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L’Europa perde la testa?

I segnali di una crescente inclinazione occidentale alla paranoia in tema di immigrati e rifugiati si moltiplicano. E nel frattempo cresce la preoccupazione del ceto politico egemone (socialdemocratico o democristiano che sia) per la possibile affermazione della destra estrema, xenofoba e nazionalista in Europa e negli Usa. Il simbolo di questa deriva, inimmaginabile sino a una decina d’anni fa, è l’ascesa di Donald Trump nei sondaggi sulle presidenziali americane. Il candidato con il riporto, pittoresco, impresentabile, xenofobo, sboccato e ondivago potrebbe essere il prossimo presidente dello stato più potente al mondo.

Ma l’Europa non sta meglio. Quasi tutti gli stati orientali (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia) sono in mano a governi autoritari o reazionari che soffiano sul fuoco della paura degli stranieri (e l’Austria potrebbe aggiungersi tra poco alla lista). In Ungheria, il governo spedisce ronde paramilitari di estrema destra a pattugliare i confini con la Serbia. Ma anche l’Europa occidentale non scherza in materia. All’origine del Brexit non ci sono solo il nazionalismo e l’arroganza dei conservatori inglesi, ma anche l’insofferenza di vasti strati della popolazione operaia e rurale per la presenza di lavoratori che provengono dall’Europa dell’est. In Francia, lo stato d’emergenza dopo gli attentati contro “Charlie Hebdo”, il Bataclan e a Nizza, è continuo e non si esclude la vittoria alle prossime presidenziali della Le Pen. Ma forse l’aspetto più preoccupante di tutti è il richiamo incessante, monotono e ossessivo allo stato di guerra in cui si troverebbe ormai l’intero occidente.

Ogni grave conflitto è preceduto da questo incupirsi, quasi sempre inconsapevole ma dilagante, dell’opinione pubblica. Ed ecco allora che il compito primario di chi non ha perso la testa è smontare le leggende metropolitane, le falsità e i cortocircuiti mediali che oggi stanno alimentando la grande paura europea. Il primo aspetto da chiarire  è senz’altro la relazione tra guerra all’Isis, o Daesh che dir si voglia, e terrorismo. La risposta classicamente francese agli attentati domestici è stata: “Intensifichiamo i bombardamenti in Siria e Iraq!”. Prima di essere una reazione emotiva (ma che mira in realtà all’opinione pubblica francese in vista delle elezioni), si tratta di un appello strategicamente insensato. I bombardamenti decisi da Hollande dopo l’attacco contro il Bataclan non hanno affatto diminuito la possibilità di attentati sul suolo francese. Anzi. Come hanno messo recentemente in luce le agenzie di intelligence americane, la disarticolazione delle strutture islamiche sul territorio facilita la diaspora dei combattenti e il loro sciamare in Europa. Era successo all’epoca della guerra in Algeria contro il Fis, nei primi anni Novanta, e dopo l’apparente vittoria americana in Iraq del 2003.

A questo si deve aggiungere che la possibilità di colpire i civili, quando si usano i droni o i bombardieri, è altissima. E ciò aumenta il risentimento delle popolazioni contro le potenze straniere che intervengono direttamente dal cielo o appoggiano una parte in conflitto. Ecco allora che la classica reazione di sfida a un nemico invisibile e introvabile, tipica di un leader debole come Hollande, si traduce, anche nel breve periodo, in un’ulteriore indebolimento strategico e quindi in ulteriori lutti, sia per i civili iracheni o siriani, sia per la stessa popolazione francese.

Il secondo aspetto decisivo ò l’impossibilità di stabilire una relazione di causa ed effetto tra migrazioni o fuga dalla guerra e terrorismo. Come è ovvio e ampiamente noto, nessuna organizzazione, come l’Isis o al-Qaida, affiderebbe i propri uomini alle rotte pericolose e aleatorie che oggi attraversano il Mediterraneo.  In realtà, gran parte degli attacchi recenti contro Francia e Germania si devono o a cittadini europei di religione islamica o giovanissimi che hanno sposato autonomamente la propaganda dell’Isis (una sorta di terroristi in regime di self-franchising che l’Isis riconosce immediatamente per ragioni fin troppo ovvie). Ma anche quando si tratta di rifugiati, il loro numero è irrisorio e statisticamente irrilevante rispetto all’arrivo dei profughi dopo l’estate del 2015.Anche se l’Europa sigillasse le frontiere, cosa peraltro impossibile tecnicamente, le possibilità di reclutamento o auto-reclutamento in nome dell’Isis resterebbero intatte.

Considerazioni analoghe valgono per la paranoia in tema di Islam e soprattutto per l’appello allo stato di guerra che risuona dovunque in Europa, a destra soprattutto ma anche nella sinistra moderata, istituzionale e mediale. In primo luogo, questi appelli non possono che echeggiare nei paesi di religione islamica, favorendo un’evidente radicalizzazione reattiva che l’Isis apprezzerà certamente. Si tratta di una propaganda militarista letteralmente cieca sulle conseguenze e quindi stolta e irresponsabile. Soprattutto se si pensa che nessuno ha le idee chiare sulla consistenza del “nemico”, né sulle strategie politiche e militari adeguate. Cacciare gli islamici dall’Europa? Schedarli, più di quanto oggi non avvenga? Portare i boots on the ground in un’area che va da Tangeri alla Cina occidentale? Creare un fronte occidentale anti-Islam? Nessuna di queste posizioni, richieste implicitamente o esplicitamente da un’opinione pubblica che sta perdendo la testa, ha il pregio della sensatezza.

Istituire una super-intelligence europea? Proprio nel momento in cui cresce l’insofferenza nazionalistica per la Ue in Europa, anche questa linea di condotta sembra impraticabile, esattamente come la creazione di una forza armata europea  integrata (a meno che Trump non tenga fede alla sua proposta di far uscire gli Usa dalla Nato…). E allora? Che cosa si può pensare a di là della propaganda xenofoba e del velleitarismo in politica internazionale?

Nient’altro che riportare i piedi per terra e mostrare come il peggior nemico degli europei siano i leader che soffiano sul fuco neo-nazionalista o che, come in Francia, ne sono terrorizzati sino al punto di copiarli in tutto e per tutto. Migranti e profughi non costituiscono nella loro enorme maggioranza alcun pericolo reale per l’occidente (e anzi, come un po’ cinicamente ripetono economisti e demografi, sono una risorsa in cui vantaggi per l’occidente non tarderanno a manifestarsi). Non solo: i lutti che l’occidente ha creato in trent’anni di guerra nei paesi arabi e/o islamici sono incommensurabili rispetto a quelli causati dai terroristi in Europa. Come ha notato la stampa tedesca in questi giorni, questa è la posizione che implicitamente o apertamente ha assunto la Germania di Angela Merkel, che ha dichiarato di mantenere le posizioni di sempre in tema di diritto di asilo e di non avere intenzione di chiudere la portai ai profughi (ciò che potrebbe causarle una possibile disfatta elettorale).

In ogni caso, che la difesa di un punto di vista lungimirante e umano (a onta dell’accordo con Erdogan) sia assunta da una leader democristiana la dice lunga su una realtà imprevedibile sino a pochi anni fa.  E la dice lunga anche sulla crisi, letargia o agonia di una sinistra che su questi temi non vuole o non può più esprimersi.

Alessandro Dal lago da a-dif.org

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