler. Come riassume Grégoire Chamayou, sostiene l’idea di un «potere verticalizzato, che metta un apparato di propaganda e repressione al servizio di un programma economico liberale, implicato nell’estremo centro[13]».

La democrazia liberale è quindi intrinsecamente destinata a essere autoritaria o a scomparire?

da Le Monde Diplomatique – Giugno 2022

Traduzione a cura di Alice Campetti

note:

[1] Dichiarazione al «vertice per la democrazia» internazionale in videoconferenza, 9 dicembre 2021

[2] Le Parisien, 4 gennaio 2022

[3] Le Parisien, 29 gennaio 2022.

[4] Carl Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005

[5]  Ibid

[6] Ibid

[7] Marie Goupy, L’État d’exception ou l’impuissance autoritaire de l’État à l’époque du libéralisme, CNRS Éditions, Parigis, 2016.

[8] Carl Schmitt, Legalità e legittimità, Il Mulino, Bologna, 2018.

[9] Cfr. Jean-Claude Monod, Penser l’ennemi, affronter l’exception, La Découverte poche, Parigi, 201

[10] Le Monde, 20 luglio 2016

[11] Chantal Mouffe, «Penser la démocratie moderne avec, et contre, Carl Schmitt», Revue 1992.

[12] «Les matins», France Culture, 18 aprile 2022

[13] Carl Schmitt e Hermann Heller, Du libéralisme autoritaire, traduzione, prefazione e note di Grégoire Chamayou, Zones, Parigi, 2020

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