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Legalità e disobbedienza

La disobbedienza alla legge può essere veicolo di crescita democratica non solo perché in grado di provocare l’intervento della Corte costituzionale. Essa ha un ulteriore ruolo fondamentale: a tutela dei singoli e dei loro spazi incomprimibili di libertà e come antidoto alle involuzioni della democrazia verso forme oligarchiche e autoritarie.

di Livio Pepino

In un recente articolo Gustavo Zagrebelsky, prendendo le mosse dal decreto legge cosiddetto anti-rave, pone alcune domane da sempre – e oggi più che mai – cruciali: «L’ubbidienza è comunque una virtù?», «Di fronte alla legge ingiusta c’è modo di reagire legalmente?», «È possibile essere “ribelli secondo il diritto”, in coerenza con la Costituzione?». A queste domande Zagrebelsky risponde in modo puntuale, sul versante giuridico, concludendo che la disobbedienza alla legge, anche nei moderni stati di diritto, può essere un fattore di democrazia in quanto idonea a provocare l’intervento della Corte costituzionale a cui spetta il giudizio sulla conformità a Costituzione, e dunque sulla validità, di tutte le leggi. Nulla da aggiungere, restando sul piano scelto dall’autore, alle sue lucide e convincenti argomentazioni. Ma le domande da lui sollevate sono di tale rilievo che un risposta limitata alla ricognizione dei meccanismi giuridici per attivare il giudice delle leggi rischia di essere riduttiva. A venire in rilievo, infatti, è la stessa sostenibilità democratica di un sistema istituzionale fondato esclusivamente sulla coppia comando/obbedienza.
È, dunque, opportuno allargare l’analisi.

Primo. Contro ogni forma di disobbedienza il potere invoca – lo vediamo anche in questi giorni – il rispetto della legalità, cardine di ogni convivenza civile. Legalità – si dice – significa rispetto delle leggi. Difficile contrastare i fondamenti etimologici e concettuali della definizione. Ma, scavando, ci si accorge che la complessità del reale rende la definizione, quantomeno, insufficiente e che l’invocazione acritica della legalità può trasformarsi in un inganno o in un tranello. Una concezione della legalità coerente con una impostazione democratica può prescindere dai contenuti della legge cui si chiede obbedienza? In termini più espliciti: è coerente con una dimensione di legalità democraticamente accettabile l’obbedienza rigorosa e acritica alla legge ingiusta? Alle leggi razziali, alla legge che prevede la pena di morte, alla legge che divide gli uomini in liberi e schiavi? La risposta è, ovviamente, negativa e ciò dimostra che il riferimento alle regole non può essere sinonimo di conformismo e di accettazione acritica dell’esistente. A fronte della legge (ritenuta) ingiusta la disobbedienza è una reazione politica che fa parte delle dinamiche di una società democratica. Lo ha intravisto, in epoche particolari della storia, finanche il diritto positivo. Nel documento fondativo della rivoluzione borghese del 1793 sta, infatti, scritto: «quand le gouvernement viole les droits du peuple, l’insurrection est pour le peuple et pour chaque portion du peuple le plus sacré des droits et le plus indispensable des devoirs». E alcune costituzioni contemporanee prevedono esplicitamente un diritto/dovere di resistenza dei cittadini a fronte di decisioni delle istituzioni che violano diritti e princìpi fondamentali. Ciò sta scritto, per esempio, nell’articolo 20 della Costituzione portoghese del 1976 che prevede il «diritto di opporsi» anche «con la forza» a qualunque aggressione ai diritti fondamentali. Superfluo dirlo, chi pone in essere atti di disobbedienza accetta le sanzioni poste a difesa della norma violata, come fecero i (pochi) docenti universitari che rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo (e furono, per questo, destituiti dall’incarico) o come hanno fatto per decenni gli obiettori di coscienza al servizio militare (subendo, per questo, il carcere). Lo fa confidando che la sua protesta evidenzi l’ingiustizia della norma violata e ne determini, conseguentemente, il cambiamento.

Secondo. Per il pensiero maggioritario che ha attraversato la storia fino alla modernità, il potere di governo è assoluto e senza limiti (come proclamava Creonte, più di due millenni fa, nell’Antigone di Sofocle: «All’uomo che la città ha eletto al suo governo bisogna obbedire nelle piccole come nelle grandi cose, in quelle giuste come in quelle ingiuste. […] Non c’è male peggiore dell’anarchia: rovina le città, sconvolge le case, e in guerra spezza le file e mette in rotta. È l’obbedienza, invece, che salva il maggior numero di vite»). Conseguente è l’idea di un governo della polis, legittimato dal principio di realtà (dal fatto cioè di esistere) indipendentemente dal modo in cui viene esercitato. Ogni governo è “buono” perché è governo, quali che siano le sue modalità e manifestazioni. Ad esso si deve comunque obbedienza e non c’è posto, nella società, per il conflitto. Tale impostazione ha subìto importanti evoluzioni fino ai moderni stati di diritto e alle costituzioni contemporanee in cui il governo degli uomini è stato capace di raffinarsi e di offrire strumenti ai suoi stessi antagonisti. Così l’obbedienza al governo è stata sostituita dall’obbedienza alle leggi. E persino – come si è detto – dalla possibilità di cancellare la legge se in contrasto con la Costituzione. Ma, alla fine di tutti i filtri e le mediazioni, è ancora e sempre sull’obbedienza che si fonda la convivenza civile. Questa concezione della democrazia è, peraltro, formalistica e asfittica. Il potere, infatti, ha dei limiti intrinseci, etici prima ancora che giuridici o politici, e quando quei limiti vengono superati, intaccando la libertà e la dignità delle persone, l’obbedienza cessa di essere una virtù (per dirla con le parole di don Lorenzo Milani ai cappellani militari) e la ribellione diventa un obbligo.
Vi sono di ciò conferme continue. Lo Stato inteso, secondo il paradigma hobbesiano, come macchina potente e terribile, unica depositaria della forza e capace, per questo, di produrre, con il terrore, giustizia e sicurezza non ha superato la prova della modernità e si è rovesciato nel suo opposto, in una potente macchina di produzione di disordine e insicurezza. Bisogna, dunque, partire da qui e cogliere la necessità, per un governo razionale delle società complesse, di un ridimensionamento del ruolo attribuito alla forza e alla potenza e, addirittura, per usare parole di Marco Revelli, di «una critica esplicita alla categoria stessa della Potenza (fonte dei mali più che strumento delle soluzioni), a favore invece di logiche “altre”: cooperative, connettive, relazionali». Logiche di cui fanno parte anche il conflitto e la disobbedienza. Nei momenti acuti, quelli in cui il conflitto si fa più aspro, il potere tende a considerare la ribellione come disfattismo e i suoi attori come nemici della società, da isolare e/o eliminare. Ma ciò non basta a esorcizzare l’ineluttabilità del conflitto (che è nelle cose, anche se aspetta chi gli dia voce).

