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Los Angeles: malgrado l’esercito e la marina inviati da Trump, le mobilitazioni continuano

Nella città californiana, da una settimana centinaia di persone manifestano tutti i giorni contro gli arresti di lavoratori senza documenti. In maggioranza ragazze, figlie di immigrati, che si fanno portavoce di che non ha voce: i loro genitori.

di Patricia Neves da Mediapart.fr – traduzione e note a cura di Salvatore Palidda

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Manifestanti durante una manifestazione sotto un’autostrada a Los Angeles, l’8 giugno 2025. © Foto David Pashaee / Middle East Images tramite AFP

Los Angeles (Stati Uniti). – Era quasi mezzogiorno di giovedì 12 giugno quando i primi residenti hanno dato l’allarme. Un’auto della polizia, con i lampeggianti accesi, è entrata nel piccolo centro commerciale nel quartiere centrale di Huntington Park. In quel momento, un residente ha fotografato il veicolo dal marciapiede di fronte. Ha immediatamente inviato la foto ad Ana, un’amica, insieme alla posizione esatta degli agenti. Ana, commessa di un negozio, lavora proprio accanto. Rischia di essere arrestata da un momento all’altro: non ha i documenti. “Ecco perché ho paura”, confida. “Ecco perché mio figlio ha paura”.

Da diversi giorni, le operazioni dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) degli Stati Uniti si sono intensificate a Los Angeles e nelle piccole città operaie circostanti, compresi i luoghi di lavoro degli immigrati, luoghi finora rimasti relativamente indenni dalle autorità.

A Huntington Park, sede di una numerosa comunità latina, e altrove a Los Angeles, in particolare nel Fashion District, queste operazioni hanno scatenato un’immensa rabbia e successive ondate di proteste.

Nonostante il presidente Donald Trump abbia inviato migliaia di militari, la Guardia Nazionale e i Marines, nulla è cambiato: nell’ultima settimana a Los Angeles, centinaia di persone hanno manifestato quotidianamente, per diverse ore al giorno, contro gli arresti di lavoratori senza documenti. Nella folla radunata giovedì davanti al Municipio, molti giovani hanno marciato pacificamente sotto uno splendido cielo azzurro. Alcuni avevano appena terminato la scuola superiore. Hanno circondato diversi edifici federali, in particolare il Metropolitan Detention Center, dove sono trattenuti gli immigrati senza documenti. Gran parte dei giovani manifestanti apparteneva alla comunità latina. Sui loro cartelli, scritti con un pennarello, semplici frasi – in spagnolo – riassumono perfettamente la situazione: “La mia famiglia ha lottato per il mio futuro, ora tocca a me”.

 Il black out contro gli immigrati

Tra la folla c’è Paul, un fotografo amatoriale ventenne che sta documentando le proteste per un account Instagram messicano con sede a Tijuana. Spiega di voler documentare la violenza della polizia. “Guarda, ho un livido enorme, qui sul braccio e sulla schiena. L’altro giorno un agente mi ha sparato sei colpi con proiettili di gomma”. La storia di Paul, nato negli Stati Uniti, è simile a quella di molti altri. Suo padre messicano “ha lavorato sodo” per crescerlo. Paradossalmente, era un immigrato clandestino, ma un dipendente comunale (come tanti altri). “Il suo lavoro era potare le palme, simboli di Los Angeles”, racconta il giovane. “Era necessario per evitare il rischio di incendi”. Il comune assunse mio padre perché era più economico. All’epoca, c’era una differenza di circa cento dollari tra gli stipendi giornalieri dei dipendenti. Chi aveva un permesso di soggiorno veniva pagato di più, chi non ce l’aveva veniva pagato di meno.” Prima della morte di suo padre, avvenuta a 54 anni a causa del COVID-19, Paul viveva “sempre nella paura”. Ora protesta.

Davanti a lui, numerosi agenti di polizia locale stanno in piedi, indossando uniformi nere, manganelli o scudi. I loro nomi scritti in maiuscolo – “Munoz”, “Garcia”, “Morales” – sono tutti di origine straniera (come la quasi totalità degli abitanti degli Stati Uniti, il paese che da sempre si nutre di immigrazione). Come dice Stephen Yale-Loehr, ex professore di diritto, “per espellere, l’amministrazione fa di tutto in questi giorni”.

