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Lo stato di diritto in frantumi

Abbiamo visto il sorriso di Stefano; abbiamo visto le sconvolgenti foto del suo corpo spento, tumefatto, torturato. Vogliamo, come la famiglia, «verità e giustizia». Non possiamo sopportare la solita omertà. Non si può morire a 31 anni per 20 grammi, una maledetta «modica quantità». Siamo indignati: la vista del corpo piagato di Stefano ci parla, infatti, delle nostre Guantanamo quotidiane. «La banalità del male» disse la Harendt del nazismo. Potremmo ripronunciare le sue parole di fronte al ministro La Russa che tenta di condizionare le stesse inchieste giudiziarie dichiarando che tutti i carabinieri sono corretti per principio (è un sorta di impunità pregiudiziale, che tenta di deviare ogni controllo ed ogni critica). Noi chiamiamo, invece, in causa le responsabilità politiche di un governo, a partire dal ministro dell’Interno, che costruisce volutamente il clima di impunità per gli uomini dello Stato che hanno commesso reati. I nostri ragazzi non possono morire, infatti, per un uso incontrollato della violenza da parte di settori dello Stato: quanti sono, negli ultimi anni, da Carlo Giuliani ad Aldrovandi a Stefano? Quanti ci sono perfino ignoti? Questo stillicidio di violentismo statale quotidiano, notturno, e di frequenti omicidi è la bancarotta dello stato di diritto. I nostri ragazzi uccisi, certo. I corpi mercificati di donne e uomini. Né possiamo essere sordi e silenti di fronte alle grida strozzate, alle richieste di aiuto che ci arrivano ogni giorno dalle galere etniche, nelle quali maltrattamenti e violenze sono dettati anche da un fetido e feroce razzismo. La teoria delle «poche mele marce» tra carabinieri e militari è una foglia di fico che copre problemi organici: di formazione, di cultura, di addestramento, di catena di comando. Sono problemi strutturali che attengono tutti alla violazione di dettati costituzionali. Vi è, lo diciamo da anni, inascoltati anche da parte del centrosinistra (ignorante e spesso connivente), il grande tema della militarizzazione dell’ordine pubblico; nei quartieri popolari delle nostre metropoli, i giovani (e le ragazze che sfidano il coprifuoco) lo sanno bene, vi è la guerra, spesso la caccia all’uomo da parte delle ronde in divisa dello Stato. Viviamo uno “stato di eccezione” permanente; la metafora del passaggio dallo stato sociale, che deperisce, allo stato penale globale, più che mai militarista. Il potere impone la società disciplinare e colpisce duramente e illegittimamente comportamenti e stili di vita che giudica ad essa non conformi. U no stato di diritto muore, infatti, se viene meno uno dei suoi fondamenti: l’ habeas corpus . Un fondamento antichissimo del diritto, che pone un limite assoluto all’arbitrio del potere statuale. Quando una persona è imprigionata, incarcerata, comunque detenuta, è nelle mani delle polizie e ad esse consegna la sua vita. Qui scatta la responsabilità assoluta dell’organo dello Stato che lo detiene prigioniero. La vita, dignità inviolabile è sacra anche per il detenuto che ha commesso il reato più infame. Figuriamoci nel caso di Stefano. Il suo corpo torturato è stato sottratto perfino alla vista dei genitori per sei giorni; un corpo scomparso. L’uccisione di Stefano è, allora, l’ennesima violazione di un cardine della democrazia. Bisogna intervenire anche normativamente. E’ possibile che non venga abrogata la legge Fini-Giovanardi, che contraddice ogni logica, anche internazionale, di sperimentazione, di solidarietà, di riduzione del danno? Perché, inoltre, il parlamento italiano è uno dei pochissimi parlamenti tra i paesi retti dallo stato di diritto che non introduce nel nostro ordinamento il reato di tortura? Lo sappiamo: è stato bloccato dai leghisti e da alcuni ministri per avallare le torture nelle caserme di Napoli e di Bolzaneto contro il movimento altermondialista. Occorre, ora, riproporre con urgenza il tema. Va, finalmente, introdotta una figura indipendente di controllo civico del rispetto dei diritti umani nelle carceri, nei commissariati, nelle stazioni di polizia, nei centri di identificazione per immigrati. Una forma di difensore civico con ampie funzioni. E ci interesseremo dei reparti carcerari ospedalieri, monumenti di ipocrisia ed omertà (come ci indica l’uccisione di Stefano) nei quali vanno introdotte regole elementari di informazione ai familiari e di democrazia. Come si fa, infatti, ci chiediamo, in un ospedale a non rispondere per sei giorni ad una mamma che vuole sapere dello stato di salute del proprio figlio? L’uccisione di Stefano dice a noi che dobbiamo rilanciare la sfida democratica, rimettendo al centro la Costituzione, lo stato di diritto, il costituzionalismo democratico. Ogni giorno.
Giovanni Russo Spena

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