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L’occupazione di una casa in stato di necessità non è punibile

La Cassazione, esclude la punibilità di una occupazione abitativa  in presenza della necessità di garantire un tetto ai propri figli minori

di Fabio Grimaldi – Avvocato

La Cassazione dice sì alla particolare tenuità del fatto per chi occupa abusivamente una casa popolare per dare un tetto ai propri figli minori. Scatta infatti la scriminante dello “stato di necessità”.

È quanto si ricava dalla sentenza della seconda sezione penale della Corte di Cassazione (n.46054/2021), chiamata a pronunciarsi su una vicenda che vedeva condannate, dalla Corte d’Appello di Messina, due famiglie per il reato di occupazione abusiva di un alloggio popolare.

La decisione dei giudici della Suprema Corte merita senz’altro condivisione, ma, nello stesso tempo, stimola riflessioni critiche circa la gravità e l’urgenza di soluzioni che sta assumendo, in senso generale, l’irrisolto problema dell’emergenza abitativa e degli sfratti ormai da troppo tempo ignorata dalla politica.

Tanto più che, neppure in presenza della urgenza derivante dalla Pandemia in essere, ha abbozzato alcuna regolamentazione che potesse assumere il ruolo di guida nell’affrontare il problema abitativo, neppure in riferimento a quel futuro che vorrebbe orientare con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PRRN).

Ha sancito quindi la Suprema Corte che per il reato di occupazione abusiva d’immobile (abitazione), va riconosciuta la scriminante della “particolare tenuità del fatto”, se ricorre appunto lo “stato di necessità” di dare un tetto ai figli minori.

In motivazione la Corte di Cassazione ha censurato la decisione di merito della Corte D’Appello per i seguenti motivi:

  • mancato riconoscimento della causa di non punibilità prevista dall’art.131 bis cod. pen., pure invocata in modo puntuale con gli atti di appello.
  • vizio di mancanza di motivazione, ex art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., quando le argomentazioni addotte dal giudice a fondamento dell’affermazione di responsabilità dell’imputato siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate con i motivi di appello e dotate del requisito della decisività. L’abusiva occupazione di un bene immobile è scriminata dallo stato   di necessità conseguente al pericolo di danno grave alla persona, che ben può consistere anche nella compromissione del diritto di abitazione, ovvero di altri diritti fondamentali della persona riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost..
  • La Corte di Cassazione poi motiva ulteriormente, disponendo che, per tutto il tempo dell’illecita occupazione, occorre che ricorrano gli altri elementi costitutivi della scriminante, quali l’assoluta necessità della condotta e l’inevitabilità del pericolo; ne consegue che la stessa può essere invocata solo in relazione ad un pericolo attuale e transitorio e non per sopperire alla necessità di reperire un alloggio al fine di risolvere in via definitiva la propria esigenza abitativa (Sez.2-Sentenza n.10694 del 30/10/2019, dep.2020, Tortorici, Rv. 278520).

E’ di assoluta importanza il richiamo all’articolo 2 della Carta Costituzionale da parte del Supremo Collegio, poiché vi si enuncia un principio fondante la civile convivenza tra i cittadini di questo Paese: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

L’articolo afferma il principio personalista che, come ha stabilito la Corte Costituzionale (167/1999), “pone come fine ultimo dell’organizzazione sociale lo sviluppo di ogni singola persona umana”. La tutela dei diritti dell’uomo, quindi, rappresenta un tratto essenziale del carattere democratico della Repubblica.

La giurisprudenza sembra ormai concordare con l’opinione secondo cui il concetto di “inviolabilità” non riguarda solamente la protezione dei cittadini dalle illecite intromissioni delle autorità nella loro sfera privata, ma costituisce “un invito effettivo affinché le istituzioni si adoperino per soddisfare le esigenze primarie dei singoli individui”.

Quindi, se la Corte di Cassazione penale sancisce la non sanzionabilità dell’occupazione dovuta a necessità, è opportuno che gli stessi principii trovino costante applicazione in ambito civilistico, nonostante la diversità delle condizioni delle parti.

Ci si chiede quindi se detti principii non debbano riguardare anche gli alloggi privati in locazione e quindi non solo quelli del patrimonio pubblico, ed  inoltre se lo “stato di necessità” debba ritenersi soltanto quello riferito a nuclei familiari con figli minori, come nel nostro caso, e non anche, ad esempio, a chi perde il lavoro.

Occorrerebbe cioè che lo stato di necessità – conseguente al pericolo di danno grave alla persona, come compromissione del diritto di abitazione quale diritto fondamentale della persona riconosciuto e garantito dall’art. 2 Cost. – comportasse non l’automatismo dello sfratto, bensì la mesa in atto d’una misura alternativa da parte delle istituzioni pubbliche, che prevenga la condizione drammatica del rimanere senza alloggio.

Si tratta di quanto sostanzialmente affermato dall’Alto Commissariato per i Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, che per un caso di esecuzione di uno sfratto (in Italia) ha affermato che si dovrebbe adottare la: “sospensione dell’esecuzione di rilascio dell’immobile, ovvero di provvedere ad un alloggio alternativo e adeguato alle esigenze proprie del ricorrente e del nucleo familiare”.

Va sempre tenuto presente che il “diritto all’abitazione” è, come ribadito anche dalla Corte costituzionale, «incluso nel catalogo dei diritti inviolabili» che l’Edilizia Residenziale Pubblica è diretta a garantire in concreto «a soggetti economicamente deboli nel luogo ove è la sede dei loro interessi (C. Cost. sentenza n. 176 del 2000), al fine di assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti (art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), mediante un servizio pubblico deputato alla “provvista di alloggi per i lavoratori e le famiglie meno abbienti” (così sentenza n. 1140 del 2020 del TAR Lazio).

Non si vada alla ricerca di soluzioni semplici, ma la gravità della condizione descritta deve necessariamente impegnare tutta la Politica a trovare soluzioni legislative concrete, efficaci e realistiche, soprattutto necessarie ad assicurare il rispetto e l’attuazione dei diritti inalienabili dei cittadini, in special modo quelli di rango costituzionale, come il diritto ad avere un‘abitazione dignitosa in cui vivere.

Per fare ciò occorrerebbe prima di tutto fermare la svendita del patrimonio pubblico immobiliare (e quello degli Enti Previdenziali che dovrebbero anch’essi perseguire il Pubblico Interesse e non logiche di profitto a scapito dei cittadini) sottraendolo alla speculazione immobiliare e restituendolo alla sua originaria funzione di garanzia sociale.

Il problema non è solo giuridico ma investe sfere più ampie e più alte della civile convivenza, in uno Stato, il nostro, che si dice democratico ma che continua a non attuare la Costituzione, in un contesto ove sembrano perdere forza quei vincoli comunitari e solidaristici che hanno rappresentato i principi fondanti della nostra società e che oggi sembrano soppiantati da una tendenza individualistica di sfrenata competizione tra gli esseri umani e da una perversa e distruttiva bramosia di profitto, ormai “divinizzata” e divenuto unico metro di valutazione dell’essere umano.

Occorre quindi riaffermare con forza i valori di solidarietà, uguaglianza e giustizia sociale, posti a fondamento della Costituzione, come fonte di Civiltà e fonte d’ispirazione per chiunque si occupi della gestione della “Cosa Pubblica”.

Ebbe a dire Piero Calamandrei, uno dei nostri Padri costituenti: “.. fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società”.

Scarica pdf Cassazione n. 46054/2021

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