A Los Angeles, questa situazione di “porte chiuse”, che in alcuni giorni ha portato a violenti scontri prima dell’introduzione del coprifuoco, è potuta passare quasi inosservata. Fuori dal quartiere di Downtown, dove si trova il complesso federale, la vita scorre pacificamente. Solo il rumore degli elicotteri e delle sirene delle auto della polizia sembra tradire la mobilitazione dei giovani. Ma in televisione le manifestazioni sono ovunque. Si parla di “crisi” e “caos”, soprattutto sui canali di informazione della destra. È in questa strana atmosfera, molto calma e molto tesa, che si sta svolgendo la nuova fase della politica anti-immigrazione di Donald Trump oltreoceano.

Secondo Stephen Yale-Loehr, ex professore di diritto alla Cornell University, “L’amministrazione Trump, che ha fatto del controllo dell’immigrazione una priorità della sua campagna elettorale, sta ora cercando di espellere un milione di persone all’anno. Per raggiungere questo obiettivo, sta utilizzando ogni strumento immaginabile. Oggi l’amministrazione sta andando ovunque, anche in luoghi precedentemente considerati “sensibili” -chiese, aule di tribunale, scuole, ecc.- e sta mobilitando altre agenzie federali, come l’FBI e la polizia locale. Allo stesso tempo, sta cercando di raccogliere informazioni dalle sue varie agenzie per creare un database che faciliti l’identificazione dei cittadini senza documenti“.

 La repressione di una “Città Santuario”

Il fatto che Washington stia concentrando i suoi sforzi repressivi in California non è una coincidenza. Questo stato sud-occidentale, delimitato dall’Oceano Pacifico, ospita il maggior numero di immigrati clandestini del paese: 1,8 milioni di residenti senza permesso di soggiorno, secondo i dati del Pew Research Center [oltre 5 milioni in tutti gli Stati Uniti e questo anche ai tempi di Obama che non ha fanno nulla per regolarizzarli … perché l’economia statunitense -come quella di tutti i paesi dominanti- si nutre del supersfruttamento degli immigrati costretti a restare senza permesso -vedi Razzismo democratico -scaricabile gratis]. La sola città di Los Angeles ne ospita quasi la metà (800.000 persone). Non sorprende che il presidente Trump stia incontrando una forte resistenza. La California e Los Angeles, entrambi stati di opposizione a Trump, hanno adottato lo status di “città santuario”, limitando la condivisione di informazioni e risorse tra le autorità locali e le forze federali in materia di immigrazione. Il governatore della California Gavin Newsom, potenziale candidato democratico alla presidenza nel 2028, si è rapidamente imposto come una delle principali voci dell’opposizione. Ha già contestato l’invio di truppe militari in tribunale, che giovedì si è pronunciato a suo favore in prima istanza. All’inizio di questa settimana, ha tenuto un discorso di dieci minuti [qui il suo discorso in italiano] che ha suscitato molte discussioni, soprattutto sui canali di informazione di sinistra. Ha affermato: “Quello a cui stiamo assistendo non è repressione poliziesca, ma autoritarismo”. Gavin Newsom deplora l’uso dell’esercito come pretesto per creare una crisi e limitare le libertà civili: “Ciò che Donald Trump vuole soprattutto è il vostro […] silenzio”. Nelle strade di Los Angeles, la battaglia di immagini e narrazioni lascia indifferenti i giovani manifestanti. Ora arrivano muniti di sacchetti di plastica, sacchetti per il freezer, bottiglie d’acqua, mascherine – per i gas lacrimogeni – e tappi per le orecchie. “L’amministrazione ci osserva, ma anche noi la osserviamo”, spiega un giovane manifestante la cui famiglia è messicana. “Fotografiamo le operazioni dell’ICE e della polizia, le pubblichiamo sui social media e su qualsiasi altra piattaforma disponibile per allertare la gente”, aggiunge. “Perché ci sono padri e madri che scompaiono. Vengono rapiti. Per settimane dopo gli arresti, le famiglie rimangono senza notizie.”

A Huntington Park, le strade fiancheggiate da case modeste e fabbriche sono stranamente vuote. Giovedì, la Segretaria per la Sicurezza Nazionale Kristi Noem è venuta ad assistere personalmente a un’operazione di controllo dell’immigrazione. Si è svolta a poche centinaia di metri da dove lavora Ana, la commessa del negozio. “A volte mi sento come se i miei figli fossero più stressati di me. Mi dicono: ‘Mamma, resta a casa oggi’. Ma io devo lavorare. Lavoro per la mia famiglia. Tutto quello che faccio, lo faccio per i miei figli.” I bambini del quartiere, infatti, si sono riuniti sabato 14 giugno per un’altra manifestazione.

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