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Le proteste per il clima censurate. Il caso Lützerath dopo il black out della Rai

Il punto più basso, nella capacità di servilismo verso il potere, lo ha toccato il Tg1 della Rai, radiotelevisione pubblica italiana, rifiutando di mandare in onda le immagini sulla protesta di Ultima Generazione, del 2 gennaio scorso, quando il gruppo ambientalista ha imbrattato con vernice lavabile la facciata di palazzo Madama. Stessa sorte è toccata alle proteste di Lützerath, in Germania.

di Gianluca Cicinelli

Il punto più basso, non per vantarci delle italiche rinomate capacità di servilismo verso il potere, altro che watchdog semmai semplicemente dog e senza offesa al cane, lo ha toccato il Tg1 della Rai, radiotelevisione pubblica italiana, rifiutando di mandare in onda le immagini sulla protesta di Ultima Generazione, del 2 gennaio scorso, quando il gruppo ambientalista ha imbrattato con vernice lavabile la facciata di palazzo Madama. Decisione di vertice e non dei giornalisti, sia chiaro.

Stessa sorte è toccata alle proteste di Lützerath, in Germania. Come denuncia la collega tedesca Jelena Malkowski oggi su Die Tageszeitung, a Lützerath l’accesso alla stampa è stato limitato e sono stati molti gli attacchi ai giornalisti . “Questo è problematico – scrive Malkowski – perché se alla stampa viene negato l’accesso, non ci sono rapporti indipendenti sui fatti e la polizia non è autorizzata a limitare questo diritto”.

Alcuni giornalisti e fotografi sono stati spintonati e allontanati durante la manifestazione in Germania, mentre cercavano di riprendere le immagini di un attivista bloccato, fatto cadere e immobilizzato a terra dalla polizia. E’ storia nota che quando la stampa non è presente le libertà democratiche di tutti sono messe a rischio.

Ma non è solo l’ambientalismo e le proteste relative al clima a far paura ai palazzi del potere. Il 27 giugno scorso la Rai aveva censurato anche il confronto tra gli attori Ficarra e Picone e il presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci, togliendo i fischi del pubblico a Musumeci con un taglio netto del servizio presente su Raiplay.

E ancora: l’associazione di giornaliste Giulia ha contestato la rimozione del documentario “Rita Atria, la settima vittima” di Giovanna Cucè, oltretutto andato in onda nello Speciale Tg1 dello scorso 17 luglio, in occasione dell’anniversario della strage di via D’Amelio. Rimosso da Raiplay a causa di possibili procedimenti legali minacciati da alcune persone citate nell’inchiesta.

L’ultimo rapporto di Ossigeno per l’Informazione ci dice che soltanto nei primi nove mesi del 2022 gli operatori dell’informazione che hanno subito intimidazioni o querele temerarie sono stati 564 (attraverso 173 episodi) contro i 288 dell’anno scorso.

Insomma, parlare di censura in atto verso chi racconta cosa accade nella realtà non è gridare al lupo, purtroppo. E non è una tendenza, è un dato di fatto.

Che il potere non ami le critiche è cosa nota anche questa. La Rai dà spazio alle proteste contro la censura di regimi come quello iraniano o cinese applicando alle proteste sul clima, alle inchieste sulla mafia e alle manifestazioni contro il governo lo stesso stile di Pechino.

Qualche lettore più anziano ricorderà il dibattito che si scatenò nel 1981 sul dare spazio o meno alle notizie sul caso di Giovanni D’Urso, magistrato rapito, poi liberato, dalle Brigate Rosse. Venne scomodato l’esperto di comunicazione di massa canadese Marshall McLuhan, che propose di “staccare la spina”. In sostanza disse che per battere il terrorismo bisognava non enfatizzare le gesta dei brigatisti rossi, e se possibile ignorarle.

Per fortuna non andò così e grazie a uno spazio autogestito del Partito Radicale il comunicato andò in onda e il magistrato fu salvo. Ma questo sentimento così diffuso di censura, oltre che di viltà, sta riemergendo con forza e non colpisce soltanto il giornalismo pubblico ma quello indipendente.

I fatti accadono e vanno documentati senza se e senza ma. Sembra una banalità ma è esattamente questo il principio giornalistico più antico che viene messo in discussione. Arretrare di un passo su questo discrimine significa fare un mestiere diverso dal giornalismo.

In questo momento sotto attacco sono le azioni di protesta dei movimenti di sensibilizzazione per il clima. Anche perchè sono le poche azioni di protesta in corso nel mondo. Cittadini e cittadine, in particolare giovani, che mettono il proprio corpo in gioco per affermare il diritto alla vita e alla qualità della vita.

Anche i potenti, governi, grandi aziende, speculatori ci costringono senza chiedercelo a mettere in gioco il nostro corpo ma verso la sua distruzione, costringendoci a respirare aria inquinata, ad assistere a inondazioni prevedibili quanto non prevenute, a eventi catastrofici che accelerano la fine del pianeta.

Il nostro lavoro consiste nel documentare tutto quel che avviene. Se poi questo comporta problemi per “Lorsignori” sarà ancora più piacevole utilizzare lo strumento del giornalismo per fare in modo che non governino più, se non sono in grado di farlo senza mentire e censurare l’informazione.

da Diogene

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