Terzo. C’è di più. Il conflitto sociale e politico (di cui la disobbedienza è una componente fondamentale), oltre che inevitabile, è, da sempre, la fonte e il motore di ogni trasformazione in senso democratico della società. Lungi dall’essere un fattore di disgregazione della polis e di disordine, esso diventa un elemento necessario per compensare e correggere l’abuso del potere. Anche le moderne democrazie sono perennemente a rischio. La storia degli Stati nazionali – anche quella contemporanea – è costellata di situazioni in cui la spregiudicata costruzione/amplificazione di un pericolo per la polis ha prodotto svolte autoritarie. Basta pensare alla Turchia, dove le purghe di Erdogan dopo lo sgangherato e provvidenziale tentativo di colpo di Stato del luglio 2016, sono state estese oltre ogni limite e fondate per lo più su meri sospetti. E, nel nostro Paese, la dicono lunga la strategia della tensione e il succedersi delle stragi degli anni Settanta, messe in atto da (o con la copertura di) pezzi delle istituzioni per contrastare il cambiamento politico che si andava prefigurando. Il fatto è che le procedure non garantiscono a sufficienza, soprattutto se i sistemi politici subiscono forti torsioni maggioritarie. La ribellione agli abusi del potere (reali o comunque ritenuti tali) è proprio ciò che richiama alla necessità di controllarne l’esercizio, che, in assenza di contestazioni, si dispiegherebbe in modo incontrollato.
Il dissenso e la disobbedienza mantengono dunque, anche nello Stato di diritto, un ruolo fondamentale. Non solo a tutela dei singoli e dei loro spazi incomprimibili di libertà ma anche come antidoto alle involuzioni della democrazia verso forme oligarchiche e autoritarie. Involuzioni sempre in agguato, come ha ammonito in passato lo stesso Zagrebelsky osservando che «costruire la democrazia equivale a lavorare per combattere, limitare e distruggere le oligarchie, con la precisa consapevolezza che a un’oligarchia distrutta, subito seguirà la formazione di un’altra, spesso composta da coloro che hanno distrutto la prima». Contro questa continua e tendenziale prevaricazione del potere si pongono i gesti di ribellione e di disobbedienza: particolarmente importanti (e talora necessari) perché «la democrazia non è mai un luogo, un posto, un risultato conquistato una volta per tutte, ma è un lavorio continuo».
Una concezione della democrazia e della politica che esclude il conflitto e la disobbedienza è riduttiva e povera. La politica è un mosaico composto da una pluralità di tessere. È ovvio che, come non bastano alcune tessere per realizzare un mosaico, così non bastano alcuni atti di disobbedienza a definire una politica razionale e lungimirante. Ma quando una politica siffatta non c’è e addirittura manca una reale opposizione, come accade oggi nel nostro Paese, solo la disobbedienza radicale può risvegliare le coscienze e attivare percorsi di cambiamento. La disobbedienza non si sostituisce alla politica ma la provoca, la attiva, la sollecita. Senza gesti esemplari, senza forzature – almeno in questi tempi bui – non c’è né politica né futuro. La disobbedienza mette il dito su errori, soprusi, ingiustizie e attiva così nuovi processi: nell’immediato, nel sentire collettivo, nella storia della politica e della cultura, come dimostra la fortuna di Antigone nei secoli. Penso a Rosa Park, arrestata e denunciata nel 1955 a Montgomery per essersi rifiutata di cedere il posto su un mezzo pubblico a un bianco, violando così le leggi sulla segregazione, diventata, per questo, punto di riferimento per i movimenti di liberazione dei neri d’America; o a Jean Palack e al suo drammatico suicidio, nel 1969 a Praga, che lo trasformò in simbolo della resistenza antisovietica nel suo Paese; o allo studente che nel giugno 1989, solo e disarmato, si parò contro i carri armati in piazza Tienanmen e la cui fotografia è diventata un’icona della lotta contro la tirannia; o allo sconosciuto soldato che, nel 1898 a Milano, rifiutò di eseguire l’ordine del generale Bava Beccaris di sparare sulla folla, e fu, per questo, fucilato sul posto e a molti altri ancora. Sono stati gesti e ribellioni insignificanti? O hanno contato di più, nella storia e nella coscienza dei popoli, di molti putsh militari o anche di velleitarie sollevazioni sedicenti rivoluzionarie? Credo che la risposta sia scontata.

da Volere la Luna

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